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\\ Mahalla : Articolo
Mascia Draga
Di Fabrizio (del 09/11/2009 @ 09:32:38, in Europa, visitato 1825 volte)

segnalazione di Nadia Marino

di Carla OSELLA in "Pabay, nel mondo degli zingari" (ed. INTERFACE-AIZO)

Un giorno Pabaj mi telefonò dal bar emozionata: "Attilia, devi venire subito, perché è arrivata mascia (nonna) Draga dalla Germania, la devi conoscere anche tu, è una delle poche zingare che sono uscite dai lager, te ne avevo parlato tempo fa, ricordi? Vieni in fretta, ti aspetto". Che bella sorpresa poterla vedere, parlarle, ascoltare dalla viva voce un pezzo di storia, anche se tragica di un periodo che non avevo mai vissuto. Sarei corsa immediatamente al campo volando le scale, ma il giorno dopo avevo il compito in classe di matematica e quindi non potevo andare impreparata; ci pensai un attimo, poi decisi che avrei potuto rubare un po’ di tempo al sonno il giorno dopo, anche se al mattino ero sempre stanca e facevo fatica ad alzarmi.

Mascia Draga valeva bene un po’ di sonno! Quando arrivai, c’erano molti Rom accanto a lei, uomini, donne, ma, nonostante facessi degli sforzi per vederla, non ci riuscivo perché era coperta da una piccola folla. In un angolo trovai una sedia vuota e vi salii sopra per vederla. Era una donna minuta, molto anziana, con un diclò (fazzoletto) verde intenso che le copriva i capelli, aveva una maglia rossa da cui spuntava una camicetta con la gonna lunghissima, come portavano le donne del campo.

Lei parlava piano e c’era attorno silenzio, davvero strano in un ambiente sempre chiassoso e pieno di bambini, ma loro non c’erano. Infatti, quando succede qualcosa d’importante, i bambini vengono allontanati. Vidi solo Sanella seminascosta dietro la gonna di sua nonna.

A poco a poco molti Rom se ne andarono e nella baracca rimasero solo poche donne, allora Pabaj mi disse: "Vieni, che ti faccio conoscere la Mascia!".

Mi avvicinai a quella zingara un po’ intimorita, aveva qualcosa di misterioso, che non sapevo definire. Appena si accorse della mia presenza mi disse: "Vieni piccola gagì, fammi vedere il viso" e, mentre mi diceva questo, cominciò a fissarmi negli occhi. "Hai il viso buono - mi disse - perciò puoi essere amica dei Rom".

Sentii che arrossivo fino alle orecchie per quel complimento e mi sembrò di essere ancora più piccola. Nonna Draga mi fece un vero e proprio interrogatorio chiedendomi qual era il motivo per cui venivo al campo e se mi piacevano gli zingari.

Le spiegai il mio desiderio di conoscere meglio chi viveva nelle roulottes. "Tu sei la figlia dei signori delle case di pietra, cosa ci fai in mezzo a questa brutta gentaglia zingara?".

Mi colpì l’ironia con cui diceva quella frase; allora intervenne Pabaj a spiegarle che ero sua amica da molto tempo.

Avrei voluto chiederle tante cose del suo passato, della sua deportazione nel più grande campo di concentramento nazista, ma non osavo. Pabaj però leggeva le mie domande negli occhi e fece lei la domanda che mi interessava. "Le abbiamo parlato molto di te, voleva sapere qualcosa della tua giovinezza".

Un’ombra di tristezza passò sul suo viso, si strinse le mani con forza, quasi a voler scacciare il passato, e mi rispose: "Non mi piace parlare del passato, perché è stato una cosa troppo angosciante, ma forse è importante che la gente sappia che anche il popolo zingaro, come il popolo ebreo, ha pagato con oltre cinquecentomila morti la follia del nazismo. Anche per noi c’è stato l’olocausto".

Mi sedetti accanto a lei in silenzio per ascoltare una storia sconosciuta ai più. Raccontò che abitava in una piccola città della Francia, quando una notte arrivò la GESTAPO (la polizia nazista) nel campo.

"Era un piccolo campo come questo con le baracche, faceva freddo, era tardi ed eravamo tutti a letto. Sono entrati con i mitra spianati e ci hanno fatto scendere, dicendoci che ci portavano in un posto dove raccoglievano tutti gli zingari; il mio papà cercò di spiegare all’ufficiale che eravamo nomadi capitati lì per caso, che non eravamo neppure francesi, ma loro non vollero sentire nulla".

Sua madre coprì bene il fratellino più piccolo e lo mise in braccio al padre, mentre aiutava gli altri a vestirsi in fretta per evitare qualsiasi questione con i poliziotti. Poi li portarono ad una stazione, di cui lei non ricordava neppure il nome, e vennero caricati su un carro merci.

"Avevamo molta paura e anche tanta fame. Il viaggio fu molto lungo, durò parecchi giorni, finché arrivammo ad una piccola stazione polacca, in uno strano posto davanti ad un cancello di ferro dove c’era scritto in tedesco "Arbeit Macht Frei", cioè "Il lavoro rende liberi".

Guardandoci attorno, vedevamo che dagli altri vagoni scendevano dei gagé, donne con i bambini cariche di borse e valigie. Ad un certo punto si separarono: un gruppo da una parte "per le docce"- dicevano - e noi dall’altra.

Ma quando la colonna incominciò la sua lenta marcia, vidi che era composta di ammalati e di bambini. Mi sentii gelare il cuore con il presentimento che qualcosa dovesse succedere; quel giorno fu l’ultima volta che vidi la mamma".

Il racconto diventava sempre più interessante, la baracca si era di nuovo riempita di persone; chi era seduto ai piedi della mascia Draga, chi stava diritto, tutti pendevano dalle sue labbra. "Solo quando i russi giunsero al lager, seppi che mia madre era stata messa nei forni crematori, dopo essere passata dalle docce".

Mentre parlava, si asciugò con il dorso della mano le lacrime che le scendevano dal volto. "A noi hanno fatto un segno che ho ancora sul braccio". Si tirò su la manica e potei leggere bene inciso "Z24161". La nonna disse: "Vi racconto tutto ciò che ho visto e vissuto, ma non è da raccontare ai bambini; invece è importante capire che l’odio porta al razzismo e il razzismo uccide in molti modi, con la morte fisica e con quella morale". Mi spiegò come si poteva uccidere il cuore degli uomini con l’emarginazione:

"Tu sei un gagì, cosa vuoi sapere di queste cose? Tu vivi bene nella tua casa, nessuno viene a controllarti. Per noi invece non è così, quando vai a fare la spesa, ti servono prima degli altri, perché hanno timore che rubi qualcosa, o se sali sul tram, nessuno si siede vicino a te, perché sei zingaro. Si rifiutano non solo di parlarti, ma di starti accanto, quasi avessimo la peste".

Sentivo che era dura, ma la capivo, perché anch’io a scuola avevo dovuto lottare con i miei compagni per difendere gli zingari; ricordavo ancora l’episodio in cui un bambino mi aveva detto con disprezzo: "Sei solo una zingara" e io l’avevo ringraziato, perché, se avessi potuto scegliere, avrei proprio voluto essere zingara.

"Ma - riprese mascia Draga, dopo un po’ di silenzio - bisogna imparare sin da piccoli a capire che tutti hanno il diritto di vivere. Il sole sorge per tutti e la pioggia cade per tutti, tutti abbiamo fame e tutti abbiamo sete, ci sono tante cose simili per i gagé e simili per gli zingari ed anche per i neri dell’Africa, bisogna scoprirle".

Dopo un momento aggiunse: "Hai una nonna? Vai da lei e chiedile cosa vuol dire ciò che ti ho detto. Chi ha vissuto molto, ha acquistato saggezza e bisogna imparare ad ascoltare il passato per non commettere gli stessi sbagli per l’avvenire". Nonna Draga abbassò la voce quasi volesse parlare a se stessa e disse: "Non potevo ritornare in quel posto, ma ci sono andata alcuni anni fa e ho pianto di rabbia, vedendo Auschwitz diventata un museo e constatando che in mezzo alle baracche, dove sono morte migliaia di persone, i ragazzini spesso mangiano patatine fritte e bevono Coca-Cola".

Spiegò: "Ho voluto andare a vedere le baracche del settore zingaro, ma le intemperie le hanno distrutte. C’è solo uno spiazzo vuoto, però ho sempre in tasca un pezzo di pietra che ho raccolto".

Poi si alzò con maestà dalla sedia, come se fosse una regina e con voce più forte soggiunse: "Quando sarai grande, ricordati di ciò che ti disse una vecchia zingara: la pace tra i popoli nasce cercando i valori che uniscono e non le divisioni. Facciamo attenzione che il nazismo non torni in Europa, già troppi innocenti hanno pagato".

Ero rimasta senza fiato; quella piccola donna minuta, dalla voce giovane, aveva raccontato cose mai sentite. Avrei voluto abbracciarla, ma non osavo davanti a tutti i Rom, tuttavia quando l’avvicinai, lei mi strinse forte e mi fece una carezza.

"Vai, piccola gagì, oggi ho parlato troppo per la mia età".

*di Carla OSELLA
in ''Pabay, nel mondo degli zingari'' (ed. INTERFACE-AIZO)
http://www.aizo.it/masciadraga.html

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