Assaman Martedì 08 Maggio 2012 13:27 - Scritto da Alessandra Montesanto
In Razzisti a parole (per tacer dei fatti) - un saggio edito da Laterza
nella collana Il nocciolo - Federico Faloppa prende in considerazione
parole, modi dire e frasi ricorrenti nella comunicazione degli italiani che
suggeriscono una mentalità ancora molto, troppo chiusa nei confronti degli
stranieri. Ma il linguaggio è anche un pretesto per analizzare le politiche in
atto, il mondo dell'informazione e la società stessa in relazione ai temi
dell'intercultura e delle nuove forme di polis e di cittadinanza.
Perché ha sentito l'urgenza di scrivere questo saggio? Si può
parlare, oggi, ancora di "razzismo"?
Lavoro sui temi del libro da una quindicina d'anni, ormai. E proprio
dall'osservazione del linguaggio, e dei suoi usi, ho avuto l'impressione che in
questi ultimi quindici anni - malgrado nel frattempo la società italiana sia
diventata più complessa, si sia arricchita di presenze, sia diventata, per usare
un termine chiaro ancorché discusso, molto più "multiculturale" - il nostro modo
di rappresentare questa ricchezza, questa "diversità" (in particolare quella
apportata dai migranti), e di parlarne, sia diventato paradossalmente più
approssimativo, più stereotipico, e poco rispondente alla realtà. Anzi, mi pare
che - per una serie di fattori precisi e concomitanti - atti non sporadici di
xenofobia, un evidente "razzismo istituzionale" (a questo proposito, invito a
leggere il recente libro di Clelia Bartoli Razzisti per legge), un disarmante
conformismo dell'informazione - si sia anche creato, in particolare nel decennio
2001-2011, un discorso razzista diffuso, direi egemonico: talmente egemonico da
apparire spesso normale, da non fare più scandalo, da non poter essere quasi
messo in discussione. Da passare paradossalmente per "realista" (malgrado gli
stessi dati lo sconfessino), in opposizione a quel presunto "buonismo" cui si
attribuiscono - artatamente - tutti i mali... Da queste constatazioni è nata
l'urgenza di scrivere un pamphlet che tentasse di decostruire questo discorso
egemonico, proponendo al lettore alcuni semplici esercizi di smontaggio dei
"testi" e quindi dei messaggi, più o meno celati, che questi veicolano.
Nel libro ha preso in considerazione alcune parole ed espressioni di uso comune:
"negro", "clandestino", "vu' cumprà": soffermiamoci sulla loro accezione
negativa - specie nel caso dei "clandestini" e cerchiamo di capire cosa nasconde
questa terminologia...
Provo a essere sintetico, anche se certi argomenti - in termini linguistici -
andrebbero sceverati con scrupolo. La lingua di per sé non è né buona né
cattiva. Dipende dai contesti, dagli usi, da fattori para-linguistici ed
extra-linguistici (come, rispettivamente, l'intonazione e le convenzioni
sociali, ad esempio). È altrettanto vero, però, che sul piano del significato
alcune parole hanno connotazioni negative, valutative, offensive più marcate
rispetto ad altre. Ed il significato è legato certo al momento
dell'enunciazione, ma anche alla storia, al "peso" che una certa parola porta
con sé. Ebbene, gli esempi che lei ha fatto, da questo punto di vista, sono
diversi. Negro, seppur etimologicamente "corretto", ha assunto nel tempo
connotazioni estremamente negative, ed oggi viene utilizzato soprattutto con
intento ingiurioso (in binomi lessicali o espressioni fisse come "sporco negro",
"negro di merda"). Clandestino ha conosciuto uno slittamento semantico
importante, ed e diventato, soprattutto nell'ultimo decennio, una sorta di iperonimo per migrante, immigrato irregolare, richiedente asilo, rifugiato,
ecc.; anzi - questa e la tesi che sostengo - è diventato un termine per indicare
non uno statuto temporaneo, ma quasi permanente: si è clandestini
ontologicamente, per natura, prima ancora di esserlo di fronte alla legge. Vu'
cumprà, neologismo degli anni Ottanta che sembrava scomparso, riaffiora non di
rado nel linguaggio giornalistico, ed anzi - in ragione della sua stabilità
nella lingua - è diventato anche morfologicamente produttivo (avendo originato i
vari vu' lavà, vu' parcheggià, vu' stuprà, ecc.). Queste e altre etichette hanno
usi e storie diverse, dicevo. Ma hanno una drammatica affinità: possono essere
pericolosamente ambigue, insinuanti, offensive. E sono ormai parte di un lessico
xenofobo riconoscibile, strutturato, diffuso. E di cui si fa sicuramente abuso,
sia nel linguaggio politico, sia in quello quotidiano e - mi si perdoni il
bisticcio - dei quotidiani e dei mezzi di informazione.
Molto interessante il capitolo che riguarda la cosiddetta "Discriminazione
transitoria positiva": di cosa si tratta ? E quali sono le conseguenze nei
confronti degli alunni stranieri?
Con quel capitolo ho tentato di criticare non solo l'impianto della cosiddetta
"mozione Cota" (quella, tanto per capirci, che nel 2008 proponeva l'introduzione
di "classi separate" nelle scuole italiane, indirizzate agli "immigrati" o ai
"figli di immigrati" che non padroneggiassero l'italiano) - un impianto fondato
su pochi triti luoghi comuni, privo di qualsiasi base glottodidattica - ma anche
il linguaggio, approssimativo, sciatto, fumoso, con cui essa venne scritta e
presentata, dentro e fuori il parlamento. Se si legge con attenzione quel testo,
è facile trovarvi lacune, contraddizioni, falsi presupposti che non dovrebbero
essere presenti in un documento del genere: un documento che tratta un argomento
cosi importante come l'educazione delle nuove generazioni e l'idea di società
che, a partire dalla scuola, si vuole costruire. Ma lo stesso esercizio di
smontaggio si potrebbe fare su molti altri testi proposti e discussi negli anni
scorsi, non solo dalle maggioranze di centro-destra. Perché il punto non è
(soltanto) quello di accusare di incompetenza gli estensori di quella
particolare mozione. È anche quello di puntare il dito contro i molti, troppi
discorsi privi di argomentazioni solide, in tema di immigrazione: redatti per
fini elettorali, o sull'onda dell'emozione suscitata da fatti di cronaca più o
meno gravi. Tornando alla scuola, non dimentichiamo che questa istituzione ha un
ruolo - e una responsabilità - fondamentale. Sia perché - nei fatti - è già da
anni un formidabile laboratorio di convivenza, dialogo, "intercultura". Sia
perché ha il ruolo, preziosissimo, di trasmettere un pensiero critico e di
raccontare la complessità agli italiani e ai "nuovi italiani". Non a caso si è
cercato, e si cerca di depotenziarla ad ogni occasione: sottraendole risorse,
competenze, autorevolezza.
È ancora in atto, a suo parere, una "politica della paura" che porta a
considerare gli immigrati come una minaccia per la sicurezza sociale?
Il governo in carica, per fortuna, ha smesso di calcare la mano sul tema. E
anzi, mi pare aver derubricato la voce "paura percepita" dalla lista dei
problemi e delle priorità della sua agenda politica. Tuttavia, se a livello
politico nazionale la tensione si è (forse) affievolita, ed i toni sembrano meno
allarmistici, non bisogna dimenticare che quei veri e propri carceri che sono i
CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), sono ancora in piedi, e lavorano
a pieno regime. E obbligano alla detenzione coatta centinaia di persone (molte
delle quali - tra l'altro - avrebbero diritto a protezione internazionale senza
se e senza ma) per le quali è stato di fatto abolito l'habeas corpus. Inoltre, a
livello locale (sui media, nelle ordinanze comunali, ecc.), spesso i discorsi
paiono essere sempre quelli: "attenzione, elettori, immigrati e rom sono sempre,
per definizione, una minaccia!"
Perché la paura e la diffidenza sono rivolte, in particolare, nei confronti dei
cittadini rom?
La paura nei confronti degli "zingari" ha origini lontane, e oggi vive
-
soprattutto - di "sentito dire", quando non di vere e proprie "leggende urbane",
bufale (come quella sulle zingare rapitrici di neonati). Per questo è difficile
da sradicare, o almeno da ridimensionare, da contestualizzare. Diciamo, in
breve, che gli "zingari" hanno storicamente rappresentato (non soltanto in
Italia) l'anomalia, l'altro che incombe - a milioni, ma in Italia sono circa
160.000 - sulle nostre certezze e sul nostro benessere, il mostruoso e
repellente. Li abbiamo spesso visti, e usati, come capro espiatorio per
eccellenza. E li descriviamo - si pensi a certa stampa locale, non solo di
destra - come la principale causa di degrado urbano e di tensione sociale.
Ebbene, questa "caccia alle streghe" (alimentata spesso ad arte a fini
elettorali) dovrebbe finire. E dovremmo smettere di esprimerci per iperboli,
senza sapere bene di che cosa stiamo parlando (rom, zingari, slavi, nomadi:
siamo sicuri che queste parole siano sinonimi?), e cominciare invece ad
affrontare razionalmente le questioni, qualora e quando queste si presentino,
evitando ad esempio di "etnicizzare" ogni singolo comportamento, ogni singola
devianza.
I mass-media (la stampa e la televisione, in particolare) contribuiscono a
veicolare un certo "razzismo democratico"?
A ragione Giuseppe Faso ha coniato, alcuni anni fa, l'espressione "razzismo
democratico" (si veda il suo - giustamente fortunato - libro Lessico del
razzismo democratico, del 2008), mettendo alla berlina non soltanto gli usi più
scopertamente "razzisti" del linguaggio (ad esempio gli insulti cosiddetti
"razziali", le espressioni chiaramente offensive) ma anche le formule che
sembrano più neutre, e che neutre - a ben guardare - non sono affatto: penso al
tanto diffuso «non sono razzista, ma...», penso - come già accennato - all'abuso
di clandestino, penso alla stessa parola etnico (ed "etnici" guarda caso sono
sempre gli altri), o a giovani immigrati per parlare delle "seconde
generazioni", e di persone nate qui, che quindi non sono mai "migrate". Ma non
si tratta solo del lessico, che è poi l'aspetto più superficiale. Si tratta
anche di argomentazioni fallaci, di errate implicazioni (in presenza di un
crimine, il sospetto cade prima sullo straniero), di cliché infondati, di
strategie discorsive che riducono i fenomeni migratori - e le rivendicazioni dei
migranti - a "problema", o il concetto di sicurezza a una questione di ordine
pubblico legata alla presenza di stranieri, ecc. Ebbene, i media (ad eccezione
di rari casi) hanno troppo spesso veicolato, più o meno deliberatamente,
quest'insieme di pratiche discorsive. O meglio: troppo spesso non hanno fatto
nulla per contrastarlo. E non bastano delle scuse una tantum (vedi l'ormai
celebre caso de "La Stampa", l'11 dicembre scorso) per fermare la tendenza, per
dissimulare l'abitudine. Lo sanno bene i colleghi dell'associazione "Carta di
Roma", o dell'associazione "Giornalisti contro il razzismo", o di COSPE, o di "Occhioaimedia",
che tentano con attività di monitoraggio e formazione a vari livelli di chiedere
ai giornali, e ai giornalisti, di riflettere criticamente su usi e abusi, e di
dimostrare maggiore responsabilità e professionalità nel dare notizie
riguardanti i migranti, gli "zingari", le minoranze.
Quale soluzione suggerisce per una vera "integrazione" degli stranieri?
Non sono né un politico né un "tecnico". E quindi non ho una "soluzione". Anche
perché le soluzioni non possono essere "una" soltanto, né unilaterali. Vanno
tentate e negoziate, sempre: tra tutti gli attori sociali (anche, quindi,
ascoltando e coinvolgendo gli "altri"). Senza contare che, in termini di
"integrazione" milioni di stranieri sono (e si sentono) già parte della comunità
nazionale, sono italiani a tutti gli effetti: continuare a non riconoscerlo non
solo è profondamente ingiusto nei loro confronti, ma stupidamente errato sul
piano della conoscenza dei fatti. L'"integrazione" già c'è, e già
- malgrado la
complessità dei processi - funziona piuttosto bene: basta guardarsi intorno.