Intervista a Tommaso Vitale, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale,
Università degli Studi di Milano – Bicocca (tommaso.vitale@unimib.it):
Per gentile concessione dell'autore. L'intervista è riportata in "Il Porrajmos dimenticato" Edizioni Opera Nomadi ed è scaricabile in formato pdf
Mi sono avvicinato alla questione dei Rom a Milano per motivi di ricerca scientifica molto distanti dai temi del multiculturalismo, a partire da una riflessione sui conflitti urbani. Nello specifico stavo conducendo una ricerca sulla “proprietà privata” e mi domandavo se, come e quando la pubblica amministrazione arroghi a sé la facoltà di sottrarre un bene privato. Una ricerca classica sugli strumenti dell’azione pubblica, distante perciò dai temi della povertà e dell’esclusione all’interno di cui abitualmente si parla dei nomadi.
Nel 1999 si avvertiva, in giro per l’Italia, quello che i sociologi definiscono “panico morale”: momenti di effervescenza in cui tutti identificano un nemico rispetto a un contesto locale. Un nemico interno, o più facilemente esterno. Un nemico che, moralmente, è identificato come cattivo. Precisamente, come dice Marcello Maneri riprendendo Stanley Cohen, il panico morale è dato da attivazioni mediatiche, ondate emotive nelle quali un episodio o un gruppo di persone viene definito come minaccia per i valori di una società; i mass media ne presentano la natura in modo stereotipico, commentatori, politici e altre autorità erigono barricate morali e si pronunciano in diagnosi e rimedi finché l’episodio scompare o ritorna ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive. In quel periodo alcuni rom furono nuovamente identificati come cattivi e quindi nemici, e in conseguenza di ciò, in diverse città tra cui Milano, vennero eseguiti degli sgomberi punitivi, motivati da ragioni relative alla sicurezza della comunità.
Assistetti personalmente allo sgombero di via Barzaghi (una via di Milano, dietro il cimitero Maggiore) e rimasi colpito da due aspetti: innanzitutto erano state distrutte delle roulotte; in secondo luogo erano state distrutte le roulotte che non avevano ruote. Abitualmente è davvero difficile per l’amministrazione pubblica “attentare” alla proprietà privata, anche se questa è posta in una zona illegittima. Ad esempio, un Comune non può distruggere un’automobile, anche fosse molto malridotta. Può farla rimuovere, al limite, ma non distruggere. Gli è impedito in chiave amministrativa; è necessaria un’autorizzazione specifica, e la responsabilità del decisore politico. In via Barzaghi, invece, ho potuto constatare, e ne rimasi estremamente colpito, come certi effetti personali, ma sarebbe meglio dire effetti e affetti, venissero distrutti dalle ruspe senza alcuna prudenza. In altre parole, non mi colpiva tanto lo sgombero in sé, o il registro securitario all’interno di cui era inquadrato, ma il fatto che non vi fosse il rispetto delle proprietà dei Rom, e che dunque non vi fosse rispetto, in questo caso, per l’istituto giuridico della proprietà privata. Mi stupì che non si sia usato il repertorio della requisizione, o altri strumenti a disposizione dell’amministrazione, e che si utilizzasse invece il repertorio troppo immediato della distruzione.
Da questo episodio, dunque, ho cominciato a ragionare anche su altre modalità di trattamento amministrativo che interessano i Rom. E ho scoperto, ad esempio, che ci sono alcune amministrazioni, come il Comune di Milano, che quando approntano delle soluzioni, giuste o sbagliate che siano, per questa popolazione, lo fanno in una maniera sistematicamente "differenzialista”. È stato così quando hanno fatto il campo per i macedoni in via Novara nel 1998 o quando hanno istituito il campo di via Barzaghi/Triboniano nel 2001. Prescindendo dal problema se questi campi siano opportuni oppure no, è un dato di fatto che la amministrazione pubblica abbia dato vita a due strutture che non prevedono i requisiti minimi di abitabilità. Il fatto che, anche in presenza di un atto dell’autorità pubblica, questi assembramenti di persone non prevedano i requisiti minimi di abitabilità, prima di tutto gli allacciamenti elettrici e fognari, mi sembra indice di qualcosa di profondo, che non può essere trascurato. Intendiamoci, non stiamo parlando del fatto che non si voglia qualcuno, perché a quel punto lo si “caccia”, lo si espelle. Il fatto di cui sto parlando è profondamente diverso: nel caso dei campi di via Novara e di via Triboniano si sono disposte, da parte della pubblica amministrazione, due strutture per qualcuno che si è deciso lì dovesse abitare. Ma queste strutture pubbliche di accoglienza sono state costruite prive di impianti elettrici e di impianti fognari. Il punto che ci deve far riflettere è che questa prassi non è accettabile all’interno del nostro ordinamento giuridico poiché l’abitare in Italia è una condizione normata nel dettaglio. Eppure, nel caso dei Rom, la prassi di allestire dei campi senza requisiti minimi di abitabilità è esercitata sistematicamente, e non solo a Milano: in diverse città, spesso al di là del colore politico della giunta.
Su questo punto credo si debba essere precisi, e non fare troppi giri di parole. Se c’è qualcuno, un gruppo o un individuo per il quale è possibile costruire un habitat che non abbia energia elettrica e fognature, significa che quel qualcuno, gruppo o individuo, è considerato in maniera differenziale rispetto agli altri. Ci tengo molto a questa parola: “differenziale”. E’ un termine che emerge dal dibattito sull’Olocausto nella società moderna.
Se si costruiscono delle case popolari, queste per legge devono possedere i requisiti di abitabilità. Si possono costruire degli obbrobrii che vengono criticati a lungo: è una questione di merito sulla qualità e l’opportunità dell’intervento pubblico ed attiene alla sfera del un giudizio politico sulla politica sociale. Nel caso dei campi per i Rom, però, il problema non è se un campo è bello o brutto, se è funzionale o meno, se è collocato nel luogo più opportuno o meno, se è una forma di intelligenza o di stupidità sociale. Il problema è se questi campi rispettano i criteri minimi di abitabilità: reti elettriche e fognarie. Se non li rispettano, ciò mi pare un segnale molto grave, perché si presume che esista un gruppo sociale, degli esseri umani, che non appartengono alla ‘comune umanità’. ‘Comune umanità’ in questo caso, significa fruire di una condizione abitativa, bella o brutta che sia, che rispetti quei requisiti di abitabilità considerati propri e degni della condizione umana. Sono due, ripeto, questi requisiti minimi. L’espletamento delle funzioni superiori, la comunicazione e l’espressione delle attività intellettuali, e quello delle funzioni corporali. In questo senso oggi, nella nostra società, l’accesso all’energia elettrica è proprio della ‘comune umanità’: sfido chiunque a dire che non ci troviamo nella ‘società dell’informazione’ o nella ‘società delle reti’, alle cui basi c’è la risorsa energetica. Allo stesso tempo, è proprio della condizione umana l’espletamento e la gestione, per così dire organizzata e addomesticata, dei bisogni corporali. Non rispettare queste condizioni significa considerare le persone a cui gli habitat sono destinati, alla stregua di animali, estranei alla ‘comune umanità’. A queste persone sono implicitamente attribuiti dei requisiti che sono propri degli animali, dei quali si prevede che di giorno agiscano grazie alla luce del sole e che di notte si orientino al buio, ed espletino le funzioni corporali all’aria aperta. Per questo gli animali non hanno bisogno della rete elettrica e fognaria. I requisiti di animalità sono attribuiti di fatto dal trattamento amministrativo che spesso subiscono i Rom. Certo, si può obiettare che quegli habitat siano stati costruiti così in emergenza, e che poi “i Rom si sarebbero arrangiati”: ma l’arrangiarsi non rientra nella legalità, e un’amministrazione non può programmare una modalità di risoluzione illegale. È un’obiezione insostenibile. Evidentemente, nei confronti dei Rom, scatta un’idea differenzialista per la quale essi manifestano esigenze tutte diverse dalle nostre, intendendo per nostre le esigenze della ‘comune umanità’. Si potrebbe dire che l’amministrazione comunale a Milano non aveva i soldi per fare gli allacciamenti alla rete fognaria ed elettrica (per altro allacciamenti non particolarmente costosi). E che perciò ha preferito procedere per piccoli passi: “meglio poco che niente”. C’è ad esempio chi sostiene che ciò avviene ed è avvenuto perché le urgenze sono altre, ad esempio dare un tetto a chiunque ne abbia bisogno; e che di fondo, pur se ingiusto, elettricità e fogne non siano priorità. Ma le amministrazioni, lavorando in regimi di scarsità, funzionano sempre per priorità e non fanno mai più di quanto sono costrette a fare dal loro ruolo amministrativo. L’amministrazione più progressista, così come l’amministrazione più conservatrice, tenderà sempre a fare il minimo indispensabile a cui è costretta e vincolata da una scelta politica. Il problema è proprio quale è il livello minimale dell’intervento amministrativo. E soprattutto: per chi valgono i requisiti minimi e indispensabili delle necessità vincolanti fissati per l’abitabilità? Quando si tratta di esseri umani, però, vi sono delle condizioni sotto le quali non si può andare. In sede di diritto, le amministrazioni non possono spingersi a fare qualcosa che sia contrario a degli assunti fondamentali, anche di fronte a un’urgenza. La mia impressione è che in diversi schieramenti politici, anche di sinistra, così come in alcuni gruppi di volontariato sociale, si condivida l’idea che possano esserci delle abitazioni senza elettricità e fognature.
Su questo ho indagato a Milano; perché è questo il problema.
Viene detto che “comunque si deve tener conto di certe differenze culturali”. Alcuni gruppi politici, quelli più a destra, dicono che Rom e Sinti sono abituati a ‘vivere nel vento’, e dunque hanno una cultura peculiare: in sociologia chiamiamo questo atteggiamento ‘differenzialismo culturalista’. Un’accezione multiculturale talmente forte tale per cui due individui non condividono niente: ‘Io ho bisogno della fogna perché appartengo a una cultura, mentre tu che non ne fai parte non ne hai bisogno’. C’è poi un differenzialismo di tipo biologico, secondo cui vi sono persone, esseri umani, che non hanno requisiti di umanità severi come i nostri. Per “razza”, i Rom non avrebbero bisogno di energia elettrica e fogne.
Che si tratti di differenzialismo biologicista o culturalista, il problema non cambia.
Formalmente, nessuna amministrazione, da nessuna parte del mondo, potrebbe porsi il problema dell’adeguamento delle proprie regole e dei propri standard sulle strutture ed infrastrutture materiali alle esigenze, più o meno immaginate, di una minoranza culturale. Se in Italia arrivasse una minoranza che dice: io non ho bisogno delle fogne, quindi posso costruirmi delle case senza fognature. No: in Italia la legge prescrive l’obbligo delle fognature, e dunque un’abitazione non può non avere un allacciamento fognario. Se l’abitazione non ha le fogne, non ha i requisiti minimi di abitabilità. Punto e chiuso: dal punto dell’amministrazione pubblica dovrebbe essere irrilevante la presunta cultura del gruppo che abita una casa. Se quell’abitazione non può essere abitata, e se non può essere allacciata alla fognatura, va sgomberata. Punto e a capo, chiuso. Neppure una malga per le mucche, in montagna, può essere priva di fogne. Se anche Rom e Sinti facessero una richiesta del genere, e sono ben lungi dal farla, lo stato di diritto italiano non potrebbe accoglierla. Anzi, lo Stato nelle sue articolazioni territoriali dovrebbe rispondere: ‘No, dovete abitare in strutture che siano pertinenti rispetto ai requisiti minimi di abitualità, che sono comuni per tutti’. Prendiamo i centri di permanenza temporanea per clandestini, come quello di via Corelli a Milano: possiamo considerarli crudeli, possiamo essere contrari oppure favorevoli; mi risulta però che tali centri rientrino nei criteri minimi di abitabilità.
Per i Rom invece no, per i loro campi, spesso, questi criteri non sono previsti.
Come è possibile, mi chiedo, che siamo arrivati al punto di accettare, favorevoli o contrari alla loro presenza, condizioni di abitabilità che non rispondono ai parametri minimali di ciò che oggi è considerato comune all’umanità?
In sociologia, l’abitare è considerato una condizione di consistenza di una persona: la persona può essere individuo in pubblico soltanto se ha una sua consistenza nel privato, e tale consistenza è data dalla sfera domestica degli affetti, ed è evidente che questa, a sua volta, si caratterizza qualitativamente anche e soprattutto secondo i parametri di abitabilità degli spazi in cui si abita.
Ecco, a fronte di tutto ciò Milano, l’area metropolitana più ricca d’Europa, attrezzata di una rete elettrica e fognaria ineccepibile, di fronte a problemi che non sono emergenziali, se non nella loro tematizzazione pubblica, anziché elaborare risposte politiche, promuove modalità di intervento che non rispettano i criteri determinati e garantiti dal diritto.
I rom di via Barzaghi, hanno ricevuto un trattamento differenziale e l’azione nei loro confronti si è caratterizzata per la “legittimità differenziale” con cui è stata accettata. Per accettare che un trattamento differenziale sia legittimo occorre che emergano delle “convenzioni” capaci di espellere i rom dalla comune umanità, di considerarli cioè di natura differente rispetto a quella di tutti noi. Il concetto di legittimità differenziale è un ossimoro. La legittimità è un rapporto di riconoscimento che ha un carattere propriamente universalista: è legittimo ciò che è universalmente riconosciuto come tale. Le stesse eccezioni di legittimità sono pubbliche, hanno ugualmente un carattere di universalità - sebbene in un sottoinsieme dell’universo di riferimento -, e non sono caratterizzate da eccessiva ambiguità. Di conseguenza, parlare di legittimità differenziale implica il riferimento ad una logica di azione che presuppone la presenza di universi rigidamente distinti e paralleli. In questo senso, uso questo ossimoro per indicare come negli argomenti degli attori politici a Milano sia emerso un progressivo trattamento differenziale dell’umanità, cioè una distinzione fra quelli che comunemente sono considerati esseri umani; distinzione che ha portato all’espulsione di una parte di questi dalla comune umanità.
Qui è importante segnalare un passaggio fondamentale. Separare l’umanità in due o più universi separati, cioè far collassare le appartenenze sociali su distinzioni ontologiche fondate biologicamente, è proprio della tradizione eugenetica. L’eugenetica è infatti la sola dottrina politica che ha preteso di fondare un modello di giustizia su caratteristiche biologiche, espellendo della comune umanità particolari categorie di esseri (umani), istituendo pubblicamente forme di legittimità differenziale.
Il trattamento differenziale dei rom, come abbiamo visto, è una modalità dell’azione pubblica ed in quanto tale va letta in chiave istituzionale per coglierne la portata normativa nelle culture e nelle identità degli attori politici a Milano (siano essi della maggioranza o dell’opposizione, dei partiti o delle associazioni). L’assenza di fogne e di elettricità nei campi ha dato vita solo a qualche lamentela timida. Nessuno ha urlato contro la matrice eugenetica di questo trattamento amministrativo.
L’eugenetica ci pone problemi soltanto a nominarla, dopo l’olocausto compiuto nel corso della II guerra mondiale, e non ne parliamo più. Parliamo di xenofobia, parliamo di razzismo perché è più facile. Io sono razzista con qualcuno perché non apprezzo una sua caratteristica, associo a questo qualcuno tutti quelli che presentano la medesima caratteristica e, tendenzialmente, cerco di eliminarla. L’eugenetica è diversa, perché ha una sua collocazione e tradizione in seno alla filosofia politica e fa riferimento a un criterio di giustizia sociale, per quanto opinabile: migliorare la vita propria e soprattutto quella delle generazioni a seguire, mettendo in pratica meccanismi di miglioramento delle condizioni biologiche. Da Galton in avanti, l’eugenetica è “evoluta” anche in senso culturalista: pretende di migliorare la società nel suo insieme, modificando alcuni aspetti della cultura di chi ne fa parte. Nessuno degli eugenisti ha mai definito quali fossero le basi biologiche della diversità e dell’inferiorità, ma tutti hanno sempre parlato di come migliorare le condizioni complessive della società, partendo da una forma di violenza profonda sulle basi culturali e corporali di una qualche minoranza.
Ora, consideriamo il caso degli albanesi. Ho chiesto agli studenti del I anno di Sociologia quanti abitanti abbia l’Albania, metà di loro mi ha risposto che ha più di dieci milioni di abitanti (contro i reali 3.582.000), probabilmente accompagnando questo errore alla percezione, spaventata, che gli albanesi siano criminali. Qui siamo di fronte a un problema di xenofobia che, come tale può facilmente spostarsi su altre minoranze. Oggi, comprensibilmente, sono i mediorientali e i magrebini sotto l’occhio del ciclone, e gli albanesi se la cavano un po’ meglio. Il problema non è quello di guardare male il Rom perché attenta alle tue condizioni di vita rischiando di peggiorarle. Questa, per inciso, è l’istanza leghista della prima ora, nei confronti degli
extracomunitari: gli stranieri ci portano via la casa e il lavoro, si fanno pagare di meno, i nostri operai perdono potere contrattuale, ecc. Sui Rom, invece il problema è differente e specifico. Nei loro confronti le amministrazioni manifestano un’attitudine differenzialista: per molti amministratori non si tratta di persone che vanno cacciate in conseguenza di comportamenti criminali, assolutamente. I Rom, più semplicemente, non appartengono alla ‘comune umanità’ per cui togliendoli di mezzo si fa un favore a tutta la società. La questione è stata tematizzata dagli antropologi in relazione al tema della purezza. Il problema dell’eugenetica è quello di impedire a una razza inferiore di contaminare e sporcare la società. Ne consegue che, liberandosene, si agisca in favore della integrità di tutti.
Sentite cosa ha detto un assessore milanese: (Tiziana Maiolo, assessore alle politiche sociali di Milano, il 4 settembre 2001): “In via Barzaghi non è questione di linea dura o linea morbida, ma di semplice buon senso: saranno espulsi i clandestini e basta... Del resto, diciamolo chiaramente: voi sareste contenti di tenere in città tutti questi zingari che vengono in casa a rubare? Insomma è risaputo che gli zingari mandano i bambini a rubare nelle case: o no?”. E ai cronisti presenti, che le chiedevano se intendesse che ‘tutti gli zingari sono ladri’, ha risposto: “Non fareste questa domanda se anche voi aveste subìto un furto in casa, come è capitato a me tanti anni fa”. In un altro intervento, riguardo ai Rom, lo stesso assessore afferma anche che: “sono tornate malattie che sembravano estinte, come la Tisi e la Scabbia”. Quello che mi colpisce, da sociologo, nel primo caso, è il processo inferenziale: il fatto che l’assessore abbia subito un furto in casa non significa che uno sappia dire chi è stato a rubare. Negli anni Ottanta c’è stato panico morale nel centro italia rispetto alle violenze sessuali per cui si sentiva dire: “sono stata violentata da un branco di persone, e questo gruppo parlava l’italiano con accento stentato, le persone di quel gruppo erano zingare”. I processi inferenziali sono segnali abbastanza consueti nelle società, e sono indice di semplice, si fa per dire, razzismo. Il salto di qualità, però, è sulla questione della malattia; per un certo periodo qualcuno lo ha detto anche degli immigrati (“gli immigrati portano malattie”), anche se poi, per fortuna, nessuno è riuscito a sostenerlo. I rom come fonte di contaminazione invece è un motivo costante del discorso pubblico. La questione della malattia non è tematizzata mai per denunciare il trattamento differenziale dei rom che genera habitat privi di quei requisiti minimi abitabilità che oggi esigiamo per legge anche per le mucche. La malattia non deriverebbe dalle loro attuali e precarie condizioni igieniche, delle quali le amministrazioni sono responsabili. No: sono loro, i Rom, a portare la malattia. E questo, a mio giudizio, è segnale di una postura eugenetica, e la conseguenza diretta è quella di sbarazzarsi, di escludere i Rom dalla comune umanità, con l’obiettivo “di giustizia” di migliorare la società a venire. Sbarazzarsi dei Rom, non cambiare la politica sociale o la politica di accoglienza. La mia impressione di studioso è che questo atteggiamento nei confronti dei Rom persista da tantissimo tempo, ben prima dell’avvento del nazismo. Il Rom fa paura più degli immigrati, anche quando è italiano, anche quando ha un lavoro, conosce bene la lingua, non è indigente, ecc. Per avere delle condizioni minime di civiltà giuridica in Europa, pertanto, diventa necessario aggredire questo atteggiamento. Di fronte alla presenza di un trattamento amministrativo differenzialista dei rom, io ritengo fondamentale lo sforzo di metterne a fuoco le matrici eugenetiche. Le atrocità dell’eugenetica a mio parere vanno richiamate sempre, in particolare ai responsabili dell’amministrazione, essendo le istituzioni il nostro patrimonio più prezioso per convivere. Il trattamento differenziale che espelle i Rom dalla comune umanità, mi sembra debba essere capito a fondo, per potere essere riconosciuto e avversato da tutti.