CORRIEREIMMIGRAZIONE 22 aprile 2013 | di Stefania Ragusa
La deportazione dei rom dalla Germania al Kosovo: chi se la ricorda più? Eppure
è un fatto di pochi anni fa. Un bellissimo libro di poesie ci aiuta a non
dimenticare.
Dei saggi non noiosi si dice spesso che si leggano come romanzi. In questo caso
ci troviamo, invece, di fronte a una raccolta poetica che ha l'effetto di una
narrazione giornalistica di alto livello, capace di unire la precisione storica
dei fatti con i vissuti dei protagonisti. Ne Il pianto degli zingari
Paul Polansky, intellettuale controverso ma imprescindibile per chiunque sia
interessato al tema rom, ci parla di una vicenda assi incresciosa, vicina nel
tempo e nello spazio, ma finita in uno spesso e ovattato dimenticatoio: la
deportazione dei rom, dalla Germania al Kosovo, in campi pesantemente inquinati
dal piombo, nel 2010.
In molti casi, ad essere deportati, sono stati bambini nati e cresciuti in
Germania, che non conoscevano altra lingua che il tedesco ed erano assolutamente
impreparati alla vita nei campi. Si trattava dei figli dei profughi arrivati
soprattutto in Germania, ma anche in altri Paesi europei, in seguito alla guerra
dei Balcani del 1999. I rom erano stati considerati dalla maggioranza albanese
collaborazionisti dei serbi, le loro case bruciate e distrutte. Per questo, a
più riprese, erano fuggiti all'estero. Ma alla nascita del Kosovo, grazie a
sbrigativi e discutibili accordi con Pristina, e nonostante segnali evidenti che
davano a pensare circa la loro effettiva sicurezza, sono stati rimandati
indietro.
Il racconto è affidato a Danica, una bambina molto intelligente, che frequenta
la scuola a Monaco, prendendo ottimi voti, e sogna di fare il medico o
l'insegnante. Danica ricostruisce la vicenda in poche, calibrate parole. A
partire dalla notte in cui arrivarono gli albanesi a bruciare la loro casa: "I
nostri vicini Albanesi non ci violentarono/ Soltanto, continuarono ad urlare/
che avevamo soltanto due minuti/ per salvarci la vita/ Erano le quattro/ quella
mattina/ quando scappammo/ ancora in pigiama ...". Poi ci fu l'arrivo e l'incontro
con le cugine nate in Germania e che non parlavano romanés, figlie dello zio
scappato anni prima: "Alla fine della giornata/ stavano insegnandomi/ una nuova
lingua/ dissero che dovevo dimenticare/ di essere una zingara". Poi, la nuova
vita, la scuola, la vicina affettuosa, l'avvocato rassicurante ma certamente non
in grado di ipotecare il futuro e il padre che non voleva diventare un tedesco
ma che si trova a ricredersi in pochi istanti di fronte alla possibilità di lavorare. E poi, ancora, l'epilogo inaccettabile con i poliziotti che, come gli
Albanesi, arrivano la mattina presto "ed erano come la Gestapo nelle storie di
papà". Ma Danica anche all'interno del campo avvelenato dal piombo, mette in
atto la sua resistenza. Insegna il tedesco agli altri bambini. Prova a
incontrare il mondo fuori. E progetta il ritorno in Germania.
In appendice un testo firmato da Rainer Schulze, docente di Storia moderna
Europea all'università di Essex, tratteggia un quadro di riferimento che permette
di inquadrare meglio la vicenda. Il pianto degli zingari, che è stato tradotto
da Fabrizio Casavola, grande conoscitore del mondo rom e ideatore del blog
Mahalla, illustrato da Stephane Torossian e pubblicato da Volo Press, è un testo
che si presta a molti livelli di lettura. Anche per questo sembra fatto apposta
per essere proposto nelle scuole. Noi ci auguriamo che lo sia, che non si perda
diventando una piccola perla riservata agli addetti ai lavori. Perché di questa
informazione e di questa memoria oggi c'è bisogno come il pane. Soprattutto tra
i più giovani.