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Il razzismo delle parole
Di Fabrizio (del 11/05/2012 @ 09:17:11, in musica e parole, visitato 1922 volte)

Assaman Martedì 08 Maggio 2012 13:27 - Scritto da Alessandra Montesanto

    In Razzisti a parole (per tacer dei fatti) - un saggio edito da Laterza nella collana Il nocciolo - Federico Faloppa prende in considerazione parole, modi dire e frasi ricorrenti nella comunicazione degli italiani che suggeriscono una mentalità ancora molto, troppo chiusa nei confronti degli stranieri. Ma il linguaggio è anche un pretesto per analizzare le politiche in atto, il mondo dell'informazione e la società stessa in relazione ai temi dell'intercultura e delle nuove forme di polis e di cittadinanza.

Perché ha sentito l'urgenza di scrivere questo saggio? Si può parlare, oggi, ancora di "razzismo"?
Lavoro sui temi del libro da una quindicina d'anni, ormai. E proprio dall'osservazione del linguaggio, e dei suoi usi, ho avuto l'impressione che in questi ultimi quindici anni - malgrado nel frattempo la società italiana sia diventata più complessa, si sia arricchita di presenze, sia diventata, per usare un termine chiaro ancorché discusso, molto più "multiculturale" - il nostro modo di rappresentare questa ricchezza, questa "diversità" (in particolare quella apportata dai migranti), e di parlarne, sia diventato paradossalmente più approssimativo, più stereotipico, e poco rispondente alla realtà. Anzi, mi pare che - per una serie di fattori precisi e concomitanti - atti non sporadici di xenofobia, un evidente "razzismo istituzionale" (a questo proposito, invito a leggere il recente libro di Clelia Bartoli Razzisti per legge), un disarmante conformismo dell'informazione - si sia anche creato, in particolare nel decennio 2001-2011, un discorso razzista diffuso, direi egemonico: talmente egemonico da apparire spesso normale, da non fare più scandalo, da non poter essere quasi messo in discussione. Da passare paradossalmente per "realista" (malgrado gli stessi dati lo sconfessino), in opposizione a quel presunto "buonismo" cui si attribuiscono - artatamente - tutti i mali... Da queste constatazioni è nata l'urgenza di scrivere un pamphlet che tentasse di decostruire questo discorso egemonico, proponendo al lettore alcuni semplici esercizi di smontaggio dei "testi" e quindi dei messaggi, più o meno celati, che questi veicolano.

Nel libro ha preso in considerazione alcune parole ed espressioni di uso comune: "negro", "clandestino", "vu' cumprà": soffermiamoci sulla loro accezione negativa - specie nel caso dei "clandestini" e cerchiamo di capire cosa nasconde questa terminologia...
Provo a essere sintetico, anche se certi argomenti - in termini linguistici - andrebbero sceverati con scrupolo. La lingua di per sé non è né buona né cattiva. Dipende dai contesti, dagli usi, da fattori para-linguistici ed extra-linguistici (come, rispettivamente, l'intonazione e le convenzioni sociali, ad esempio). È altrettanto vero, però, che sul piano del significato alcune parole hanno connotazioni negative, valutative, offensive più marcate rispetto ad altre. Ed il significato è legato certo al momento dell'enunciazione, ma anche alla storia, al "peso" che una certa parola porta con sé. Ebbene, gli esempi che lei ha fatto, da questo punto di vista, sono diversi. Negro, seppur etimologicamente "corretto", ha assunto nel tempo connotazioni estremamente negative, ed oggi viene utilizzato soprattutto con intento ingiurioso (in binomi lessicali o espressioni fisse come "sporco negro", "negro di merda"). Clandestino ha conosciuto uno slittamento semantico importante, ed e diventato, soprattutto nell'ultimo decennio, una sorta di iperonimo per migrante, immigrato irregolare, richiedente asilo, rifugiato, ecc.; anzi - questa e la tesi che sostengo - è diventato un termine per indicare non uno statuto temporaneo, ma quasi permanente: si è clandestini ontologicamente, per natura, prima ancora di esserlo di fronte alla legge. Vu' cumprà, neologismo degli anni Ottanta che sembrava scomparso, riaffiora non di rado nel linguaggio giornalistico, ed anzi - in ragione della sua stabilità nella lingua - è diventato anche morfologicamente produttivo (avendo originato i vari vu' lavà, vu' parcheggià, vu' stuprà, ecc.). Queste e altre etichette hanno usi e storie diverse, dicevo. Ma hanno una drammatica affinità: possono essere pericolosamente ambigue, insinuanti, offensive. E sono ormai parte di un lessico xenofobo riconoscibile, strutturato, diffuso. E di cui si fa sicuramente abuso, sia nel linguaggio politico, sia in quello quotidiano e - mi si perdoni il bisticcio - dei quotidiani e dei mezzi di informazione.

Molto interessante il capitolo che riguarda la cosiddetta "Discriminazione transitoria positiva": di cosa si tratta ? E quali sono le conseguenze nei confronti degli alunni stranieri?
Con quel capitolo ho tentato di criticare non solo l'impianto della cosiddetta "mozione Cota" (quella, tanto per capirci, che nel 2008 proponeva l'introduzione di "classi separate" nelle scuole italiane, indirizzate agli "immigrati" o ai "figli di immigrati" che non padroneggiassero l'italiano) - un impianto fondato su pochi triti luoghi comuni, privo di qualsiasi base glottodidattica - ma anche il linguaggio, approssimativo, sciatto, fumoso, con cui essa venne scritta e presentata, dentro e fuori il parlamento. Se si legge con attenzione quel testo, è facile trovarvi lacune, contraddizioni, falsi presupposti che non dovrebbero essere presenti in un documento del genere: un documento che tratta un argomento cosi importante come l'educazione delle nuove generazioni e l'idea di società che, a partire dalla scuola, si vuole costruire. Ma lo stesso esercizio di smontaggio si potrebbe fare su molti altri testi proposti e discussi negli anni scorsi, non solo dalle maggioranze di centro-destra. Perché il punto non è (soltanto) quello di accusare di incompetenza gli estensori di quella particolare mozione. È anche quello di puntare il dito contro i molti, troppi discorsi privi di argomentazioni solide, in tema di immigrazione: redatti per fini elettorali, o sull'onda dell'emozione suscitata da fatti di cronaca più o meno gravi. Tornando alla scuola, non dimentichiamo che questa istituzione ha un ruolo - e una responsabilità - fondamentale. Sia perché - nei fatti - è già da anni un formidabile laboratorio di convivenza, dialogo, "intercultura". Sia perché ha il ruolo, preziosissimo, di trasmettere un pensiero critico e di raccontare la complessità agli italiani e ai "nuovi italiani". Non a caso si è cercato, e si cerca di depotenziarla ad ogni occasione: sottraendole risorse, competenze, autorevolezza.

È ancora in atto, a suo parere, una "politica della paura" che porta a considerare gli immigrati come una minaccia per la sicurezza sociale?
Il governo in carica, per fortuna, ha smesso di calcare la mano sul tema. E anzi, mi pare aver derubricato la voce "paura percepita" dalla lista dei problemi e delle priorità della sua agenda politica. Tuttavia, se a livello politico nazionale la tensione si è (forse) affievolita, ed i toni sembrano meno allarmistici, non bisogna dimenticare che quei veri e propri carceri che sono i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), sono ancora in piedi, e lavorano a pieno regime. E obbligano alla detenzione coatta centinaia di persone (molte delle quali - tra l'altro - avrebbero diritto a protezione internazionale senza se e senza ma) per le quali è stato di fatto abolito l'habeas corpus. Inoltre, a livello locale (sui media, nelle ordinanze comunali, ecc.), spesso i discorsi paiono essere sempre quelli: "attenzione, elettori, immigrati e rom sono sempre, per definizione, una minaccia!"

Perché la paura e la diffidenza sono rivolte, in particolare, nei confronti dei cittadini rom?
La paura nei confronti degli "zingari" ha origini lontane, e oggi vive - soprattutto - di "sentito dire", quando non di vere e proprie "leggende urbane", bufale (come quella sulle zingare rapitrici di neonati). Per questo è difficile da sradicare, o almeno da ridimensionare, da contestualizzare. Diciamo, in breve, che gli "zingari" hanno storicamente rappresentato (non soltanto in Italia) l'anomalia, l'altro che incombe - a milioni, ma in Italia sono circa 160.000 - sulle nostre certezze e sul nostro benessere, il mostruoso e repellente. Li abbiamo spesso visti, e usati, come capro espiatorio per eccellenza. E li descriviamo - si pensi a certa stampa locale, non solo di destra - come la principale causa di degrado urbano e di tensione sociale. Ebbene, questa "caccia alle streghe" (alimentata spesso ad arte a fini elettorali) dovrebbe finire. E dovremmo smettere di esprimerci per iperboli, senza sapere bene di che cosa stiamo parlando (rom, zingari, slavi, nomadi: siamo sicuri che queste parole siano sinonimi?), e cominciare invece ad affrontare razionalmente le questioni, qualora e quando queste si presentino, evitando ad esempio di "etnicizzare" ogni singolo comportamento, ogni singola devianza.

I mass-media (la stampa e la televisione, in particolare) contribuiscono a veicolare un certo "razzismo democratico"?
A ragione Giuseppe Faso ha coniato, alcuni anni fa, l'espressione "razzismo democratico" (si veda il suo - giustamente fortunato - libro Lessico del razzismo democratico, del 2008), mettendo alla berlina non soltanto gli usi più scopertamente "razzisti" del linguaggio (ad esempio gli insulti cosiddetti "razziali", le espressioni chiaramente offensive) ma anche le formule che sembrano più neutre, e che neutre - a ben guardare - non sono affatto: penso al tanto diffuso «non sono razzista, ma...», penso - come già accennato - all'abuso di clandestino, penso alla stessa parola etnico (ed "etnici" guarda caso sono sempre gli altri), o a giovani immigrati per parlare delle "seconde generazioni", e di persone nate qui, che quindi non sono mai "migrate". Ma non si tratta solo del lessico, che è poi l'aspetto più superficiale. Si tratta anche di argomentazioni fallaci, di errate implicazioni (in presenza di un crimine, il sospetto cade prima sullo straniero), di cliché infondati, di strategie discorsive che riducono i fenomeni migratori - e le rivendicazioni dei migranti - a "problema", o il concetto di sicurezza a una questione di ordine pubblico legata alla presenza di stranieri, ecc. Ebbene, i media (ad eccezione di rari casi) hanno troppo spesso veicolato, più o meno deliberatamente, quest'insieme di pratiche discorsive. O meglio: troppo spesso non hanno fatto nulla per contrastarlo. E non bastano delle scuse una tantum (vedi l'ormai celebre caso de "La Stampa", l'11 dicembre scorso) per fermare la tendenza, per dissimulare l'abitudine. Lo sanno bene i colleghi dell'associazione "Carta di Roma", o dell'associazione "Giornalisti contro il razzismo", o di COSPE, o di "Occhioaimedia", che tentano con attività di monitoraggio e formazione a vari livelli di chiedere ai giornali, e ai giornalisti, di riflettere criticamente su usi e abusi, e di dimostrare maggiore responsabilità e professionalità nel dare notizie riguardanti i migranti, gli "zingari", le minoranze.

Quale soluzione suggerisce per una vera "integrazione" degli stranieri?
Non sono né un politico né un "tecnico". E quindi non ho una "soluzione". Anche perché le soluzioni non possono essere "una" soltanto, né unilaterali. Vanno tentate e negoziate, sempre: tra tutti gli attori sociali (anche, quindi, ascoltando e coinvolgendo gli "altri"). Senza contare che, in termini di "integrazione" milioni di stranieri sono (e si sentono) già parte della comunità nazionale, sono italiani a tutti gli effetti: continuare a non riconoscerlo non solo è profondamente ingiusto nei loro confronti, ma stupidamente errato sul piano della conoscenza dei fatti. L'"integrazione" già c'è, e già - malgrado la complessità dei processi - funziona piuttosto bene: basta guardarsi intorno.