ToscanaOggi 17/03/2010 - 16:39
Nazzareno Guarnieri, primogenito di una numerosa famiglia rom, ha
iniziato la sua formazione frequentando con successo il prestigioso Istituto
Magistrale «B. Spaventa» di Città S. Angelo (PE), conseguendo nel 1971 il
diploma della qualificazione magistrale.
La sua formazione continua con il corso biennale di operatore psicopedagogico
presso Università di L’Aquila, e successivamente il corso di mediatore culturale
e la Laurea in psicologia sociale. Il costante impegno volontario e
professionale per la popolazione romanì, la promozione e la realizzazione di
importanti esperienze di interazione culturale e la partecipazione a numerose
iniziative italiane ed europee arricchiscono il percorso formativo di
Guarnieri, tale da essere oggi un professionista, un leader ed un attivista rom
riconosciuto a tutti i livelli.
Nell’anno 2000 e e nell’anno 2002 Nazzareno Guarnieri è il vincitore del Premio
Raffaele Laporta, per la sezione progetti educativi. Nell’anno 2003 Nazzareno
Guarnieri è il promotore del «progetto federazione», un’iniziativa per
sollecitare ed incoraggiare la partecipazione attiva di Roma e di Sinti.
Nell’anno 2009 che è stato eletto presidente della Federazione romanì.
Nazzareno Guarnieri, come mai sembra impossibile stabilire con la minoranza
Rom un sistema di regole condivise e di convivenza pacifica?
«La convivenza con la popolazione romanì oggi è difficile per il radicato
pregiudizio, duro a morire, e per le scelte politiche sbagliate. Una sequenza di
deficit mediatico, culturale, politico, istituzionale di partecipazione attiva e
di conoscenza. Deficit che hanno categorizzato i pregiudizi contro la
popolazione rom e sinta e banalizzato la cultura romanì. Deficit che hanno
ostacolato i processi di scambio culturale, di acculturazione e inculturazione
ed hanno impedito una “canalizzazione politico/istituzionale” alla cultura
romanì. Deficit che hanno portato a generalizzare a tutta la popolazione rom e
sinta la responsabilità del singolo. Una sequenza di deficit che richiedono una
risposta urgente e chiara, capace di abbandonare i diritti differenziati e
l’assistenzialismo culturale, oggi riservati a rom e sinti, e costruire le
relazioni umane e di scambio culturale con la popolazione romanì».
La Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 marzo 2009 al punto 8. riporta:
«La grande maggioranza dei laureati rom non fa ritorno alla propria comunità
dopo il completamento degli studi universitari e che alcuni di essi negano le
proprie origini o non sono più accolti nella loro comunità quando cercano di
farvi ritorno». A Cosa è dovuto questo disconoscimento, forse a discriminazione?
«Questa è una amara verità innegabile non solo per i rom laureati o con al
titolo di studio, ma anche per tanti altri rom che sono riusciti a farcela ad
uscire dalla segregazione e dall’assistenzialismo ed essere protagonisti
positivi e professionisti preparati. La tendenza di addebitare questa scelta di
assimilazione al radicato pregiudizio ed alla discriminazione, così come
attribuire la responsabilità solo alla politica mi pare riduttivo. Credo che
tutto nasca da una perfida combinazione di interventi e di politiche da un lato
limitati agli aspetti sociali, assistenziali e di emergenza, mai culturali.
Questo sta conducendo alla perdita di una identità culturale collettiva,
dall’altro la mancanza di processi di partecipazione reali. Quale possibilità ha
un rom che è riuscito a farcela di rivendicare la propria identità culturale
romanì e collaborare per la crescita sociale e culturale della propria
popolazione? Senza contare gli stereotipi creati ad arte che descrivono lo
zingaro solo come la persona che vive nel campo nomadi, che ruba e non lavora,
ecc. Quindi non solo l’indifferenza e l’assenza di una politica per la cultura
romanì, ma una precisa volontà di gran parte della società civile, che si è
occupata e che si occupa dei rom, di gestire o tutelare, evitando ogni forma di
crescita dell’autonomia e della normalità per i rom. Qualsiasi cultura si evolve
con il contatto e con lo scambio culturale».
Mi faccia capire il vostro punto di forza, da qui l’appello che rivolgete
anche agli stessi Rom è Partecipazione, vuole spiegarmi meglio, cosa vuol dire?
«Dalle esperienze del passato e del progetto federazione, avviata molto
lentamente fin dal dicembre 2003, sono arrivate alcune interpretazioni della
partecipazione attiva dei rom. Non Basta essere Rom ma è necessario che la
partecipazione Rom sia Qualificata. Mi spiego meglio non si tratta di avere o
meno un titolo di studio ma di possedere o acquisire le conoscenze e le
competenze necessarie per una partecipazione qualificata, solo così si può
costruire un processo di formazione alla partecipazione (capacity building) e di
empowerment e di superare la convinzione che la questione rom sia solo una
questione sociale (sicurezza e legalità) e di folclore, effetto delle
improvvisazioni che hanno manipolato la realtà culturale romanì».
Infine vorrei capire, vista anche la sua formazione professionale, cosa
propone per contribuire a una maggiore scolarizzazione dei bambini e bambine
Rom?
«Il fallimento delle politiche del passato per la popolazione romanì dimostra,
anche in questo caso, che senza la partecipazione attiva, propositiva e
professionale di Rom e Sinti ogni iniziativa è destinata al fallimento, bisogna
passare dalla mediazione culturale alla partecipazione.
Le iniziative di scolarizzazione dei bambini rom e sinti devono porsi
l’obiettivo del successo scolastico e non impegnarsi solo per la frequenza. Sono
troppi gli alunni rom e sinti che completano la scuola elementare senza aver
acquisito la strumentalità minima di base: saper leggere, scrivere e far di
conto e nel contempo ritenere che le abilità del bambino rom costituiscano un
handicap. La presenza di bambini Rom nella scuola Italiana è condizionata da
stereotipi e pregiudizi che conducono al fallimento del progetto educativo, e
troppo spesso, è gestita con distanza dalle dinamiche della diversità culturale
e della strategia interculturale. Quindi in breve: formazione per gli
insegnanti, produzione di materiale didattico specifico, realizzazione di un
osservatorio nazionale e regionale, sostenere le sperimentazioni mirate partendo
dalla cultura di origine».
Nei vostri interventi spesso vi pronunciate contro i campi nomadi come
ostacolo alla integrazione, ironia della sorte spesso se ne giustifica la
nascita per preservare la cultura romanì?
«In Abruzzo non vi sono campi rom, i rom che arrivano vengono inseriti in civili
abitazioni con l’ausilio del volontariato sociale. Il campo nomadi è la nostra
tomba non rappresenta la cultura romanì. Spesso proponiamo l’autogestione dei
campi nomadi e usare le ingenti risorse per la gestione dei campi nella
costruzione di politiche abitative serie».
Quale sono i prossimi impegni della Federazione?
«In Spagna a Cordoba il prossimo 8 e 9 Aprile 2010 si svolgerà il secondo
vertice europeo sui rom ed il fatto che si realizzi durante la Presidenza
Spagnola dell’Unione Europea è un buon auspicio perchè la Spagna negli ultimi
anni è stato il paese europeo che più ha investito in politiche sociali e
culturali per la popolazione romanì. Per la grave condizione e discriminazione
della popolazione romani in molti stati Europei, dal secondo vertice europeo sui
rom ci attendiamo conclusioni politiche con la esplicitazione di una strategia
politica chiara ed efficace, strategia che da una parte impegni la Commissione
europea e gli Stati membri dell’UE ad una forte e coordinata azione politica e
degli strumenti giuridici per contrastare l’antiziganismo, dall’altra parte
definisca il ruolo attivo delle organizzazioni rom nei piani d’azione europei e
nazionali, nella progettazione/realizzazione delle politiche per i rom, nel
monitoraggio dei progetti destinati alla popolazione romanì. Vi invitiamo a
consultare il nostro spazio Web:
http://federazioneromani.wordpress.com».
S.V.
LA SCHEDA
Alla popolazione rom si applica, se cittadini stranieri, il decreto legislativo
25 luglio 1998 (Testo unico sull’immigrazione).
Non esistono censimenti ufficiali che dicano con esattezza quanti sono.
In Europa la minoranza rom/sinta è definita «la minoranza più numerosa
dell’Unione europea».
In Italia ci sono una dozzina di etnie molto radicate in precisi territori,
ognuna con proprie tradizioni. Partiti dal nord dell’India e dal Pakistan
intorno all’anno mille, gli zingari si sono stabilizzati nell’est europeo da
dove hanno poi ricominciato altre migrazioni. In Italia i primi arrivano alla
fine del 1300. Quella rom è una delle società più chiuse e tribali che si
conoscano esistono diversi gruppi.
I rom abruzzesi e molisani: i più tradizionalisti, conservano intatto
l’uso del romanì e sono arrivati in Italia dopo la battaglia del Kosovo nel 1392
a seguito dei profughi arbares’h (albanesi). Si dedicano ai mestieri
tradizionali come l’allevamento e il commercio di cavalli ed è molto diffusa tre
le donne (rumrià) la chiromanzia.
I rom napoletani (detti napulengre). Fortemente mimetizzati nel
capoluogo, fino a una trentina d’anni fa fabbricavano arnesi per la pesca e
facevano spettacoli ambulanti. Esistono anche i rom cilentani (una grande
comunità di 800 persone vive a Eboli), lucani (una delle comunità più
integrate), pugliesi, calabresi e i camminanti siciliani.
Sinti giostrai – Sparsi soprattutto tra il nord e il centro Italia sono almeno
trentamila. Arrivati in Italia all’inizio del 1400, sono i depositari del più
antico dei mestieri rom, quello dei giostrai. Un mestiere però che sta
scomparendo trasformandoli in rottamatori di oggetti recuperati tra i rifiuti e
venditori di bonsai artificiali.
I Rom harvati e il sottogruppo dei kalderasha, circa 7 mila
persone arrivate dal nord della Jugoslavia dopo le due guerre mondiali, e i
rom lovara (non più di mille) chiudono il gruppo dei rom con cittadinanza
italiana.
I rom jugoslavi – È possibile suddividerli in due grandi ceppi, i
khorakhanè (musulmani) e i dasikhanè (i cristiano-ortodossi). Vivono
per lo più nei campi nomadi del nord e del centro Italia.
I rom romeni – Quello dalla Romania è ormai un flusso continuo e
inarrestabile. Le più grandi comunità sono a Milano, Roma, Napoli, Bologna,
Bari, Genova ma ormai il fenomeno è in crescita in tutta Italia.
A livello europeo esiste il Dipartimento Rom and Travellers (Rom e
camminanti, due delle varie etnie zingare). L’ufficio, nato nel 1993 a
Strasburgo nell’ambito del Consiglio Europeo per fronteggiare la questione rom,
ogni anno produce pagine e pagine di relazioni, rapporti internazionali,
raccomandazioni.
Se in Italia non è ancora stata affrontata la questione rom, l’Europa è messa
più o meno nelle stesse condizioni.
Negli anni, attraverso numerose Raccomandazioni – ad esempio sulle condizioni
abitative (2005), sulle condizioni economiche e lavorative (2001), sui campi e
sul nomadismo (2004) – si è cercato di dare almeno una cornice di riferimento,
linee guida ai vari stati per gestire la continua emergenza rom.
Uno dei file più aggiornati dell’ufficio europeo sono i numeri. In Europa si
calcola che viva un gruppo di circa 9-12 milioni di persone, nei paesi del
Centro e dell’Est Europa – Romania, Bulgaria, Serbia, Turchia, Slovacchia –
arrivano a rappresentare fino al 5 per cento della popolazione. Scorrendo i
fogli delle statistiche ufficiali europee (aggiornate al giugno 2006), colpisce
come nei paesi della vecchia Europa, nonostante la presenza e l’afflusso
continuo di popolazione rom, manchi del tutto un loro censimento. Sono censiti
solo gli zingari che vivono nei paesi dell’est Europa: dal 1400 la «casa» dei
popoli nomadi in arrivo dall’India del nord est.
La Romania guida la classifica dei paesi con maggior numero di gitani: l’ultimo
censimento ufficiale del 2002 parla di una minoranza che si aggira tra il
milione e 200 mila e i due milioni e mezzo. Seguono Bulgaria, Spagna e Ungheria
a pari merito (800 mila), Serbia e Repubblica Slovacca (520 mila), Francia e
Russia (tra i 340 e 400 mila).
L’Italia è al quattordicesimo posto con una stima, ufficiosa in assenza di un
censimento, che si aggira sui 120 mila. Sappiamo che oggi quel numero è salito
fino a 150-170 mila. Facendo un confronto con i paesi della vecchia Europa, è
una stima inferiore rispetto a Spagna e Francia, Regno Unito e Germania. Sui
motivi di queste concentrazioni la Storia conta poco: se è vero che la Germania
nazista pianificò, come per gli ebrei, lo sterminio degli zingari (porrajmos) e
nei campi di concentramento tedeschi morirono 500 mila rom, in Spagna la
dittatura di Franco ha tenuto in vigore fino agli anni settanta la legislazione
speciale contro i gitani eppure gli zingari continuano ad essere, e sono sempre
stati, tantissimi.
Lo statuto francese – Nonostante «la grande preoccupazione» del Consiglio
europeo «per i ritardi e l’emarginazione», la Francia (con 340 mila o un milione
di manouche) sembra aver adottato il modello migliore sul fronte
dell’accoglienza per i rom. Un modello che si muove tra l’accoglienza e la
tolleranza zero, due parametri opposti ma anche complementari: da una parte la
legge Besson che prevede che ogni comune con più di cinquemila abitanti sia
dotato di un’area di accoglienza; dall’altra la stretta in nome della sicurezza.
Chi non rispetta le regole dei campi e dell’accoglienza è fuori per sempre. E
chi occupa abusivamente un’area può essere arrestato e il mezzo sequestrato. La
legge Besson immagina i campi come una soluzione di passaggio e prevede,
contestualmente, un programma immobiliare di case da dare in affitto ai gitani
stanziali e terreni familiari su cui poter costruire piccole case per alcune
famiglie semistanziali e in condizioni molto precarie.
Il caso tedesco – In Germania i 130 mila circa tra Rom e camminanti sono
considerati per legge «minoranza nazionale». Dagli anni sessanta, con la caduta
del modello socialista titino e con le prime diaspore rom dall’est europeo verso
l’occidente europeo che poi si sono ripetute negli anni ottanta e novanta con le
guerre nei Balcani, la Germania ha accolto queste migliaia di persone in fuga
con un progetto di welfare. Sono state assegnate case, singole o in palazzine
popolari, hanno avuto il sussidio per il vitto, chi ha voluto è stato messo in
condizione di lavorare.
La Spagna – La Spagna ha una delle comunità gitane più popolose e in
Europa occupa il terzo posto dopo Romania e Bulgaria con 800 mila presenze.
Dalla fine degli anni Ottanta il governo centrale ha elaborato un Programma di
sviluppo per la popolazione rom. Anche in Spagna ogni regione ha un Ufficio
centrale che coordina gli interventi e le politiche per gli zingari in cui
lavorano sia funzionari del governo che rom con funzioni di mediatori culturali.
Il risultato è che non esistono quasi più campi nomadi, quasi tutti vivono in
affitto nei condomini popolari o in case di proprietà, nelle periferie ma anche
nelle città. Dipende dal livello di integrazione. Che è in genere buono anche se
resta alto il tasso di criminalità.