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Kossovo
Di Fabrizio (del 20/09/2005 @ 11:57:26, in conflitti, visitato 2624 volte)
Ritorno al futuro

di Karin Waringo

Nel dibattito sul futuro del Kossovo, il passato gioca un ruolo preminente

La chiesa del Cristo Salvatore nel centro di Pristina sembra una rimanescenza del passato. Costruita in uno stile che ricorda le chiese bizantine del Medio Evo, domina una vasta distesa, che d'altra parte è occupata solo dall'università. Il portone della chiesa è cintato da filo spinato, che gira tutta intorno all'edificio. La barriera è arrugginita dal tempo e non sarebbe di nessuna protezione se qualcuno volesse attaccare.Le finestre non hanno più vetri e anche le pietre che le contenevano sono sparse attorno. Nel corso degli anni la chiesa, che non è mai stata completata dopo la fuga dei Serbi da Pristina, è stato il bersaglio di ricorrenti attacchi e vandalismi. E' così diventato un simbolo delle relazioni tra la maggioranza Albanese, che ora determina il futuro nella provincia, e la minoranza Serba.

Raramente si sente la lingua serba a Pristina. A volte sono un paio di vecchi che lo parlano al riparo delle mura di un albergo, a volta un gruppetto per strada, come se stesse cospirando. Quasi nessuno più lo capisce, una volta era insegnato a scuola ma oggi per le strade di Pristina è una lingua tabù. I Serbi che fanno parte di organizzazioni internazionali, tra loro parlano in inglese. I giovani Rom vogliono passare per Inglesi o Americani, persino "Zingari Americani", tutto tranne ciò che sono realmente, abitanti da secoli di questa regione martoriata dalla guerra.

La capitale del Kossovo è stracolma di simboli, che ricordano l'eroica battaglia "dell'Armata di Liberazione del Kossovo", l'UĒK, contro "l'occupante Serbo". Nel centro della città, di fronte al Grand Hotel, si staglia la statua di un combattente albanese per la libertà, morto nel 1999. Sulla facciata semidistrutta del Palazzo della Gioventù e dello Sport, c'è la fotografia di un altro eroe di guerra, bardato in uniforme da battaglia. Ha un aspetto abbastanza irreale, come se emergesse da una fiction. Anche lui è morto nella guerra contro i Serbi.

Inoltrandosi nel centro, quasi accanto alla sede della delegazione EU, il monumento a Skenderbeg, anche lui un eroe, ma di tempi più remoti: Fermò l'invasione dei Turchi in Albania, ed è considerato un popolare eroe albanese. Più modesta, nella stessa strada che ne porta il nome, il ritratto di un'altra albanese, Nėna Terezė, fondatrice di un ordine religioso, che appare dappertutto nei poster in città.

Un giornalista occidentale afferma che il Kossovo si dividerà nei prossimi anni, con la sua parte settentrionale che cadrà sotto la Serbia e quella meridionale sotto l'Albania. Oggi i Serbi del Kossovo vivono quasi esclusivamente nelle enclavi, qualche migliaia in quelle più piccole come Gnjilane e Gorazdovac, qualche altro migliaio nella cosiddetta mezzaluna attorno a Pristina e forse 70.000 a nord del fiume Ibar, un'area prossima al confine con la Serbia.

Ci sono innumerevoli leggende attorno al Kossovo: i Serbi considerano il Kossovo la culla della cultura e della civilizzazione serba. Nel 1389 il principe serbo Lazar Hrebeljanovic patì in questa terra una tremenda sconfitta contro i Turchi, e questo divenne negli anni un importante elemento della coscienza nazionale serba. Fu a Kosovo Polje in serbo o Fushė Kosovė in albanese dove, nell'aprile 1987, l'allora presidente serbo Slobodan Milosevic fece il suo storico discorso, che avrebbe sancito la fine dell'ex Yugoslavia: "Nessuno sconfiggerà ancora questo popolo".

"Se vuoi capire questo odio, devi comprendere la Storia" mi spiega l'interlocutore albanese. Lo incontro la prima volta sulla terrazza di un caffè di Pec/Pejė, dove mi ero trovata con un amico. Quando ci sente discorrere in inglese, vuole unirsi all'argomento. Era coordinatore delle lezioni in francese, parla sei lingue, tra cui spagnolo e italiano. Quando lo incontro nuovamente il giorno seguente a Pristina, non posso rifiutare oltre il suo invito.

Pieno di orgoglio, passa dall'inglese al francese e poi al tedesco e insiste che dovremmo parlare anche in spagnolo. Ma a causa della Storia, rifiuta di parlare serbo, l'ultimo linguaggio che abbiamo in comune. Per lui la Storia inizia al principio del XX secolo. Nel 1918 il Kossovo fu incorporato nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. "Dopo la guerra eravamo un povero popolo di confine, con pochi di noi che si erano laureati", mi dice.

Tutto ciò sarebbe cambiato rapidamente negli anni a venire. Nel 1968 il Kossovo ricevette la sua prima università. "L'Università di Pristina era la terza in Yugoslavia", mi dice Muzaref orgogliosamente. Con la nuova Costituzione yugoslava al Kossovo fu garantito lo status di provincia autonoma e questo fu l'inizio dell'epoca d'oro che terminerà nel 1989. "Naturalmente i Serbi possono fare ritorno. A seguito degli inviti di popolare la regione, molti di loro nella seconda metà degli anni '80 si costruirono la casa. Questi Serbi possono tornare." - "E le altre minoranze, ad esempio i Rom?", gli chiedo. "Nobody likes the Gypsies.", mi risponde Muzafer con un largo sorriso. E con questo, l'argomento è chiuso.

"Jonegociata. Vetevendosje.", "Nessun negoziato. Indipendenza". Fine di agosto, è lo slogan che appare sui muri di Pristina. Si dice che dietro ci sia un giovane studente albanese. Durante i mesi estivi l'inviato speciale del Segretario dell'ONU Kofi Anan, Kai Eide, è stato in Kossovo e a Belgrado, per fare il punto della situazione. Le prime dichiarazioni di Kai Eide indicano che il suo rapporto, che sarà sottoposto al giudizio del Consiglio di Sicurezza dell'ONU a ottobre, sarà meno ottimista di quelli trimestrali del Rappresentante Speciale dell'ONU in Kossovo, Soren Jessen Petersen. Kai Eide è preoccupato particolarmente per la situazione delle minoranze e le condizioni per il loro ritorno.

Mi spiega un incaricato di un'organizzazione internazionale in Kossovo, che Eide ha viaggiato più in Europa che in questa regione. Lo scopo della sua visita era non solo di avere un'idea delle differenti posizioni, ma se possibile di cercare di mediare tra le diverse opinioni. Quando il rapporto verrà vagliato dal Consiglio di Sicurezza, la decisione su come procedere in futuro sarà già ampiamente determinata. Per esempio, un'indipendenza condizionata, dove alle istituzioni locali spettano la maggior parte delle competenze di uno stato indipendente, ma che rimanga sotto il controllo di un mandatario internazionale, sembra oggi l'ipotesi più gradita.

Nella comunità internazionale la posizione da assumere sulle minoranze è il punto di rottura. L'argomento venne affrontato soltanto due anni fa, in occasione della proclamazione del piano di sviluppo del Kossovo, che avrebbe dovuto stabilire le condizioni concrete per la fine del mandato ONU. Gli stessi rappresentanti della comunità internazionale rimproverano all'UNMIK, l'amministrazione civile dell'ONU, di essere corresponsabile dell'attuale situazione. Si accusa l'UNMIK di avere rapporti troppo stretti con l'Auto Governo Provvisorio. Mancano indicazioni esplicite se il futuro del Kossovo appartenga a tutti gli abitanti o esclusivamente alla minoranza albanese.

La notte tra il 27 e il 28 agosto è stato aperto il fuoco contro quattro giovani Serbi che stavano lasciando l'enclave di Strpce sulla loro auto. Due di loro sono morti sul colpo. I giorni seguenti la notizia è circolata nell'enclave come un incendio. Probabilmente per questo alle festività di Gracanica c'erano così poche persone. Prima della guerra, quello che è uno dei più vecchi monasteri serbi della regione attraeva decine di migliaia di Rom e Serbi. Oggi sono soprattutto Rom musulmani provenienti da Gracanica.

"Perché partecipate, se siete Musulmani?" chiedo a Safet, un Rom del Kossovo. "Dio è uno", mi risponde con un ghigno maligno. Sua suocera offre una spiegazione più prosaica: "Dopo la fine della guerra, è l'unica cosa che ci permettono di fare." Un'opportunità per incontrare parenti ed amici e scambiarsi informazioni. I venditori di strada che vendono giocattoli di plastica a buon mercato, non sembrano fare grandi affari. Giusto i soldi per ripagarsi il vitto e le spese.

Il rappresentante con cui ho parlato, che insiste per rimanere anonimo, chiame le enclavi "comunità di affamati". Su oltre 200.000 appartenenti alle minoranze etniche, cacciati dal Kossovo nel giugno 1999, solo qualche migliaio ha fatto ritorno. Sono soprattutto anziani senza ulteriori possibilità.

Attacchi come quelli del marzo 2004, quando più di 4.000 Serbi, Rom ed Askali sono stati cacciati dalle loro case e proprietà, portano a successive ondate migratorie verso le enclave più grandi e la Kosovska Mitrovica. Ovunque, ci sono rovine bruciate, ma soprattutto case saccheggiate, accanto alle nuove costruzioni.

Nelle enclavi c'è paura di nuovi attacchi durante questa rincorsa ai negoziati sullo status futuro del Kossovo. Alla fine di luglio Adem Demachi, presidente dell'Associazione degli Scrittori Kossovari, ha affermato al giornale belgradese "Blic" che rimandare l'indipendenza potrebbe sfociare in nuove azioni peggiori di quelle del marzo dell'anno scorso.

Cosa c'è dietro questa strategia? Il compimento di un'operazione, iniziata nel giugno 1999 sotto gli occhi della comunità internazionale, che consegnerà il Kossovo alla maggioranza albanese? Gli abitanti dell'enclave attorno Gracanica accusano gli Shiptare, il nome che danno agli Albanesi, di nutrire ambizioni territoriali su Laplje Selo, che fa parte della "mezzaluna" a sud di Pristina. Laplje Selo lambisce la strada principale che unisce Pristina a Skopje. Lungo quel percorso sono spuntati come funghi distributori di benzina. Un diplomatico straniero sottolinea che la strada ha importanza strategica, come via di comunicazione verso Pec, o Pejė in albanese. Averne il controllo renderebbe possibile dividere l'enclave e togliere l'ossigeno ai suoi abitanti.

"Slobodnost kretenje", libertà di movimento in lingua serba. Una parola usata e ri-usata dai non-Albanesi, per rimarcare che per loro la libertà di movimento non esiste. Al momento di attraversare il ponte sul fiume Ibar, per raggiungere la sponda sud, uno dei miei accompagnatori mi rammenta di smettere di parlare in serbo. Immediatamente i nostri discorsi si spengono, per tramutarsi poi in un bisbiglio irrequieto e sospettoso.

I divieti valgono anche sull'altra sponda: il Nord Kossovo sotto il controllo di Belgrado. Stiamo parlando delle cosiddette strutture parallele o dell'ostruzionismo dei Serbi kossovari. Solo recentemente i rappresentanti serbi hanno definitivamente deciso di lasciare i loro seggi nel parlamento del Kossovo. I Serbi del Kossovo hanno boicottato le ultime elezioni, col risultato che le altre minoranze, come i Rom che vivono nelle stesse enclave, non hanno votato e sono tagliati fuori dai processi politici.

Dal 29 agosto Kosovoska Mitrovica è sotto stadio di assedio. Tutti i punti nevralgici sono presidiati dal mezzi della KFOR. L'edificio dell'OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe) nella parte settentrionale della città, appare come una fortezza. Invece i soldati che compongono la Forza Internazionale di Pace sembrano più annoiati che sotto tensione. La manifestazione dei Serbi sul ponte sull'Ibar si è mantenuta pacifica e si è sciolta alle due verso la parte settentrionale della città.

La sostituzione delle targhette numerate che sul ponte indicano il punto dove fermarsi o dei bollini che attestano la nazionalità della vettura e il suo diritto ad accedere a un parcheggio riservato, è pratica quotidiana. Gli scambi commerciali avvengono in dinari. La musica, che risuona dappertutto, è serba. Mitrovica si presenta come un baluardo contro gli Albanesi a sud.

Nel centro di Mitrovica "giace" la Mahala dei Rom, che era uno dei più estesi e più antichi insediamenti dei Rom nell'Europa del Sud-Est. Oggi i suoi abitanti sono dispersi in ogni direzione, qualcuno in Serbia e Montenegro, altri nei paesi EU. Della Mahala rimangono scheletrici i muri delle case, che si stagliano all'orizzonte. La Fabricka Mahala è andata distrutta e saccheggiata, i suoi abitanti cacciati il 16 giugno 1999, sotto gli occhi di un inattivo contingente francese della KFOR. Lo scorso aprile, l'UNMIK e l'amministrazione comunale hanno siglato un accordo per la ricostruzione della Mahala. Celebrato come una vittoria e un passo verso la normalizzazione dei relazioni interetniche, l'accordo sta rivelandosi un regalo a due facce.

L'ultimo episodio di quella che appare un infinito intrigo politico, è la richiesta che una ONG internazionale ha fatto a Kofi Anan di sospendere l'immunità diplomatica per quegli ufficiali NATO responsabili della sistemazione e della sicurezza degli ex abitanti della Mahala. 700 di loro vivono nei campi per IDP (rifugiati interni) nel Kossovo settentrionale. In tre di questi campi sono stati registrati livelli di avvelenamento del sangue dei rifugiati, svariate volte superiori a qualsiasi standard internazionale. Un giornalista americano ha attribuito 27 morti avvenute in questi campi, molti bambini tra questi, agli effetti dell'inquinamento del suolo e dell'ambiente. I campi sono posti nelle immediate vicinanze delle miniere di Trepca, chiuse dall'amministrazione NATO nel 2000, a causa del pericolo costituito per le persone e l'ambiente.

Il caso ha sollevato l'attenzione dei media internazionali e i visitatori spuntano ogni giorno. Il leader del campo ha attaccato al muro dell'ufficio i biglietti da visita dei giornalisti e dei visitatori che sono passati di lì. Dietro al computer sulla scrivania, assomiglia ad un manager. Nello stesso giorno in cui sono andata lì, l'ufficiale dell'UNMIK gli sta promettendo una luna a cui non crede più: "All'inizio, ho dato fede a tutti, ma adesso non credo più a nessuno."

C'è chi ritiene sia sintomatica l'attenzione sviluppatasi attorno ai casi di avvelenamento del sangue, a pochi mesi dall'inizio dei negoziati sulla possibile indipendenza del Kossovo. Con la dimostrazione che l'amministrazione civile internazionale non è in grado di salvaguardare gli interessi degli abitanti non Albanesi del Kossovo.

La Mahala stessa è sulla linea del fronte. Collocata una volta nel centrodi Mitrovica, oggi si trova proprio sul confine tra l'area serba e quella albanese, ma nel territorio di quest'ultima, a sud dell'Ibar. Questo può spiegare perché i capi non siano particolarmente impazienti di tornare nel luogo d'origine dei loro antenati: se il Kossovo finisse per essere diviso, i Rom, tradizionalmente più vicini ai Serbi, si ritroverebbero improvvisamente dal lato sbagliato. Inoltre, il ritorno nella Mahala significherebbe la fine di un sogno accarezzato a lungo: la possibilità di chiedere la risistemazione in una nazione terza, che a molti appare l'unica salvezza da una storia di povertà e persecuzione.

"Non si parla più di Kossovo multietnico", dice un rappresentante di un'organizzazione internazionale che opera qui, "ma soltanto di coesistenza pacifica". "Se verranno risolti i problemi economici, lo saranno anche quelli politici", dice il mio poliglotta compagno di discussione. Considera un dovere patriottico per gli Albanesi della diaspora kossovara investire nel futuro del paese.

Chiedo al portiere del Grand Hotel cosa si aspetti dall'indipendenza. "Non lo so" è la sua risposta. Il suo collega dell'hotel Illiaria ha preoccupazioni differenti: I due alberghi, che appartengono allo stesso gruppo, saranno privatizzati. Oggi impiegano 700 persone, che dopo la privatizzazione di sicuro non saranno più di 250, così lui ritiene. Potrebbe significare la fine di una carriera durata 31 anni.

All'aeroporto di Slatina incontro degli Albanesi con passaporti tedeschi, ma soprattutto americani. I bambini parlano tra loro in inglese e quando si rivolgono agli anziani, usano l'albanese. Sulla valigia leggo l'etichetta Bronx, New York. Qui in Kossovo sono considerati a pieno titolo tra i pochi fortunati, quanti hanno avuto la possibilità di andarsene.

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