Ultimamente i martedì sono stati dedicati alla vicenda
raccontata da "Negligenza mortale". Credo, senza modestia, di essere
stato fra i primi a parlare in Italia di Paul Polansky. Ho ritrovato nel gruppo
di discussione
Arcobaleno a Foggia il primo articolo di Polansky che tradussi in italiano.
Sono passati solo 6 anni. Una testimonianza di come si vive(va?) in Kosovo.
8 luglio 2004
Ieri sera stavo cenando quando alcune donne Romnia hanno iniziato ad urlare che
un bambino di 10 anni si era seriamente ferito giocando a calcio. Sono uscito,
in tempo per incrociare un signore che a braccia trasportava un bambino in stato
di incoscienza. Il bambino vestiva calzoncini, T-shirt ed era senza scarpe. Il
braccio era rotto in due punti, trattenuti a malapena da qualche lembo di pelle.
C'è una piccola clinica serba a solo 4 chilometri, ma i genitori hanno voluto
che li accompagnassi a un altro ospedale più grande, a 10 Km., nella speranza
che fosse attrezzato per curare la frattura.
Alle 19.30 siamo arrivati in quello che è chiamato l'ospedale Greco di
Grachanica. Tre anni fa, era stato costruito da Medicine du Monde di Grecia, per
donarlo alla comunità serba. Mentre parcheggiavo il furgone, Dija, la nostra
interprete, era già balzata a terra col bimbo in braccio, che nel frattempo era
rinvenuto e stava piangendo.
Ho aspettato 45 minuti nel parcheggio e alla fine Dija è tornata, sempre con il
bambino il cui braccio era nelle condizioni di prima, tenuto assieme da una
steccatura di fortuna. Pochi passi dietro ai due, camminava la madre piangendo
lentamente nelle pieghe del suo velo.
Dija era furiosa: accusava i medici di averli presi in giro. Appena arrivata
nella sala per le emergenze, aveva spiegato di cosa si trattasse, mentre il
medico di servizio sarcasticamente le chiedeva se fosse lei il dottore. Dija
aveva rimarcato le condizioni del braccio, ma il medico, soccorso da un nuovo
collega, aveva disposto che prima era necessario fare una radiografia, e il
radiografo era a casa.
Due ambulanze erano nel piazzale, ma entrambe i conducenti erano impegnati
altrove, così quello che sembrava il primario dell'ospedale di Grachanica ha
detto a Dija che avrebbe dovuto andare lei a recuperare il dottore, che vive a
parecchi chilometri di distanza. Disse che avevano provato a telefonargli, ma
nessuno rispondeva al suo cellulare. Una volta rintracciato il radiografo, ci
saremmo dovuti recare ad un'altra clinica, perché la loro era sfornita del gesso
per immobilizzare il braccio. A questo punto, riaccompagnato il radiografo a
casa, avremmo dovuto riportare il bambino a Grachanica per le cure del caso.
Nessuno aveva l'indirizzo del dottore che avremmo dovuto rintracciare, sapevamo
solo che viveva nei pressi di Kisnica. Abbiamo incrociato diversi pedoni per
avere informazioni e 20 minuti dopo abbiamo raggiunto casa sua. Ormai era buio.
Nel cortile di fronte a casa una donna, presumibilmente sua moglie, stava
spazzando e vistasi arrivare incontro un gruppo di zingari con un ragazzo ferito
in gravi condizioni, ci ha richiuso il cancello in faccia dicendo che non aveva
idea di dove fosse suo marito, né di quando sarebbe tornato.
Di solito, ho una soluzione per ogni cosa. Dopo 5 anni di Kosovo, conosco
l'ambiente in cui devo lavorare. Ma questa volta non mi veniva in mente niente
da fare. Il bambino era ripiombato nel coma. I genitori piangevano
silenziosamente. Dija a questo punto è letteralmente esplosa: accusando tutti i
Serbi, soprattutto i dottori. "Se questo bambino fosse un Serbo, sono sicura che
qualsiasi dottore avrebbe potuto aiutarlo".
Tornando all'ospedale, abbiamo intravisto un jeep svedese della KFOR, davanti a
un monastero ortodosso. Grachanica in questi periodi è ancora sotto presidio
armato. Ho parlato con i soldati, giovani e gentili, spiegando la situazione.
Sapevo che la base KFOR ha due ospedali: uno gestito dagli inglesi vicino a
Pristina sulla strada di Kosovo Polje e quello dei finlandesi a Lipjan. Entrambi
a 15 minuti di strada ma, purtroppo, non aperti al pubblico.
I soldati hanno chiamato il comando col telefono da campo. Nel frattempo,
bisbigliavo nelle loro orecchie come i miei antenati fossero arrivati in America
dalla Svezia nel 1880, da un piccolo villaggio di pescatori della costa
meridionale. Pensavo che questa storia potesse esserci d'aiuto, e invece dopo un
lungo colloquio telefonico, ci venne detto che questo povero zingaro dal braccio
rotto poteva essere ricoverato solo all'ospedale albanese di Pristina... Tutti i
Rom intendono l'ospedale albanese come una sentenza di morte. La storia a cui si
sommano le leggende, parlano di Zingari e Serbi morti tra le mani dei dottori
albanesi. Ho chiesto ai soldati da quanto erano in Kossovo. Un mese, mi hanno
risposto.
Ho guidato nuovamente verso l'ospedale. Stavolta, ho accompagnato io il padre
con suo figlio fuori conoscenza, mentre Dija e la madre rimanevano a discutere
su quanto fosse inutile la KFOR in Kosovo. Comunque anni fa erano presenti,
quando gli Albanesi bruciarono la loro casa assieme a tutto il villaggio. E
c'erano anche quando gli Albanesi distrussero 39 chiese serbe e oltre 7000 case
di Serbi e Rom. La KFOR rispondeva che il suo compito non era di proteggere le
persone, ma di evacuarle.
Di nuovo al Pronto Soccorso, raccontammo quanto c'era successo, ma non trovammo
simpatia tra i medici in servizio. Non avevano niente da offrirci, solo di
aspettare il giorno dopo. Oppure, ci rimaneva di guidare sino a MItrovica, un
viaggio di oltre un'ora. Rifiutarono di accogliere il bambino, ormai
incosciente, tra i loro degenti. D'altronde, era solo uno zingaro. Non lo
dissero, non potevano ammetterlo. Ma il linguaggio dei loro corpi e degli occhi
era molto eloquente.
Siamo tornati al villaggio, perché i genitori prendessero il loro Visto, anch'io
ho recuperato il mio visto e la patente. Ne ho approfittato anche per un caffè
forte; ormai erano le 22.00 e a quell'ora vado a dormire.
Una folla di Rom musulmani ha circondato il furgone per pregare. Una giovane
nipote, in preda all'isteria, non voleva lasciare il portello ed è stata
allontanata a forza. Tutti avevamo paura degli agguati notturni. Dopo cinque
anni di occupazione NATO, chi ha la pelle scura o può essere confuso con uno
zingaro non ha libertà di movimento. Per arrivare a Mitrovica, bisogna
attraversare il territorio controllato dagli Albanesi. Molti suggerivano di
attendere mattina, ma c'era il rischio che il ragazzo non sopravvivesse.
Non avevo paura della strada per Mitrovica. L'ho fatta per cinque anni, anche
due volte la settimana accompagnando i Rom all'ospedale. Al collo porto il
tesserino KFOR, che gli Albanesi rispettano ancora.
Partimmo infine alle 22.30. Metà villaggio ci accompagnò sino all'imbocco
dell'autostrada. Le donne urlavano e piangevano, gli uomini in silenzio
trattenevano le lacrime.
I viaggio fu movimentato. Appena lasciata Mitrovica Sud fummo fermati da una
pattuglia della polizia kosovara albanese. La prima loro parola fu "Rom"; io
risposi "KFOR" mostrando loro chiaramente il mio tesserino di riconoscimento.
Guardarono chi c'era nel pullmino ancora una volta, mi batterono la mano sul
ginocchi e in inglese mi dissero "Puoi andare, KFOR"
Un chilometro avanti iniziava una lunga fila di veicoli, diretti a Mitrovica
NOrd, i territorio serbo. Era un altro controllo patente da parte degli
Albanesi, che durante i controlli ne approfittavano per lanciare pietre alle
vetture o picchiare gli occupanti che non fossero in regola.
Fummo all'ospedale di Mitrovica Nord poco prima di mezzanotte. Il parcheggio era
vuoto, ma le luci dell'ospedale erano ancora accese. All'ingresso un'infermiera
fumava una sigaretta. Mentre io rimanevo di guardia al furgone, Dija e famiglia
accompagnarono il bambino, che nel frattempo aveva ripreso conoscenza, sulle
scale dell'ospedale.
Dija ritornò poco dopo, raccontandomi quanto fosse stato gentile e cortese tutto
lo staff dell'ospedale. L'avevano accompagnato per la radiografia. Tutti si
erano preoccupati per lui e non era mai stato lasciato solo.
La radiografia confermava che l'osso s'era rotto in due punti. Il dottore
curante aveva richiesto che il ragazzo passasse la notte in ospedale, gli aveva
fatto anche delle iniezioni di calmante. Ma il ragazzo voleva tornare a casa,
nonostante si sentisse in un ambiente amico. Aveva bisogno della sicurezza del
villaggio.
Col braccio finalmente ingessato, salì sul nostro furgone con le sue gambe e
riprendemmo la strada. Trovammo anche un "kebab-bar" dove ci rifocillammo. Il
ragazzo aveva ritrovato l'appetito.
Alle due eravamo a casa. Quanto ho raccontato è ciò che si chiana vivere in un
villaggio Rom amministrato dall'ONU
Paul Polansky
Head of Mission
Kosovo Roma Refugee Foundation