[..] Ebbene: in tal senso io sono come un negro in una società razzista che
ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un "tollerato".
La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un
solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una "tolleranza
reale" sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si "tolleri" qualcuno
è lo stesso che lo si "condanni". La tolleranza è anzi una forma i condanna più
raffinata. Infatti al "tollerato" - mettiamo al negro che abbiamo preso ad
esempio - si dice i far quello che abbiamo preso ad esempio - si dice i far
quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che
il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera
eccetera. Ma la sua "diversità" - o meglio la sua "colpa di essere diverso" -
resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi
abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria
coscienza il sentimento della "diversità" elle minoranze. L'avrà sempre,
eternamente, fatalmente presente. Quindi - certo - il negro potrà essere negro,
cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori - certo - dal
"ghetto" fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato
assegnato.
Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà
libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera
eccetera, ma egli resterà sempre dentro un"ghetto mentale", e guai se uscirà a
lì.
Egli può uscire a lì solo a patto i adottare l'angolo visuale e la mentalità
di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.
Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere
"tinta" dall'esperienza particolare che viene vissuta a chi è
rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto
mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle
l'esperienza sia un'esperienza normale, cioè maggioritaria.
[...]
Perché non parlo di fascisti. Parlo di "illuminati", di "progressisti". Parlo
di persone "tolleranti". Dunque, ecco provato quanto ti dicevo: fin che il
"diverso" vive la sua "diversità" in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli
viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza
che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di
"diverso", oppure, semplicemente, osa pronunciare delle parole "tinte" dal
sentimento della sua esperienza di "diverso", si scatena il linciaggio, come nei
più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più
goliardico, l'incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella
vergogna.
[...]
Pier Paolo Pasolini: GENNARIELLO in Lettere Luterane -
L'Unità Einaudi (pagg. 23-26)