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Millenovecentosettantacinque - riparliamone
Di Fabrizio (del 21/05/2013 @ 09:00:56, in Kumpanija, visitato 1430 volte)

[..] Ebbene: in tal senso io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un "tollerato".

La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una "tolleranza reale" sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si "tolleri" qualcuno è lo stesso che lo si "condanni". La tolleranza è anzi una forma i condanna più raffinata. Infatti al "tollerato" - mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio - si dice i far quello che abbiamo preso ad esempio - si dice i far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua "diversità" - o meglio la sua "colpa di essere diverso" - resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il  sentimento della "diversità" elle minoranze. L'avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi - certo - il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori - certo - dal "ghetto" fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.

Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un"ghetto mentale", e guai se uscirà a lì.

Egli può uscire a lì solo a patto i adottare l'angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.

Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere "tinta" dall'esperienza particolare che viene vissuta a chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l'esperienza sia un'esperienza normale, cioè maggioritaria.

[...]

Perché non parlo di fascisti. Parlo di "illuminati", di "progressisti". Parlo di persone "tolleranti". Dunque, ecco provato quanto ti dicevo: fin che il "diverso" vive la sua "diversità" in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di "diverso", oppure, semplicemente, osa pronunciare delle parole "tinte" dal sentimento della sua esperienza di "diverso", si scatena il linciaggio, come nei più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più goliardico, l'incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella vergogna.

[...]

Pier Paolo Pasolini: GENNARIELLO in Lettere Luterane - L'Unità Einaudi (pagg. 23-26)