Il 7 dicembre è morto Mirko Levak, rom sopravvissuto ad Auschwitz - Rom e Sinti da tutto il mondo

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Il 7 dicembre è morto Mirko Levak, rom sopravvissuto ad Auschwitz
Di Fabrizio (del 11/12/2010 @ 09:10:51, in Kumpanija, visitato 2472 volte)

di Alberto Maria Melis

Mirko Levak Nato nel 1928, di etnia rom di origine italo-slava. La carovana della sua gente viene fermata dai nazifascisti in Friuli, tutti vengono rinchiusi in carcere a Trieste, quindi, dopo una sosta a Bolzano, deportati ad Auschwitz. Mirko Levak, che all'epoca dell'arresto ha solo quindici anni, è tra i pochi sopravvissuti di quell'arresto.

[...] Una vecchia intervista a Mirko Levak, tratta dal sito web dell'Anpi, ma con una premessa. Rispetto all'originale, che è una trascrizione letterale del parlato registrato per il video dell'Opera Nomadi, in molti punti di difficile comprensione per le difficoltà che Mirko Levak incontrava nell'esprimersi in un italiano corretto, questa che segue è stata adeguata e resa più comprensibile a chi legge (la versione originale è scaricabile QUI).

"Dunque, il nostro comune era Postumia di Grotte, provincia di Trieste. Quando i tedeschi sono venuti a Postumia, e hanno occupato tutto il Carso, il mio povero nonno, che conosceva i tedeschi, perché era stato in guerra dal '15 al '18, (per questo conosceva la razza tedesca e austriaca), diceva: "Meglio che ce ne andiamo di qua!".
Erano in tanti che scappavano da Postumia ma anche dalla Croazia. A Postumia erano giunti in tanti, dalla Croazia, da tutta l'Istria, erano tutti rom, tutti zingari. E allora mio nonno e i miei parenti hanno preso i carretti, hanno attaccato i cavalli, e stavamo venendo verso l'Italia quando a un certo punto, tra Portogruaro e Latisana, ci fermiamo vicino a una strada e vengono i tedeschi, che hanno capito subito che eravamo zingari e ci hanno fatto una specie di rastrellamento.
Non si muoveva nessuno, io ero ragazzino, ci domandarono dove andavamo.
"Giriamo il mondo" disse mio nonno, "gli zingari girano il mondo per vivere".
Allora ci hanno ci hanno presi tutti: cugini di mio padre, altri familiari, me, due tre bambini, ci hanno
preso e ci hanno caricato sulle macchine o su un camion – non mi ricordo più precisamente – e ci hanno sequestrato.
Certe donne invece, la mia mamma, certi familiari, mio nonno che era vecchio, li hanno lasciati andare.
A noi ci hanno caricato e ci hanno portato, credo, verso Trieste. Là c'erano dei treni, con quelle carrozze su cui ci si caricano i cavalli, le bestie, e ci hanno messi tutti lì e ci hanno portato credo – credo – verso l'Austria, dove siamo stati per un mese, pressappoco, e di là ci hanno caricati di nuovo e ci hanno portati in Germania.
I tedeschi parlavano la loro lingua. Finché eravamo di qua, in Austria, ancora c'erano italiani, c'erano fascisti e un po' si capiva, ma là…
Insomma dall'Austria ci hanno portato direttamente ad Auschwitz e ci hanno messo in baracche... una specie di baracche, e lì ci domandavamo "cosa ci faranno?". Tanti piangevano e io piangevo, chiedevo della mia mamma. C'erano altri parenti (...) … C'erano ebrei e altri e anche loro ci davano coraggio.
Ci portavano a lavorare i campi, ma chi sapeva lavorare i campi? Si cavavano le patate con le unghie. Lì siamo stati parecchio, un giorno qua un giorno là, dai contadini, poi ci hanno rinchiuso proprio nelle baracche. C'era qualcuno che cercava di scappare. (............................) Insomma, per dirvelo francamente, quel che ho visto in quei campi non lo auguro neanche alle bestie.
Mi ricordo un giorno, si lavorava, si spostavano delle cose, un amico cadde vicino a me e io mi avvicinai per sollevarlo, venne un tedesco e mi diede un calcio.
"Non devi aiutare quell'uomo".
"Perché poverino?"
"No!" e di nuovo un calcio e una botta sulla testa.
Questo qua piangeva poverino e il tedesco "Ssst, sennò vi ammazzo"
"E ammazzateci, tanto ormai!".
Lì sono diventato come uno scheletro, ho dimenticato anche come parlare, non già la lingua, ho dimenticato tutto. Non si poteva ricordare più niente (di ciò che era stata prima la nostra vita) per tutto quello che si vedeva in questo benedetto campo.
Troppo disastro!
Ho visto il cugino del mio povero padre, l'hanno buttato in un forno, e io piangevo, e mi battevo le mani, e gli altri mi davano gli schiaffi e mi dicevano "perché piangi?". "È mio parente…" e ancora schiaffi.
"Arbeit, Arbeit!" "Arbeit?", dicevo io. "Lavorare!".
Ma cosa facevo nel campo? Niente. Perché oltre a portare qualche morto da qualche parte o seppellire (qualche cadavere)… Era difficile anche seppellire.
Una volta, con un camion (...), ci hanno portato in mezzo ai campi. Li scavammo una fossa grande e i morti li buttammo dentro, senza una coperta, senza niente (nudi). Lì c'erano anche i miei parenti. A loro (ai tedeschi) non interessava. Pestavano sopra. Pestavano, non gli faceva nessuna pietà. Ordinavano di fare la fossa, li prendevano e li mettevano in fila indiana, e cercavano di ucciderne tre, quattro, con una pallottola sola. E c'era uno che non sapeva fare niente... Così un nazista - avevano le bombe con il manico, che me le ricordo sempre – con quella (una bomba) gli ha dato una botta in testa che è rimasto secco. Gli veniva quasi il cervello fuori. Mamma mia! Il sangue veniva fuori come … hai visto quando ammazzano un bue, come il sangue scorre?
A Jasenovac, ce n'erano che erano venuti dalla Jugoslavia: erano fascisti e ustascia e dicevano che facevano i … Jasenovac si chiamava questo paese e c'erano là anche zingari, ebrei, ce n'erano tanti in Jugoslavia di zingari e rom … e allora loro gli mettevano un chiodo sulla zucca e (poi) poggiavano la testa di questo poverino e ( poi) con una mazza (...)... e li prendevano come cani e li buttavano nel fosso, nelle fosse comuni. Ho sentito di quelle cose che nessuno crede!
Quando (oggi?) vado a Auschwitz, (...) (e) a Jasenovac, dove c'erano tutti i prigionieri rom, (e) pochi erano ebrei...(...) ogni volta (...) sento ancora un rumore che è roba dell'altro mondo.
(Alcuni nuovi arrivati ad Auschwitz) mi [rac]contarono che venivano da Jasenovac (...) e dicevano "ancora, ancora, qua… ma devi vedere là cosa c'è!". Ormai ci eravamo conosciuti, eravamo rom, parlavamo la stessa lingua "Ma tu Mirko devi vedere là cosa c'è!". Preghiamo … (...) "però vedrai che faremo la stessa fine di quelli di Jasenovac!"
C'era chi si ribellava per tutto questo che ci facevano. Quel che succederà succederà, dicevano. Tanti – e ce n'erano più anziani di me – dicevano "ormai tanto, così o così, ci ammazzano lo stesso. Proviamo a ribellarci". E chi pensava a ribellarsi – perché (i tedeschi) sapevano chi era colpevole, perché c'erano sempre delle spie di mezzo – e veniva preso e lo buttavano nel forno.
Pane non ne facevano dentro (il forno). Era solo per i cristiani! Peggio delle bestie erano (...) lì. E sapevamo (tutto quello che succedeva) , perché c'era il forno, e si vedeva.
Hanno preso il cugino del mio povero padre, per una parola detta, (...) non (...) ricordo la parola, (o) cosa ha fatto: non ha obbedito… L'hanno preso per i capelli e l'hanno tirato vicino a quel fuoco e l'hanno buttato (dentro). Vivo! Non ucciso. Vivo! Finché li buttavano, poverini, dopo averli fucilati, dopo averli ammazzati… ma vivi li buttavano! Quello che mi ha fatto impressione e che mi torna sempre in mente (ero ragazzino, ma mi ricordo) era quando li tiravano fuori (i morti, dalle baracche?), sui carrettini e li buttavano nelle fosse comuni. Quello sì mi ricordo bene. E quante volte ho tirato io quel carrettino. Era pesante, bisognava avere un cuore forte, e bisognava farlo, sennò ti spettava… spettava anche a noi finire così.
Ecco perché alle volte (...) i rom e gli ebrei si ribellavano, perché li si obbligava a partecipare a quel massacro, noi altri stessi, ai nostri parenti. Guarda, a me è toccato portare un mio parente, poverino, (e) buttarlo dentro (una fossa) e (...).
Poi, tra compagni, si parlava dei parenti: "Ma guarda cosa ci tocca fare?".
Per due o tre volte è successo, che scoppiasse la ribellione, ma chi lo faceva lo pagava salato.
Ho visto un giorno a uno, povero!, a una donna e un uomo, marito e moglie, mi ricordo sempre, era brava gente, si vedeva… Si carezzavano. Era incinta, questa donna, e le hanno sparato in pancia e l' hanno tagliata con il mitra, così, in pancia. Una roba… che vedevi sto sangue; suo marito l'abbracciava (e) pam! E dopo, sopra di lei con le baionette, con quelle cose lì li hanno massacrati.
Insomma, mi sento indignato a (ricordare) queste cose, non vorrei mai (ricordare) queste cose.
"Adunata" dicevano, e dovevi essere presente. Contavano a uno a uno. Io credo che facessero finta di contare. Con tanti come eravamo, come facevano a contare col dito, così. (...) (........)
Poi ci buttavano (addosso) la soda caustica.
La facevano bollire e ce la buttavano sui vestiti, quelli tedeschi, quelli con le righe. Per ammazzare i pidocchi.
1942, '43, '44, fino al '45. Due anni e mezzo sono stato là. Avevo sui 14 anni, neanche. Te lo giuro se mi ricordo più! (...) Avevo sui 14 anni. Avevo anche qualche pregio: avevo un sorriso. Ridevo sempre, ma c'erano tanti che non ce la facevano, diventavano come stecchi, si vedevano le ossa, si vedevano le ossa fuori dalla pelle.
Dopo che i tedeschi si ritirarono, restammo liberi. Siamo usciti fuori (dal campo) da soli. Però tutti come stecchi. Come stecchi siamo usciti!
Adesso mi sento ancora… (....) ... mi sento "angosciato" a  parlar di queste cose di cui non dovrei parlare. Mi dispiace, però, io (per) quello che vedevo, ero diventato sciocco. (...) Ho sempre dentro l'orecchio questo rumore qua benedetto. Mi sento sempre quel rumore dentro, che è un rumore... una roba dell'altro mondo. Non voglio neanche più parlare perché mi sento "angosciato". È un trauma.
(Dopo essere stato liberato) Sono andato a Postumia… non c'era più niente. (...) Credevo che anche (tutti gli altri) fossero stati portati in altri campi. Perché non c'era solo Sacvitz, c'erano tanti campi, c'erano altri campi. Poi cammino, cammino, e sento la gente parlare, "di dove sei?", "dove non sei?", "sono di qua"; "guarda che c'è della gente, degli zingari, a Casale sul Sile, in una scuola, sono sfollati".
No, (cioé) li chiamavano "montenegrini", quella volta, "montenegrini" li chiamavano.
Mah!, e vado in piazza, là a Casale sul Sile, alla scuola,e vedo una ragazzina e mi dico "ma quella deve essere una rom, una zingara".
Io (allora) non sapevo nemmeno più parlare, mi tornava quel rumore negli orecchi, tutti queibombardamenti, tutti quei mitra, tutte quelle cose. La vedo e le dico:"Tu chi sei?", "E tu chi sei?" e io: "Sei una zingara? Sei una rom?", mi risponde "Sì, sì". "Tu conosci (mio) nonno?". "Sì, conosco sì". (…) "È qui". Sospirone.
Vedendomi mio nonno (…) mi ha abbracciato: "Ma sei tu caro? Ma sei tu caro nipote?". Insomma coi denti, coi denti mi mangiava. Viene fuori mio padre, viene fuori mia madre… Madonna santa!... Tu vedevi la gente lì, quando mi hanno visto insieme: piangeva tutto il paese.
Insieme a me erano venuti altri due o tre di rom, da là (dalla Germania), quegli altri non han trovato (la loro) famiglia (…). Quelli senz'altro li avevano portati negli altri campi, li avevano sterminati.
(Come) i cugini del mio povero padre, tanti parenti…i miei bisnonni. Tutti. Li hanno deportati perché erano sotto a Zagreb (Zagabria), era lì che abitavano, tutti li hanno portati ad Auschwitz. Tutti li hanno
massacrati un po' a Sacvitz, un po' a Auschwitz.
Insomma gli zingari, io non so ancora, non ho capito perché ci odiavano 'sti tedeschi così tanto? Perché ci odiavano tanto i tedeschi?
Ma gli zingari, cosa facevano? Perché non erano buoni a lavorareo perché si chiamavano zingari?
Io ancora ho da capire perché uccidevano gli zingari.
Come oggi, perché non è ben visto, lo zingaro? È una persona come tutti gli altri. Se tagli mio dito e il tuo che sangue viene fuori? Sempre rosso! E io non perderei mai il mio carattere. Io sì, ho una
vita (diversa), come posso dire… (…) Ma, se io potessi firmare, firmerei per essere ancora zingaro, come ero: Rom.
È triste ricordarsi tutto.

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