Di sgombero in sgombero e di campo in campo, anche con un improbabile
numero chiuso non faremo molta strada
Che sulla sicurezza ci si giochi ormai la fetta più consistente del consenso dei
cittadini non è una gran scoperta, come non lo è il fatto che i Rom
costituiscano lo spauracchio per eccellenza.
La destra lo ha sempre saputo e ne ha fatto uno dei cardini della propria agenda
politica. La sinistra sembra essersene accorta da poco, ma sta tentando di
recuperare il tempo perduto con buona lena.
Proprio sulla presenza dei Rom si sono consumate due svolte politiche a Milano:
gli epicentri a poche centinaia di metri di distanza, incrociati gli effetti
degli smottamenti.
A Palazzo Isimbardi il Presidente della Provincia tracciava la linea per la
prossima lunga campagna elettorale accreditandosi come uomo d’ordine, ancor più
di quanto la propria storia già non dicesse. A Palazzo Marino, con una singolare
coincidenza di tempi, autorevoli esponenti dell’Ulivo presentavano
una mozione che in buona sostanza chiede il numero chiuso per i rom. La
mozione, approvata dalla quasi totalità del Consiglio Comunale, non solo segna
una svolta per la sinistra ma anche per gli equilibri interni alla maggioranza,
poiché questo documento subito sottoscritto e votato da AN e dai duri di Forza
Italia, segna la
sconfitta
della linea dell’Assessore Moioli .
Possiamo ben dire che il tutto risale all’abile mossa del Sindaco di porre al
centro dell’agenda politico-mediatica una questione sicurezza non suffragata dai
dati; ma sappiamo bene che, come ha diagnosticato Jean Baudrillard, siamo
nell’epoca della “sparizione della realtà”. Pertanto da oltre tre mesi l’alfa e
l’omega del dibattito pubblico è la sicurezza ed è altrettanto inevitabile che
al centro del mirino finisse anzitutto la presenza dei Rom.
Dell’atmosfera che circonda la loro presenza sul nostro territorio, se mai ce ne
fosse stato bisogno, abbiamo avuto la conferma con
quanto è
accaduto ad Opera tra la fine del 2006 e i primi giorni del 2007.
Il problema indubbiamente esiste e da un decennio almeno. Le cause sono note:
l’implosione dell’ex Jugoslavia e il collasso del sistema sociale rumeno
–entrambi verificatisi nei primissimi anni ’90 del secolo scorso- hanno prodotto
un esodo delle popolazioni “zingare” che vivevano in quei due paesi. Ma proprio
perché questo fenomeno –che ha subito un’accelerazione dall’1 gennaio scorso
quando la Romania è entrata a far parte dell’UE– non è una novità il fatto che
venga affrontato come emergenza suscita qualche perplessità. A meno che, data
l’indubbia utilità degli spauracchi e degli stereotipi, una situazione tanto
deteriorata faccia comodo.
È ormai un decennio che la politica degli sgomberi e la logica dei campi produce
una transumanza di disperati per Milano. Ci sono bambini che sono cresciuti tra
via Triboniano, via Barzaghi, via Adda, tra baracche, case fatiscenti occupate e
campi nei quali le condizioni igienico sanitarie sono peggiori di quelli degli
slums di Nairobi e Lagos.
Ci sono generazioni ormai impegnate in un via vai disperato cui assistiamo anche
in questi giorni: i nomadi sgomberati una decina di giorni fa da Chiaravalle
sono andati in Triboniano, sgomberati da lì sono ritornati alla spicciolata di
nuovo a Chiaravalle, suscitando l’ovvia quanto giustificata incazzatura –si
tratta di un eufemismo– dei cittadini.
Che fare dunque? Come rispondere ai cittadini giustamente preoccupati?
Il compito di chi governa è fornire soluzioni, e anche un’opposizione
responsabile che voglia candidarsi in modo credibile ad amministrare la cosa
pubblica non può certo limitarsi a petizioni di principio o sterili
sentimentalismi.
Quindi che fare? Si può continuare per un numero indefinito di anni con i campi
e gli sgomberi?
Le due svolte politiche di cui parlavamo benché segnino un passaggio di fase,
nonché provocare una frattura nel centrosinistra milanese e ridefinire i
rapporti di forza all’interno della maggioranza a Palazzo Marino, non sembrano
indicare soluzioni. Se non chiedere un numero chiuso di applicazione assai
difficile –sia dal punto di vista pratico che da quello giuridico– e invocare
spostamenti che non potranno vedere che esiti assai peggiori rispetto a quello
già drammatico di Opera sette mesi orsono.
Per il resto, per ciò che conterebbe e che servirebbe, non una parola. Come se i
Rom presenti sul nostro territorio fossero ontologicamente votati ad “abitare”
nella sporcizia e nel degrado, come se fossero geneticamente portati al crimine
e pertanto destinati a “vivere” tra uno sgombero e un campo. Non una proposta su
percorsi di integrazione, non una riga sulla decine di migliaia di alloggi
popolari che servono a questa città e che in una minima parte, se fossero mai
costruiti, potrebbero anche servire a segnare una prima tappa di transito dei
Rom in un
percorso di inserimento che la grande maggioranza di loro cerca.
Una mozione, una svolta politica, ma soprattutto la parola fine sulle speranze
–o illusioni– di poter sottrarre migliaia di persone a quello sfacelo dei campi,
a quella condanna, mai pronunciata da alcun giudice, ad un orizzonte in cui ci
sono sgomberi e presidi.
Beniamino Piantieri