18 Ottobre 2013, di Anna Calori - Verso cosa ritornano i
Rom rimpatriati in Kosovo?
Risale a ieri la notizia di una protesta studentesca che vede coinvolti numerosi
studenti parigini nell'occupazione di
più di trenta licei della capitale francese. Migliaia di essi hanno
partecipato a un corteo di protesta verso il ministero dell'Interno.
Causa scatenante l'espulsione di Leonarda, giovane Rom Kosovara, prelevata a
forza dalla polizia davanti ai propri compagni di classe durante una gita, per
poi essere immediatamente rimpatriata in Kosovo insieme ai genitori e ad altri
cinque fratelli.
Il ministro dell'Interno Manuel Valls ha commentato l'accaduto difendendo il
proprio operato, e argomentando in favore delle leggi vigenti in Francia in
materia di immigrazione.
Di primo acchito, questa notizia suggerisce un imbarazzante parallelismo con
quanto accaduto, e ancora accade, sulle coste di Lampedusa e con la reazione che
tali avvenimenti hanno suscitato nella coscienza pubblica italiana.
Se l'indignazione e la vergogna - sentimenti ormai auto-assolutori, specie in
politica - sono reazioni comuni e condivise nei confronti di procedure a dir
poco draconiane, l'Italia non ha purtroppo visto una mobilitazione tanto
repentina da parte di quella società civile (gli studenti, in questo caso).
Si potrebbe cinicamente suggerire che la mobilitazione della società civile
italiana su questi temi - caratterizzata da rivendicazioni assai deboli e povera
di proposte che guardino oltre l'abolizione (sacrosanta) del reato
d'immigrazione clandestina - sia lo specchio di una comunità in frantumi.
Eppure, anche un governo "socialista" di una repubblica "illuminata" ha commesso
in questo caso lo stesso errore: un pressappochismo politico e culturale,
purtroppo comune alle democrazie europee che si vedono impegnate in quella
mission impossible che è il controllo dei flussi migratori.
Il ministro Valls si è più volte mostrato preoccupato dalla questione Rom,
arrivando a sostenere che i circa ventimila presenti sul suolo francese
andrebbero espulsi poiché particolarmente
restii a qualsiasi tipo di integrazione.
Sembra inoltre che il motivo di questa recente espulsione sia in parte legato al
carattere violento del capofamiglia,
già segnalato alle autorità francesi dalla famiglia stessa di Leonarda.
Trovo necessaria, a partire da quest'ultimo elemento un'ulteriore riflessione
sulle conseguenze sociali e politiche di tali misure.
Il Kosovo è impegnato da qualche anno in una difficile e ben poco efficace lotta
nei confronti della violenza domestica. Da un punto di vista sia culturale che
legislativo, la violenza domestica stenta ancora a venire considerata reato, e
il numero di denunce (circa un migliaio all'anno) è ben poco rappresentativo
dell'effettiva
entità del problema.
Nelle zone rurali, e nelle sacche di marginalità alle quali specialmente le
famiglie Rom sono costrette, tali episodi vengono raramente segnalati alle
autorità, e difficilmente ricevono una risposta efficace sul lungo periodo.
I centri di assistenza per donne vittime di abuso sono soltanto sette, con
un'operatività purtroppo limitata. Non riescono ad avere una copertura capillare
sul territorio, e spesso faticano a raggiungere le componenti più emarginate
della popolazione - per lo più famiglie Rom e di altre minoranze etniche rurali
e suburbane.
Quand'anche le vittime riuscissero ad avere accesso alla protezione e assistenza
offerte da questi centri, il rischio del loro ritorno all'ambiente violento dal
quale sono fuggite rimane altissimo. Non esiste infatti un serio programma di
inserimento nel mondo del lavoro - in un paese in cui
la disoccupazione
femminile risulta al 40%, e quella giovanile supera il 55% - e la mancanza
di indipendenza economica riporta inevitabilmente le vittime al contesto sociale
dal quale hanno cercato di distanziarsi.
Come osserva uno studio dell'UNICEF (Verena Knaus 'No place to call Home -
Repatriation from Germany to Kosovo as seen and experienced by Roma, Ashkali and
Egyptian children'August 2011, p.25), dei bambini di etnia Rom e Ashkali
rimpatriati in Kosovo nel 2010, solo uno su quattro frequentava la scuola
dell'obbligo. Numerosi procedimenti legali sono stati avviati nei confronti del
Ministero dell'Educazione, in seguito alla discriminazione ed esclusione di
bambini e studenti Rom dalla scuola primaria e secondaria.
Infine, non esistono in Kosovo strutture o programmi volti a offrire un supporto
sociale e psicologico nei confronti dei rifugiati rimpatriati in Kosovo. In
particolare, si riscontrano numerosi episodi di disturbo fisico e mentale tra
quei bambini che si ritrovano a un tratto rispediti nella propria terra
d'origine, con la quale tuttavia non hanno avuto, fino a quel momento, alcun
contatto ('SILENT HARM- A report assessing the situation of repatriated
children's psycho-social health', March 2012, UNICEF Kosovo in cooperation with
Kosovo Health Foundation).
Tenendo presente quanto riportato, l'espulsione di Leonarda lascia quindi spazio
a una duplice considerazione.
Se confidiamo nella sostanziale buona fede del ministro Valls, che sta "solo
applicando la legge vigente" (a questo punto, chiunque avesse letto Hannah
Arendt verrebbe scosso da un brivido lungo la schiena), possiamo immaginare che
il ministro, semplicemente, non sia a conoscenza della situazione dei Rom in
territorio kosovaro.
Questo, allora, mostra la feroce efficacia della linea Frontex nel rendere
l'Europa politicamente e culturalmente impermeabile a ciò che avviene negli
stati immediatamente al di là di un muro istituzionale e burocratico.
Un'Europa claustrofobica e sorda, eppure strenuamente impegnata nella
standardizzazione democratica dei paesi limitrofi, primariamente di area
balcanica.
É nostra responsabilità fronteggiare e reagire alle problematiche che emergono
soltanto al di qua di un immaginario, arbitrario e mobile confine.
Se così fosse, allora il processo di espansione dell'Unione verso Est - già
avviato con l'ingresso della Croazia - può considerarsi fallito in partenza.
Se invece ci atteniamo alle precedenti dichiarazioni del ministro Valls - da
tempo promotore dello sgombero forzato dei campi e dell'espulsione dei Rom
francesi
"oltre
i confini" poiché "non esiste altra soluzione" - si può allora considerare
il rischio di una mentalità politica che ancora fa riferimento al concetto di
Stato-Nazione.
I Rom vanno rispediti verso il loro territorio di provenienza (lo Stato) e
di conseguenza verso una società e una cultura (la Nazione) che
necessariamente li rappresentano, poiché inestricabilmente legate al territorio
da cui sono scaturite. L'appartenenza alla comunità civile, e l'appartenenza
allo stato istituzionale devono, necessariamente, coincidere. E questa
impalcatura, questo costrutto sociale va imposto e rispettato da chiunque voglia
muoversi all'interno di esso.
É forse un caso che siano proprio i Rom, una comunità le cui radici scardinano
questa identità tra Stato e Nazione, ad essere le principali vittime di tale
ossessione?
Gli stati europei sono ancora alla ricerca di una chimera, l'omogeneità tra il
cittadino e il membro della comunità nazionale.
Finché gli esponenti politici europei saranno impegnati in questa lotta contro i
mulini a vento, i diritti civili dell'individuo verranno, inesorabilmente,
confinati a spazi sempre più ristretti.