TRENTOTODAY
Inchiesta esclusiva di Mattia Pelli* sul recente
sgombero avvenuto nella zona di Trento Nord (ex Sloi) da parte delle forze
dell'ordine e del personale dell'azienda sanitaria. Le immagini e il video
girato dall'unico giornalista presente sul posto - 20 Maggio 2013
Cadenti costruzioni in cemento, simbolo passato di una fede mortifera nel
progresso; fitta vegetazione dal verde inquietante, debordante dai vecchi muri;
una strana processione guidata da uomini con mascherina seguiti da un piccolo
drappello di miserabili. Questo avrebbero visto coloro che si fossero trovati a
passare davanti alla ex Sloi di via Maccani a
Trento lo scorso mercoledì 15
maggio. E appena girato l'angolo, due ambulanze e un piccolo concentramento
composto da assistenti sociali del comune, polizia in borghese, personale
sanitario, vigili urbani. E poi loro: 40 Rom rumeni, uomini e donne, giovani e
anziani (ma non minori), che da anni ormai vivono nell'area che fu un tempo sede
della produzione di piombo tetraetile, ancora presente in pericolose quantità
nel terreno. Ma alle cinque di mattina di passanti in via Maccani ce ne sono
proprio pochi e gli stessi organi di stampa non erano stati avvertiti
dell'operazione coordinata dalla Questura.(Guarda il video di Mattia Pelli).
I Rom accampati all'ex Sloi sono stati svegliati verso le cinque del mattino da
poliziotti in borghese che - coadiuvati dagli assistenti sociali del Comune di
Trento, dal personale sanitario, dai vigili urbani e da una mediatrice culturale
(circa 25 persone in tutto) - hanno convinto nove di loro a recarsi all'ospedale
S. Chiara per sottoporsi ad esami radioscopici e verificare se erano affetti da
tubercolosi, malattia estremamente pericolosa e - in alcune fasi - molto
infettiva, in grado di mettere a rischio la salute del portatore e di chi gli
sta intorno.
Una donna è risultata positiva al test radiografico, ma ulteriori esami hanno
mostrato come la malattia non fosse in fase contagiosa e quindi la Rom è stata
lasciata andare. Gli altri sono stati tutti portati in Questura e identificati.
Ventisette di loro sono stati colpiti da un provvedimento di allontanamento,
come prevede la legislazione italiana nei confronti di cittadini comunitari che
dopo tre mesi non abbiano richiesto e ottenuto un certificato di residenza e non
possano dimostrare di possedere i mezzi di sostentamento necessario. Dovranno
quindi lasciare l'Italia e se trovati nonostante questo sul territorio del
nostro paese potranno essere puniti con la reclusione da uno a sei mesi e con
un'ammenda da 200 a 2000 euro.
L'operazione, presentata dalla Questura come necessaria per preservare la salute
non solo dei Rom ma di tutta la cittadinanza e prevenire la microcriminalità
solleva però alcuni dubbi: per quale motivo un'iniziativa volta alla tutela
della salute pubblica è stata portata a termine attraverso l'intervento delle
forze dell'ordine e non - come succede solitamente - dal personale dei servizi
sociali del comune di Trento e dai sanitari dell'Azienda provinciale per i
servizi sanitari? Perché al termine dell'operazione 40 persone sono state
identificate e 27 di esse hanno ricevuto un'ordinanza di allontanamento? Quale
efficacia può avere un'operazione volta a risolvere un potenziale problema di
salute pubblica condotta con l'intervento della Polizia di Stato e conclusasi
con severe misure repressive?
Rispondere a queste domande riveste una certa importanza, dal momento che la
recrudescenza dell'infezione da Tbc (che colpisce al 50% italiani e stranieri)
desta allarme nelle istituzioni sanitarie e l'operazione svolta dalla polizia
mercoledì scorso appare assolutamente inedita a livello nazionale,
rappresentando un significativo precedente. In questo articolo si cercherà di
ricostruire i contorni della vicenda grazie a fonti ben informate e alla
presenza diretta sul luogo dell'operazione, unico giornalista testimone dei
fatti.
Il precedente
Tutto ha inizio qualche settimana fa, quando all'Ospedale S. Chiara di Trento
arriva un Rom al quale i medici diagnosticano la Tbc. L'uomo viene curato per
due settimane, poi se ne va, probabilmente ritorna in Romania, ma intanto il
caso di tubercolosi - come succede per tutte le malattie epidemiche contagiose -
viene segnalato all'Azienda sanitaria, che si attiva per rintracciare tutti
coloro che possono essere venuti a contatto con il malato. Viene trovato il
figlio dell'uomo, al quale viene proposto il test per verificare se è stato
contagiato dalla malattia, che risulta negativo.
La notizia giunge a conoscenza della Questura, la quale aveva già intenzione -
secondo fonti ben informate - di portare a termine un'operazione di sgombero
all'area ex Sloi, che non era però attuabile senza una denuncia del
proprietario, dal momento che si tratta di una proprietà privata. In assenza di
denuncia si decide allora di porre tutta l'operazione sotto il segno della
prevenzione, sanitaria e di sicurezza pubblica.
Sul posto mercoledì scorso l'atmosfera era tranquilla, quasi rilassata, almeno a
prima vista: sorrisi sui visi degli assistenti sociali e degli agenti della
polizia; indifferenza di chi è abituato ad essere al centro dell'attenzione
delle forze dell'ordine di tutta Europa sul viso dei Rom, raggruppati prima di
essere portati in questura per essere identificati.
Nonostante l'evidente intento di tenere il più possibile celata la vicenda, come
prova l'orario dell'operazione, tipica da sgombero, sul posto sono arrivati una
decina di militanti del centro sociale Bruno, che hanno dato vita a una sorta di
improvvisato presidio democratico a garanzia dei diritti dei Rom. Con loro anche
Antonio Rapanà, operatore del
centro Astalli per i rifugiati politici, noto per
il suo impegno a favore dei diritti degli immigrati.
La sostanziale assenza di tensione che si respirava mercoledì scorso solleva una
prima domanda: era proprio necessario mobilitare la Polizia di stato per
affrontare una questione relativa alla salute? Questo modo di intervenire è
quello più efficace per proporre a persone con un retroterra culturale tanto
diverso una visita medica e - semmai - una cura contro la Tbc della durata di
sei mesi che necessità di continuità e di reciproca fiducia tra istituzioni
sanitarie e paziente?
Colpisce poi il fatto che gli operatori dell'Unità di strada, il cui compito è
dare assistenza a bassa soglia a persone in difficoltà e che hanno spesso avuto
a che fare con i Rom accampati all'ex Sloi, non erano stati avvertiti
dell'operazione e non erano dunque presenti sul posto. "Conosco e apprezzo il
lavoro dell'Unità di strada - spiega il Questore di Trento Giorgio Iacobone - ma
mi pare che si occupino soprattutto del problema della tossicodipendenza".
Il coordinatore Christian Gatti spiega di avere troppi pochi elementi per
valutare la bontà dell'operazione di mercoledì scorso ma alla domanda se
all'Unità di strada sia mai successo di intervenire congiuntamente alle forze di
polizia dice: "Di solito il nostro intervento si svolge prima".
Andrea Galli, medico di strada e volontario del
Naga di Milano, associazione di
volontariato nata nel 1987 e volta a promuovere e tutelare i diritti di tutti i
cittadini stranieri e di Rom e Sinti, abituato a lavorare nei campi nomadi del
capoluogo lombardo e a confrontarsi con i problemi sanitari di Rome e Sinti
spiega: "Arrivare con la Polizia di Stato in un campo nomadi non aiuta certo a
costruire un rapporto di fiducia con coloro ai quali si deve proporre una cura".
Il medico milanese sottolinea anche di non aver mai avuto in precedenza notizia
di operazioni di questo tipo portate a termine dalla Polizia di Stato: "Di
solito qui a Milano sono svolte da personale sanitario accompagnato da
assistenti sociali e dai vigili urbani, che rappresentano il Comune". E Milano -
insieme a Roma - è la città in cui si riscontra ogni anno il maggior numero di
casi di tubercolosi.
Tra l'altro i Rom dell'area ex Sloi non sono degli sconosciuti e i Servizi
sociali hanno altre volte organizzato degli interventi senza il coinvolgimento
delle forze dell'ordine. Antonio Rapanà, presente sul posto durante l'operazione
non ha dubbi sulla sua natura: "L'azione di prevenzione sanitaria, che mai
prevede la mobilitazione delle forze dell'ordine, era in realtà il pretesto per
mascherare l'ennesima operazione di controllo del territorio - certamente
concordata con le autorità di governo della città - con accompagnamento ed
accertamenti in Questura da concludere con l'adozione di provvedimenti di
allontanamento."
La selezione e gli accertamenti
Anche dal punto di vista sanitario l'intervento di mercoledì scorso solleva
molti dubbi. Secondo quali criteri sono stati individuati i nove Rom poi
convinti a recarsi in ospedale per sottoporsi agli esami? Spiega il Questore:
"Le persone accompagnate in ospedale sono quelle che hanno dichiarato al momento
dell'operazione di essere state a contatto con il malato". Se così fosse,
significherebbe che l'individuazione dei soggetti da visitare non ha seguito
il
protocollo stabilito dal Ministero della Salute, spiegato dall'Azienda
sanitaria provinciale in un
documento rintracciabile sul suo sito web: "Se
trattasi di una forma polmonare contagiosa, l'Azienda Sanitaria rintraccia le
persone che sono state a contatto stretto con il malato (familiari, conviventi,
colleghi di ufficio, compagni di scuola, ecc) per accertare, mediante dei test,
se vi è stata trasmissione dell'infezione; il test più frequentemente usato è il
test cutaneo tubercolinico di Mantoux." Questo consiste in un'iniezione
intradermica sull'avambraccio di una piccola quantità di tubercolina. Dopo circa
72 ore viene eseguita la lettura del test da parte di personale sanitario e
soltanto in caso di test positivo il paziente viene sottoposto a ulteriori
analisi, tra cui quella radiologica, che presenta comunque un certo grado di
invasività.
Il test di Mantoux, però, non è stato svolto: per quale motivo? "Il dubbio -
spiega una fonte medica bene informata - è che le forze dell'ordine non
cercassero di stabilire veramente chi potesse essere stato contagiato, ma solo
chi era infettivo, mettendo così in evidenza non una preoccupazione per lo stato
di salute dei Rom, ma soltanto la necessità di escludere le possibilità del
contagio". La positività al test di Mantoux rende certa l'avvenuta trasmissione
dell'infezione tubercolare e impone successivi test, così come un eventuale
intervento terapeutico, ma non determina se l'infezione è nello stadio
contagioso, cioè trasmissibile ad altre persone. Questo significa che tra le
nove persone visitate - e anche tra gli altri Rom identificati - è possibile (e
probabile) che ve ne fossero altre contagiate dall'infezione che però non era a
uno stadio tale da venire identificata attraverso una radiografia. Anche nei
loro confronti i medici avrebbero quindi dovuto valutare la necessità di una
presa in cura. Ma così non è stato.
Inoltre, secondo quanto stabilito dal Ministero della Salute nelle sue Linee
guida per il controllo della malattia tubercolare, "È molto importante
utilizzare il verificarsi di un caso per incidere in situazioni particolarmente
difficili; la ricerca attiva dell'infezione, pertanto, va estesa anche ai
contatti non stretti, se questi ultimi appartengono a gruppi a rischio che hanno
difficoltà ad accedere ai servizi sanitari". Quindi, restando nell'ottica della
prevenzione di una possibile diffusione dell'infezione, il test di Mantoux
avrebbe dovuto essere proposto a tutti i Rom presenti al momento
dell'operazione.
Altro aspetto sul quale riflettere relativo al "blitz" condotto mercoledì scorso
e sottolineato dalla nostra fonte sta nel fatto che con tutta probabilità gli
organizzatori dell'operazione avevano escluso di trovare qualcuno di
effettivamente contagioso. I malati infetti e contagiosi richiedono infatti
particolari accorgimenti per la loro ospedalizzazione: devono essere posti in
stanza singola e in isolamento respiratorio.
E' quindi probabile che sarebbe stato molto difficile convincere eventuali
malati contagiosi rilevati tra i Rom visitati a sottoporsi alle cure, rendendo
necessario il ricorso al Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), che comporta
che l'ammalato venga piantonato per almeno le due settimane necessarie ad
eseguire la prima parte della terapia, della durata totale di sei mesi, con il
rischio che una interruzione prematura delle cure possa dare vita a ceppi di
Tbc
ancora più forti e resistenti ai medicamenti.
Le strutture sanitarie e le forze dell'ordine erano pronte all'eventualità che
vi fossero magari due, tre malati in questa condizione da sorvegliare per due
settimane 24 ore su 24? Su questo la nostra fonte esprime seri dubbi e giunge
anch'essa alla conclusione che - in realtà - la minaccia di una potenziale
diffusione di Tbc non fosse che una scusa per nascondere uno sgombero vero e
proprio.
In effetti tra i Rom accompagnati in Ospedale per il test radiologico una donna
è risultata affetta dalla malattia. Le è stato quindi chiesto di rimanere in
ospedale per ulteriori accertamenti, cosa alla quale lei si è opposta, chiedendo
di potersene andare.
A quel punto i toni si sono accessi e alcuni testimoni parlano di un'aggressione
verbale da parte di un agente della polizia nei confronti della Rom, circostanza
negata dal capo della squadra mobile Roberto Giacomelli, coordinatore
dell'operazione, che ha dichiarato: "Non mi risulta nulla del genere, si è
cercato invece di convincere la donna". La Rom è stata quindi sottoposta a
un'ulteriore analisi, quella del catarro, per stabilire se la malattia era a uno
stadio infettivo, ma in questo caso l'esito è stato negativo e la donna è stata
quindi lasciata andare via, ben sapendo che difficilmente si sarebbe sottoposta
alla cura.
Assenti in Ospedale gli assistenti sociali del Comune, presenti solo all'area ex
Sloi: Forse il loro intervento per convincere e rassicurare le persone portate
in ospedale sarebbe stato importante, anche per dare seguito all'intervento del
Comune su questa questione.
Gli allontanamenti
Nel corso dell'operazione di mercoledì il capo della squadra mobile Giacomelli
rassicurava i presenti sul carattere non repressivo dell'azione della polizia,
cercando di sdrammatizzare. Richiesto di spiegare i motivi del trasferimento dei
Rom in questura per essere identificati e se essi si fossero resi colpevoli di
un qualche reato, Giacomelli spiegava trattarsi di una normale procedura non
legata ad infrazioni di legge di alcun tipo: "Così cominciamo a conoscerli".
Secondo quanto detto dal capo della squadra mobile, gli identificati sarebbero
stati subito rilasciati e avrebbero potuto tornare sull'area ex Sloi se lo
avessero voluto, cosa che si è rivelata solo in parte vera, dal momento che 27
di loro hanno ricevuto un'ordinanza di allontanamento, che impone loro di
lasciare l'Italia.
Nessun reato, quindi. E allora perché la polizia ha bisogno di "conoscere"
questi Rom (tra l'altro cittadini europei) e perché alcuni dei Rom identificati
hanno ricevuto un'ordinanza di allontanamento? In che modo l'identificazione e
il successivo allontanamento erano legati all'obiettivo primario conclamato
dell'operazione, cioè quello di curare le persone malate e di prevenire un
possibile problema di salute pubblica?
Il Questore di Trento, Giorgio Iacobone, difende questa scelta, motivandola con
il ruolo di prevenzione che compete alla Questura e alla Polizia di Stato, sia
sul piano della salute pubblica, sia su quello della sicurezza. Iacobone si è
detto preoccupato non solo della presenza di un possibile focolaio di Tbc, ma
anche della possibilità che la presenza dei Rom possa portare a un aumento della
microcriminalità e che dietro ad essi - impegnati quotidianamente a chiedere la
carità in città - vi siano organizzazioni criminali che controllano la raccolta
del danaro e gestiscano il loro arrivo in Italia. Alla domanda se si tratti - in
quest'ultimo caso - di un sospetto o di una certezza, il Questore ammette di non
avere prove ma aggiunge: "Proprio per questo è necessario conoscere chi sono
queste persone, che cosa fanno e dove finisce il danaro che raccolgono".
Iacobone lancia anche un appello a non fare la carità ai Rom presenti a Trento e
sottolinea la sua preoccupazione per persone che paiono refrattarie a qualsiasi
tentativo di intervento dei servizi sociali. Eppure chiedere la carità non è un
reato e - anche ammesso che dietro ai Rom vi siano organizzazioni criminali -
appare dubbio che misure repressive come quelle dell'allontanamento, che
colpiscono solo le vittime di un presunto racket, possano avere qualche
efficacia ed equità.
Così, se un'intervento era sicuramente auspicabile (ma non certamente da parte
della polizia e con ben altri presupposti sanitari), le argomentazioni fornite
per giustificare i provvedimenti repressivi contro i Rom paiono piuttosto fumose
e la presenza di possibili casi di Tbc suonano più come una scusa per
giustificare un intervento preparato da tempo.
Anche l'identificazione dei Rom in quanto gruppo come possibile fonte di
contagio, sia di malattie sia di microcriminalità, risponde a quei meccanismi
discriminatori ben descritti dalle scienze sociali: gli "zingari", i nomadi,
vengono presentati come soggetto alieno, portatore di disordine che va espulso
dalla "comunità".
Ma uno sgombero e un provvedimento di allontanamento non fanno che occultare un
problema che riemergerà, ancora e ancora. Difficilmente infatti le persone
colpite dal provvedimento di allontanamento se ne andranno: con tutta
probabilità ritorneranno all'ex Sloi e continueranno a fare la carità in città,
solo ancora un po' più deboli di prima. Fino alla prossima "operazione".
Quello che è certo è che la commistione tra intervento per cause di salute
pubblica e intervento repressivo è negativa allo scopo di un buon successo della
prima: quale fiducia nel personale sanitario e negli assistenti sociali possono
avere i Rom se questi sbarcano tra le loro baracche accompagnati da poliziotti
in borghese? Così, prima di lamentarsi della sostanziale refrattarietà di queste
persone agli interventi proposti dai servizi sociali, sarebbe forse utile
interrogarsi sulle modalità con le quali questi interventi vengono portati a
termine.
In questo senso la scelta del Comune, attraverso i suoi Servizi sociali, di
avallare un'operazione repressiva della polizia mascherata da intervento
sanitario è assolutamente criticabile e pericolosa, perché rischia di
depotenziare l'efficacia dei servizi stessi, ai quali ci si deve poter rivolgere
senza paura di eventuali ripercussioni dal punto di vista legale.
Questo vale anche per le autorità sanitarie e il loro personale, che hanno
l'obbligo di fornire a tutti i malati o potenziali tali il massimo delle
opportunità di cura e per farlo devono cercare di costruire un rapporto di
fiducia con i propri pazienti, che di certo mercoledì scorso ha ricevuto un duro
colpo.
Ma - forse - quello che colpisce di più in questa vicenda è che le esigenze
sanitarie dei 40 Rom al centro dell'operazione probabilmente interessavano a
pochi. In fondo si tratta pur sempre di zingari, i più miseri, denigrati,
discriminati, nostri concittadini europei.
La conclusione alla quale giunge Antonio Rapanà, operatore del centro Astalli
per i rifugiati politici e tra i pochi presenti all'operazione di mercoledì
scorso apre alla necessità di un diverso modo di intendere la sicurezza: "Se è
vero che non ci sono risposte semplici né soluzioni certe alla domanda di
sicurezza che viene dalla comunità, proprio per questo la strategia per la città
sicura - che -si-cura- deve essere finalmente riportata al centro di uno spazio
pubblico di analisi e di discussione collettiva che non si arrenda alle facili e
fallimentari suggestioni del pensiero unico che riduce la questione complessa
della sicurezza urbana a mero problema di ordine pubblico."
L'autore. Mattia Pelli
Giornalista professionista, ha lavorato per Radio Dolomiti e per il
quotidiano "l'Adige" di Trento. Laureato in Storia contemporanea all'Università
di Bologna è ricercatore presso la Fondazione Museo Storico del Trentino e
collabora con la Fondazione Pellegrini Canevascini di Bellinzona. Ha pubblicato
nel 2005 il volume "Dentro le montagne: cantieri idroelettrici, condizione
operaia e attività sindacale in Trentino negli anni cinquanta del Novecento".