Ricevo da Tommaso Vitale
Milano, 24 febbraio 2010 - Sono un’insegnante di scuola elementare, lavoro
nel quartiere Bovisa, nella prima periferia milanese. Il quartiere è vivace e
multietnico e la mia classe, una prima, ne rispecchia le caratteristiche. A
gennaio si è aggiunto a noi un nuovo bambino, Romeo.
Romeo è un bambino Rom, nei suoi sei anni di vita ha vissuto varie volte
l’esperienza dello sgombero. È giunto nella nostra scuola dopo essere stato
allontanato dal Rubattino ed aver interrotto la sua frequenza scolastica alle
elementari di via Feltre. Avvisata del suo arrivo ho contattato la sua maestra,
che conosco personalmente per aver lavorato tre anni in quella scuola. Ho
recuperato i suoi libri e i suoi quaderni e glieli ho fatti trovare sul
banco quando è arrivato nella sua nuova classe, in via Guicciardi. Per due
settimane ha frequentato la scuola, arrivando sempre puntuale e motivato. In
pochi giorni ha conquistato tutti noi con la sua allegria ed il suo affetto,
anche la famiglia è sempre stata disponibile e rispettosa.
Un giovedì mattina, appena entrata in aula, sono stata letteralmente trascinata
in corridoio da Romeo che, parecchio preoccupato, continuava a ripetermi
“polizia, sgombero”. Speravo che si trattasse di un fraintendimento e invece era
tutto vero: il lunedì successivo lui, un’altra bambina che frequentava la quarta
e le loro famiglie sono stati sgomberati dal capannone in cui vivevano. Ho avuto
notizie di loro tramite gli operatori che da anni li seguono: per qualche notte
sono stati ospitati in un centro di accoglienza, si è parlato di un possibile
rientro a scuola… invece ho saputo che saranno a breve sgomberati dal luogo in
cui hanno trovato riparo, in fondo a via Bovisasca. E tutto questo a distanza di
poche settimane dal precedente sgombero.
Non ho parole. Non posso continuare a sentir parlare di ‘emergenza Rom’ se non
pensando che l’emergenza è il degrado in cui costringiamo a vivere queste
famiglie. Per me la vera emergenza ha il volto di un bambino di sei anni che –
me l’hanno raccontato pochi giorni fa – non vede l’ora di tornare a scuola e non
può farlo. È facile continuare a vendere la storiella dei Rom che non rispettano
le regole e non vogliono integrarsi, limitandosi a ragionare per stereotipi.
Nemmeno io mi sento immune dai pregiudizi, ma posso semplicemente raccontare
quello che ho visto: una famiglia continuamente cacciata nonostante la sua
evidente volontà di iniziare un percorso nuovo, un bambino a cui sono negati dei
diritti fondamentali (la casa, l’istruzione), un percorso scolastico e affettivo
continuamente interrotto. E dietro la storia di una singola famiglia intravedo
quella di troppe altre, colpite da un accanimento che odora di persecuzione. La
roboante retorica securitaria potrà nascondere ancora a lungo il totale
fallimento di queste scelte politiche nonché l’immane spreco di denaro pubblico
che ne deriva? Possibile che le cifre spese per sgomberare in continuazione le
solite famiglie non possano essere investite per seri progetti di integrazione
sociale? Possibile che la volontà di una famiglia di mandare con costanza il
proprio figlio a scuola sia un dato da non prendere minimamente in
considerazione in sede istituzionale? Leggo sui giornali di volontari,
insegnanti e famiglie che si attivano per aiutare, protestare, informare: in
città le voci di dissenso si stanno allargando a macchia d’olio, ora è il
momento che anche dal Comune di Milano arrivino segnali forti di un cambiamento
di rotta.
Romeo, quaderni e pennarelli sono sotto il tuo banco e la foto del tuo primo
giorno nella nuova scuola è ancora sulla porta dell’aula. Ti aspettiamo, torna
presto a imparare, giocare, fare amicizia con i tuoi compagni. A sei anni ci
sono parole più belle da ripetere di ‘sgombero’.
Silvia Borsani