CORRIEREIMMIGRAZIONE, di Sveva Haertter
I cittadini non sono mai "nuovi", "vecchi" o a metà: è lo Stato a essere
in ritardo. Le riflessioni di Sveva Haertter, nata a Roma ma italiana solo dal
1983.
Sono nata a Roma nel 1965. Mia madre era italiana, ma siccome mio padre era
tedesco e in quegli anni lo "ius sanguinis" era anche sessista - e lesivo
degli articoli 3 e 29 della Costituzione - mi hanno dato la cittadinanza
tedesca. Non c'era ancora la Comunità Europea e quindi in Italia ero considerata
straniera a pieno titolo, mi serviva il permesso di soggiorno da rinnovare ogni
anno e per qualsiasi cosa era necessario presentare un mare di certificati.
Il 21 aprile 1983, dopo una sentenza della Corte Costituzionale e un parere del
Consiglio di Stato, venne fatta una nuova legge che poneva rimedio
all'illegittimità costituzionale di quella precedente, facendo sì che fosse
cittadino per nascita il figlio minore, anche adottivo, di padre o di madre
cittadini.
Il passaggio non era però automatico e quindi, una ventina di giorni dopo,
appena compiuti i 18 anni, feci domanda per ottenere la cittadinanza italiana.
Nel giugno 1983, diventata maggiorenne e italiana il mese prima, ho potuto
votare alle elezioni politiche. Sulle liste elettorali il mio nome era stato
aggiunto a mano all'ultimo momento e io non avevo ancora fatto in tempo ad
ottenere dei documenti italiani... Tutto sommato mi è andata bene e non avuto
particolari difficoltà, sicuramente anche perché ho la pelle bianca e questo
rende tutto più facile, in Italia come in tanti altri posti.
Ma non è una storia un po' assurda? Chiaro che, se non altro per fatto
personale, ritengo l'introduzione dello "ius soli" non solo necessaria, ma
urgente.
Altrettanto chiaro è però che anche se lo "ius soli" venisse introdotto oggi
stesso, resterebbe la legge Bossi-Fini, la tassa sul permesso di soggiorno, i
Cie, non sarebbe risolta la questione del diritto di asilo, né sparirebbero
automaticamente il razzismo e le discriminazioni e un mare di altri problemi che
non sto ora qui ad elencare, anche se in effetti non se ne può parlare mai
abbastanza.
Ma come si definisce una come me? Sono forse anch'io una "nuova cittadina"? E da
dove viene fuori questa espressione? Già semplicemente per il fatto che sono
passati 30 anni, come cittadina tanto "nuova" non sono...
Ne scrivo perché questa espressione mi da un po' sui nervi e non per ragioni
formali. Mi fa pensare a uno con il vestito della domenica, una cravatta
bruttissima e il sorriso a 32 denti che dice "Eccomi! Sono qui, sono buono e
voglio tanto integrarmi! Faccio tutto quello che volete!" o qualcosa del genere.
Ma soprattutto mi pare che sposti l'asse del ragionamento.
Se è corretto definire la cittadinanza come una condizione giuridica nella quale
ad una persona viene riconosciuta la pienezza dei diritti civili e politici,
come fa un cittadino a essere "nuovo"? Ce ne sono forse di "vecchi"? E quale
sarebbe la differenza? Certamente se una persona ha acquisito la cittadinanza da
poco, si può definire come "nuova" la sua condizione, ma che c'entra? Insomma,
penso che sia proprio sbagliato parlare di "nuovi cittadini", mentre sicuramente
è necessario rinnovare il concetto di cittadinanza in termini giuridici,
legislativi, sociologici, e via dicendo.
Secondo me parlando di "nuovi cittadini" si vuole proprio ottenere l'effetto di
spostare il ragionamento sul fatto che le persone, in quanto "nuove", devono
dimostrare il proprio valore, la propria utilità. Essere insomma sottoposte ad
una sorta di collaudo/rodaggio per poi finire magari nella condizione precedente
in caso di funzionamento insoddisfacente... E infatti in questo periodo si sente
dire di tutto. Si è parlato persino dell'ipotesi di legare lo "ius soli" a
percorsi di scolarizzazione. E a uno che ha la cittadinanza in base allo "ius
sanguinis", ma magari è analfabeta, qualcuno si è forse posto il problema di
toglierla?
Di includere poi la categoria degli "immigrati" in quanto tale nell'attuale
dibattito sulla cittadinanza, se non per quanto riguarda appunto i figli nati in
Italia, non se ne parla proprio e già è tanto se negli ultimi anni è assurta
fino allo status di "risorsa"...
In Germania si usa parlare di persone "mit Migrationshintergrund", che tradotto
significa grosso modo "persone che hanno alle spalle una storia di migrazione".
Non so se è corretto come modo di dire, comunque l'approccio mi pare un po' più
inclusivo.
E poi qualche eccezione che conferma la regola c'è sempre. Come me, che però
particolari problemi non ne ho avuti, anche se un po' spaesata forse a volte lo
sono, sia in Italia che in Germania.
Parliamo insomma di una questione di diritti da riconoscere alle persone che
nascono e risiedono in questo paese, con tutta la complessità che questo implica
e che non si può ricomprendere in un'espressione come "nuovi cittadini". Non ci
sono cittadini "nuovi" o "vecchi" o persone catalogabili per numero di
generazioni alla quale si presume appartengano (in base a quale criterio di
conteggio poi?) o altre cose ancora.
È semplicemente lo Stato ad essere in grandissimo ritardo. Forse è sufficiente
partire almeno da questo.