Segnalazione di Giovanna Bellotti
di Alessandro Marzo Magno
Anche prima dell'invenzione delle campagne elettorali c'era chi voleva
cacciare via gli zingari. Nella Milano del Cinque-Seicento sembra che
provocassero una specie di fobia collettiva, tanto da far varare una legge che
stabiliva l'impunità per chiunque li avesse ammazzati e si fosse impadronito dei
loro beni. Non è che se la cavassero tanto meglio da altre parti d'Italia, ma ma
in nessun luogo come nel ducato milanese si varavano provvedimenti tanto duri. E
tanto inutili. Visto che si è andati avanti per due secoli a inasprire le pene
senza raggiungere il risultato voluto.
Nessuno faceva le campagne elettorali su di loro – anche perché le elezioni non
erano ancora state inventate – ma gli zingari invece c'erano e già c'era anche
chi voleva cacciarli via. Nella Milano del Cinque-Seicento sembra che gli
zingari provocassero una specie di fobia collettiva, tanto da far varare una
legge ("grida", in quel tempo, come ci ricordava Alessandro Manzoni) che
stabiliva l'impunità per chiunque li avesse ammazzati e si fosse impadronito dei
loro beni. Non che negli altri stati italiani volessero bene ai nomadi (li
bandiscono da Roma e anche la Serenissima non vede l'ora di mandarli a vogare
nelle galee), ma in nessun luogo come nel ducato milanese si varavano
provvedimenti tanto duri (che però non servivano a niente, visto che si è andati
avanti per due secoli a inasprire le pene senza raggiungere il risultato
voluto).
Gli zingari penetrano in Europa occidentale nel XV secolo, spinti dalla
conquista turca dei Balcani. Nei primi anni sono guardati con un misto di
curiosità benevolenza, sentimenti che poi lasciano il passo alla ripulsa e
all'odio. I primi a espellere gli zingari sono gli svizzeri di Lucerna, nel
1471; a ruota, seguono tutti gli altri. «È finito quel brevissimo lasso di tempo
in cui lo zingaro, esotico e misterioso, incuriosiva la gente e commuoveva con
la sua triste storia di pellegrino: inizia ora la caccia allo zingaro ladro,
pigro e imbroglione», scrive Giorgio Viaggio nel suo Storia degli zingari in
Italia.
Va subito chiarita una cosa: gli aspetti che più colpiscono negativamente le
popolazioni di allora non sono tanto l'accattonaggio e la mendicità, quanto il
fatto che siano considerati "oziosi", ovvero che non abbiano alcuna intenzione
di cambiare stile di vita. Nelle società di antico regime chiedere l'elemosina
non era un'attività così disdicevole: il buon cristiano aveva il dovere di
aiutare i bisognosi, mentre esistevano confraternite e gilde di mendicanti e
l'accattonaggio era un'attività regolata, con tanto di concessioni di licenze e
divieto di mendicare per chi non fosse residente. A mano a mano che si sviluppa
la filantropia, cresce il disprezzo per chi non si vuole sottrarre alla
condizione di presunta inferiorità, la repulsione verso gli "oziosi", come li
chiamavano al tempo. L'ozio, si sa, è il padre dei vizi. È sempre meno otium
latino, ovvero lo stato di grazia che permette alla mente di partorire i suoi
frutti migliori, e si avvicina sempre più all'accidia, cioè a uno dei sette
peccati capitali.
Gli zingari rappresentano tutto ciò: sono gli estranei che portano il male. La
loro persecuzione comincia, forse niente affatto casualmente, in anni e luoghi
vicini alla persecuzione antiebraica, e continuerà nei secoli, fino agli Untermenschen dei nazisti.
I primi zingari arrivano a Milano, a fine Quattrocento, quando il duca Gian
Galeazzo Sforza ne accoglie benevolmente un gruppo, capeggiato dal "conte del
piccolo Egitto" (spessissimo gli zingari erano indicati come "egiziani" perché
si pensava fossero originari del Nordafrica). Ma già il suo successore, Ludovico
il Moro, vara un decreto con cui ordina agli zingari di allontanarsi dal
territorio compreso tra i fiumi Po e Adda, minacciando di morte i disobbedienti.
Si tratta di uno dei provvedimenti più severi del tempo, giustificato dal
crescente numero di nomadi sul territorio milanese e dall'aumento di "furti e
delitti". Alla morte dello Sforza, nel 1498, il ducato passa sotto la
dominazione francese e anche gli Orleans confermano le politiche di espulsione:
la grida del 23 aprile 1506 si occupa degli zingari dal punto di vista
sanitario, affermando che con il loro nomadismo potrebbero favorire la
diffusione della peste (il cosiddetto "cordone sanitario" consisteva in un
blocco delle città in modo da impedire a chiunque di entrarvi e diffondere il
contagio), ma già nel dicembre successivo si prendono provvedimenti più
drastici, stabilendo che gli zingari debbano partire entro quattro giorni, pena
la frusta, mentre gli osti che li ospitassero sarebbero puniti con un'ammenda di
venticinque ducati.
Ma è con gli spagnoli che i provvedimenti antizingari a Milano diventano una
vera e propria ossessione, tanto che si arriverà a una sessantina di grida sul
tema. Il che, in paio di secoli, fa una media di una legge ogni poco più di tre
anni, con un crescendo di pene talmente esagerato da rivelarne l'assoluta
inefficacia. Con il duca di Terra Nova (1568) e Carlo d'Aragona (1587) inizia la
repressione vera e propria, con la condanna a cinque anni di remo per gli uomini
e alla «pubblica frusta» per le donne; nel decreto del 1587 si parla di «cingheri,
gente pessima, infame, data solo alle rapine, ai furti e ogni sorte di mali».
Una grida del 1605 comanda invece che nessuna «persona, ancora privilegiata o
feudataria, ardisca alloggiare, dare ricetto, aiuto o favorire in alcun modo a
detti cingari».
Nel 1624 in una legge contro le delinquenza comune gli zingari vengono definiti
i più pericolosi tra i malfattori e si dichiara lecito derubarli delle loro
cose, senza tener conto di permessi e licenze da essi posseduti (spesso avevano
autorizzazioni all'accattonaggio e al girovagare emesse in Germania). Inoltre si
intima il divieto di frequentarli. Evidentemente le autorità del ducato di
Milano non riescono a fare nulla di concreto contro i nomadi, visto che
autorizzano la giustizia fai da te: nel 1657 si concede alle popolazioni di
riunirsi al suono della campane a martello «e perseguitare detti cingari
prenderli e consignarli prigioni». Non si riesce a farli star buoni? E allora
che non entrino nemmeno: il 15 marzo 1663 una grida vieta l'accesso agli zingari
nel ducato, pena sette anni di galera agli uomini e alle donne di essere
pubblicamente frustate e mutilate di un orecchio (la pena della galera non
significa andare in prigione, significa diventare "forzati da remo" a bordo
delle unità militari della flotta – galee o galere – da cui il termine è passato
poi a indicare le carceri). Trent'anni dopo, nell'agosto 1693, è prevista
l'impiccagione immediata per gli zingari che fossero trovati nel territorio
milanese.
Di più: qualunque cittadino ha diritto di «ammazzarli impune» e poi di «levar
loro ogni sorta di robbe, bestiami denari che gli trovasse», in regime di
esenzione fiscale, «senza che s'habbia a interessare il regio fisco». Come in
guerra, insomma: si ha diritto di ammazzare e di far bottino dei beni del nemico
ucciso. «Parecchi di loro, specialmente donne, vennero abbruciati», scrive
Francesco Predari, bibliotecario della Braidense, in "Origine e vicende dei
zingari", pubblicato nel 1841. Bisognerà attendere Maria Teresa perché alla
politica degli ammazzamenti si sostituisca quella, meno violenta, ma egualmente
illiberale, dell'assimilazione forzata. Comunque la secolare lotta intrapresa
dal ducato di Milano contro gli zingari non ha portato a nulla, sono sempre
riusciti a evitare le conseguenze peggiori e continuare nel loro tradizionale
nomadismo. I figli del vento non possono essere messi in gabbia.
NDR: Nel pezzo viene ripetuto + volte che gli zingari non
votano, ed è per questo che le leggi si sono sempre burlate di loro. A Milano,
per via Idro ma anche altri campi, il sindaco Moratti ha ripetuto + volte che
dopo le elezioni sgombererà i campi... per andare... nessuno l'ha spiegato.
Così, i Rom hanno ritirato le loro schede elettorali, hanno scelto sindaco e
candidati e, se non fanno casino, andranno a votare. VEDIAMO CHI LA VINCERA'
STAVOLTA.