Da
RomSinti@Politica
Nazzareno, Santino, Bruno, Ivana, Eva, Yuri, ecc. non sono mosche bianche
nella popolazione romanì ma alcuni dei tantissimi esempi positivi.
Francesca Paci del quotidiano La Stampa è venuta in Abruzzo per incontrare
alcuni rom, professionisti, impiegati, artigiani, operai, infermieri, ecc. Oggi
il suo articolo con interviste e foto è pubblicato sul quotidiano La Stampa.
Giovanni sorride verso l'obiettivo mentre risuola il tacco del sandalo rosso
dietro il banco sommerso dalle scarpe della bottega nel cuore di Lanciano,
36 mila anime arroccate tra la Majella e il mare: "Buon sangue non mente:
sembro mio padre quando ferrava lo zoccolo del cavallo". Tempo due ore e
ci ripensa: "Mia figlia mi ha chiesto di non espormi, in questo periodo
esce con un ragazzo e preferisce non sappia che siamo una famiglia rom".
Circa il 60 per cento dei 170 mila rom e sinti che vivono nel nostro paese sono
italiani come il calzolaio Giulio, eredi dei pionieri sbarcati alla fine del
1300 sulle coste adriatiche per lasciarsi alle spalle le guerre degli Ottomani.
Molti rivelano nei lineamenti le antiche origini indiane, alcuni ostentano la
propria identità indossando gilet di gusto balcanico o lunghe gonne fiorate, la
maggior parte ha una casa, un lavoro, un conto in banca. Eppure, in qualche
angolo remoto della coscienza collettiva dove sono impressi i nomi dei clan
criminali Casamonica, Di Silvio, Ciarelli, restano comunque tutti diversi,
nomadi come quelli cacciati oggi dalla Francia di Sarkozy.
"L'integrazione assomiglia all'amore, si fa in due: quando vengono accettati
senza che si tenti d'assimilarli, rom e sinti pagano le tasse, servono
nell'esercito, i loro figli studiano e arrivano fino all'università" osserva
Santino Spinelli, musicista e docente di lingua e cultura romanì all'università
di Chieti. Le differenze esistono, ammette alternando una forchettata di
spaghetti al pesce a un sorso di vino Fragolino: "La cultura rom non distingue
il mondo dell'infanzia da quello degli adulti. Se per esempio il papà va a
dormire alle tre di notte o la mamma chiede l'elemosina i bambini li seguono. E'
naturale, non si tratta di sfruttamento.
Nell'assenza totale d'una quotidianità la scuola è l'ultimo dei problemi".
Difficile trovare uno studente che reciti le tabelline nei dormitori
improvvisati sotto i cavalcavia del quartiere romano della Magliana, dove gli
abitanti minacciano le barricate.
Qui a Lanciano però, a Pescara, nell'Abruzzo da 7 mila rom e neppure una
roulotte del tipo ammassate nei campi nomadi alle perfierie delle grandi città,
l'eccezione è la regola e capita tranquillamente d'incontrare lo "zingaro"
Fioravante al volante del furgone portavalori o l'altro, supermanageriale, alla
plancia di comando d'una filiale della Bls di Chieti.
Perché facciano "outing" ci vorrà ancora tempo, ma sono lì.
"Otto anni fa, quando sono stato eletto, i rom non si sognavano neppure
d'entrare in Municipio.
Ora sono ospiti fissi, ci conosciamo, ragioniamo, affrontiamo le difficoltà man
mano che si presentano" racconta il sindaco Filippo Paolini, un avvocato
ambientalista che assomiglia a Gianfranco Fini, parla come Vendola, negozia come
un vecchio democristiano e milita da sempre nelle file di Forza Italia.
L'obiezione ai compagni di partito è tattica prima ancora che strategica: "Posto
che quanto sta facendo il governo francese contro i nomadi è una forma di
deportazione, la linea dura stile Sarkozy-Maroni non funziona, non si amministra
senza integrare le diversità".
E pazienza se l'ultimo rapporto del centro di documentazione su carcere,
devianza e marginalità dell'Università di Firenze indica nei sinti un nodo
critico dell'allarme sociale. Il primo cittadino rifiuta l'equazione lombrosiana
zingaro-uguale-delinquente, ma non concede sconti a chi sbaglia: "Sono
dell'avviso di dare una chance a tutti, una casa, la possibilità di studiare, la
normalità. Se poi uno delinque se ne va, in prigione o direttamente al suo
paese".
Al bar Roma, alle spalle di Piazza Plebiscito, Giulia, mora e formosa, prepara
un cappuccino dopo l'altro. Gli anziani che ogni mattina si fermano da lei prima
di comprare il giornale hanno quasi dimenticato quando da bambina seguiva mamma
e papà da una fiera di paese all'altra, i giovani non lo sanno. "Perché
ricordarglielo?" chiosa Amelia, titolare d'una impresa di pulizie. La cugina
parrucchiera annuisce. Qualcuno, lontano dalle curve avversarie, mette forse in
conto a un goleador le sue origini?
Debora: "Tutti in fila per il mio pane"
Quando era una scolaretta delle elementari, Debora Spinelli detestava le feste
di compleanno. "Invitavo i miei compagni di classe ma non veniva nessuno,
anche se sono nata qui e vestivo uguale a loro dicevano che ero la figlia dello
zingaro", racconta, incartando una pagnotta calda calda per la signora
che ascolta distratta come fosse una storia della tv.
Oggi, 40 anni e due figli adolescenti a cui nessuno rinfaccia più l'origine
gitana, è la fornaia più gettonata di Lanciano, ma davanti alla porta ha deciso
di scrivere Panetteria Console, il cognome del marito, un marchio senza passato.
Non si sa mai.
Capigliatura corvina, sguardo tagliente, brillantino al naso, Debora tiene al
collo la medaglietta con la foto di papà Angelo che non c'è più: "Mi ha
insegnato a lavorare a sei anni, magari adesso sarebbe un reato, io però ne sono
sempre stata fiera. Insieme agli altri sei fratelli e sorelle attaccavamo ai VHS
le macchinette con cui si potevano vedere Grisù e Paperino e poi le vendevamo.
Le battutacce delle amiche mi facevano male, ma le difendevo, soffrivo di una
specie di sindrome di Stoccolma".
Crescendo, ha visto i film di Kusturica, ha ascoltato la musica di Bregovic,
capisce la lingua degli avi, il romanì. Eppure ai cantori eccellenti della
cultura rom preferisce la routine, l'esempio quotidiano: "Siamo noi i
primi a doverci accettare. Ai genitori dei compagni dei miei ragazzi spiego
subito che sono rom in modo da lasciarli liberi di venire o meno alle feste di
compleanno". E quelli vanno.
Guido: "Con la boxe salvo i ragazzi difficili"
A ripensarli adesso i mille round di cui Guido Di Rocco porta i segni sul volto
sbieco da pugile sono i pioli della sua scalata sociale.
"Lo sport è stato la mia chance, quella grazie a cui sono riuscito a farmi
accettare nonostante fossi rom", racconta Guido, 55 anni portati da
campione, passeggiando nella palestra di boxe dove allena una trentina di
ragazzi "difficili" del quartiere disagiato di Rancitelli, il Bronx di Pescara.
Anche lui all'inizio tirava pugni di rabbia, ammette mostrando il nome
Margherita sul bicipite: "Sono stato in prigione... mi sono tatuato a mano
perché allora non c'era mica l'ago... Dopo però tutto è cambiato".
Un paio di foto in bianco e nero appese alle pareti ricordano il passato aureo,
gli anni in cui si allenava con il Pescara Calcio. "Ho conosciuto Tom Rosati,
Cadè, Angelillo" continua. Per strada era il figlio dello zingaro, in campo
dribblava da furetto. Sul ring faceva scintille: "Ho vestito la maglia della
nazionale, ho tenuto alto il nome dell'Italia".
Destro dopo destro, Guido ha dimenticato d'essere stato additato come "nomade"
da ragazzino e si è sentito italiano. Straitaliano: "Mi dispiace quando si
parla male dei rom, ma penso che la gente ha problemi con quelli nuovi, gli
stranieri, e se la prende anche con noi che siamo nati qui e non abbiamo mai
creato guai".
Squilla il telefono. La voce si addolcisce: è il figlio Moreno, quello che
studia medicina all'università di Chieti.
Carmine: "Ora sono l'infermiere migliore"
Mi ricordo quando con mamma, papà e fratelli giravamo con le bighe e i cavalli,
ci spostavamo da un paese all'altro seguendo le fiere, era divertente ma appena
facevo amicizia con qualcuno dovevo ripartire". Oggi il cinquantunenne Carmine
Di Rocco non può allontanarsi da Pescara salvo scatenare le proteste dei
pazienti del distretto sanitario di Montesilvano, riluttanti a privarsi
dell'infermiere modello. E non conta che Carmine abbia sangue rom: da 20 anni è
in prima linea al pronto soccorso, in sala operatoria, tra i tossicodipendenti
del Sert.
"Ho studiato al liceo artistico, volevo fare l'architetto", racconta prendendo
sulle spalle il piccolo Christian, il minore dei quattro figli. Dopo il corso da
infermiere ha archiviato le ambizioni grafiche, riservando l'estro creativo alla
batteria, dietro cui trascorre il tempo libero: "Da ragazzo mi è capitato di
essere scartato a un colloquio di lavoro per il mio nome, inconfondibilmente
rom. Ma da quando indosso il camice non mi sono mai sentito diverso, in ospedale
siamo davvero tutti uguali".
Le notizie che arrivano dalla Francia lo rattristano. "Non è accettabile,
cacciare quei poveracci è una forma di deportazione". Ma in Italia, dice, riesce
a capire la diffidenza: "La cultura rom è cambiata. Una volta c'era un'etica,
rubare per mangiare era accettato ma per arricchirsi no. Inoltre era impossibile
trovare uno che spacciasse droga". Anche l'integrazione ha un prezzo, per tutti
Gianni: "Il mio cantiere premiato dall'onestà"
Per quanto si sgobbi è difficilissimo scardinare l'immagine del rom a bordo
della Bmw scassata", osserva Gianni Bevilacqua e si accende una Marlboro. "Per
carità, anche a me piace la Bmw", scherza indicando il duetto parcheggiato
accanto alla Mercedes E220 nel cortile della villa a San Vito Chietino, sulla
costa adriatica. Ha lavorato 20 anni per diventare l'imprenditore edile che oggi
vanta 300 condomini in manutenzione, 60 cantieri, il restauro appena ultimato di
una chiesa del vicinato e cinque operai di fiducia, nessuno dei quali in nero.
Una personalità nella zona.
Ma non è stato sempre così. L'impresa più faticosa? "Vincere i pregiudizi",
risponde senza pensarci. Quella di Gianni, 42 anni, polo arancione e jeans alla
moda, è storia vissuta: "Ho avuto un'infanzia da nomade, senza una casa. Mio
padre? Faceva il borseggiatore, doveva crescere un mucchio di figli e quando non
c'è da mangiare non si può pensare al resto". Lui è venuto su senza guardare
indietro, testa alta e rimboccarsi le maniche, la lezione che ripete ai due
bambini: "Fatico da quando sono piccolo. Nessuno mi ha mai regalato niente, ho
ottenuto fiducia in cambio d'onestà". Per questo racconta la sua esperienza, ma
preferisce non essere fotografato: "Entro nelle case, il mio nome è una
garanzia. Ma che succederebbe se l'associassero a un volto rom?". Impossibile
distinguere la sua da quella dei concittadini. Eppure, chissà: "Sono italiano,
un imprenditore italiano".