In allegato trovate alcune pagine del messaggero pubblicate
sabato 22 settembre riguardante notizie sui rom. Xoraxai
di ELENA PANARELLA
e RAFFAELLA TROILI
ROMA - Un filo sottile segna il confine tra esasperazione e intolleranza. I
cittadini di Ponte Mammolo l’hanno attraversato. Quelli che avant’ieri si sono
fatti giustizia da soli, e tutti gli altri, il benzinaio, il panettiere,
l’operaio, il barista. Sono stanchi. «Basta - ripetono - Sono anni che andiamo
avanti così, tendopoli, baracche, case lungo il fiume. Siamo invasi da questi
insediamenti che hanno portato all’aumento di furti, delinquenza, degrado. E non
serve a niente sgomberarli, tanto ritornano».
Ponte Mammolo, il giorno dopo. La rabbia è rientrata, l’esasperazione no. Anche
se i sentimenti sono contraddittori, anche se il buonsenso è tornato ma il cuore
pulsa ancora troppo forte, il colpo di coda del quartiere è ancora nell’aria.
«Il Comune invece dov’é?», grida da dietro il bancone Anna, «la verità è che ci
hanno lasciati soli». Siamo nel V Municipio, e gli stranieri sono numerosi e
integrati. Gli zingari, i baraccati, quelli no, quelli sembrano creare solo
problemi. «Non andiamo più al parco per timore d’incontrarli, sono entrati nei
box, nelle case, hanno rubato i motorini. E le donne hanno paura a uscire la
sera».
Esasperati i cittadini. Esasperato chi ogni giorno aiuta, quantomeno cerca un
contatto, tende una mano al popolo rom. Gli operatori sociali, le parrocchie, i
volontari anche loro si dicono abbandonati. «Dove sono le istituzioni?». Chi
scende nei “campi”, come loro, ha il diritto di lamentarsi. Chi conta i posti
vuoti sul pulmino che dovrebbe portare i piccoli rom a scuola; chi incontra le
sue alunne in centro a caccia di borsette mentre i maschietti sono ai semafori,
a elemosinare. Le associazioni seguono passo dopo passo il loro percorso
formativo, «ma anche se tanto è stato fatto, molti bambini - segnala Paolo
Perrini dell’Arci solidarietà - restano ancora nei campi. Il nostro lavoro è
fondamentale per l’iscrizione, ma non può essere lasciato a sè. Va accompagnato
da politiche di inclusione sociale per le famiglie». Come a dire: se le
condizioni di vita rasentano l’estrema precarietà, se i rom che sono a Roma
dall’80 ancora vivono nelle baracche, quale integrazione si possono aspettare
questi bimbi nati a Roma, figli di una generazione anch’essa nata a Roma? «Il
loro primo problema non è la scuola, ma la sopravvivenza».
Nuovi baraccati e vecchi insediamenti. «E’ una realtà che va affrontata a
livello nazionale», aggiunge Salvo Di Maggio della comunità Capodarco. I
piccolini cominciano bene, frequentano la materna, i primi anni delle
elementari. Poi il contatto si perde, vengono risucchiati dalla loro cultura, le
femmine si sposano, anche a forza. «A un certo punto il loro mondo si fa troppo
diverso da quello degli altri coetanei. C’è un bimbo che non è venuto a scuola
per un anno perché non poteva passare in una certa zona del campo», ricordano le
maestre dell’Istituto Dalla Chiesa. «C’è chi arriva tutti giorni da lontano, da
Castel Romano, dove neanche hanno l’acqua, i servizi, ci mettono amore e buona
volontà. Altri sono solo nomi sui registri...». Crescono e si sentono
inadeguati, «vanno a rubare Nike e tute per vestirsi come i loro compagni»,
ancora Perrini. Alla fine, si arrendono...
Sono circa duemila i bambini rom iscritti alle scuole della
Capitale provenienti dagli oltre 25 insediamenti sparsi per il territorio. La
frequenza si attesta sul 70%, con picchi dell'85% dove i campi sono più
attrezzati, e minimi del 30% dove le condizioni di degrado non permettono una
costanza negli studi. Di media, quindi, vanno regolarmente a scuola solo il 50%
dei bambini rom. Le bambine frequentano di più fino alle elementari rispetto ai
maschi, poi molte di loro, verso i 13 anni cominciano ad allentare perché le
famiglie le vogliono vicine per i lavori quotidiani o magari sono costrette a
sposarsi. La scolarizzazione è affidata ad associazioni che seguono passo passo
il percorso formativo dei bambini dalla materna, alle medie e per qualcuno di
loro anche alle superiori e nei corsi di formazione che quest'anno hanno
raggiunto l'apice di circa settanta iscritti. «Per capire come è cambiata la
condizione di questi ragazzi - spiega Salvo Di Maggio, responsabile della
Comunità di Capodarco - basta pensare che tra il 1990 e il ’91 a Roma si
registravano 180 bambini iscritti con una frequenza molto bassa. Oggi parliamo
di circa 2000 ragazzi di cui circa 1400 vanno regolarmente a scuola. Si può dire
che il passaggio è stato compiuto». La comunità di Capodarco controlla 11
insediamenti a sud est della città: da quello di via di Salone a quello
dell'Arco di Travertino passando per via della Martora e via dei Gordiani.
Insieme alla Onlus Arci Solidarietà Lazio, che segue, tra le altre, le comunità
di Castel Romano, Tor de’ Cenci e Tor di Quinto, coprono gran parte del
territorio capitolino per un totale di circa 1800 ragazzi. Ogni mattina vengono
portati nelle rispettive scuole (dal centro alla periferia) grazie a pullman
messi a disposizione dal Comune. Quelli più grandi, che hanno le strutture
vicino ai campi, le raggiungono a piedi. Alcuni vengono accompagnati dai
genitori, mentre la maggior parte ogni giorno è costretta a tragitti spesso
snervanti: «Complessivamente noi seguiamo circa 850 ragazzi (Capodarco un
centinaio in più) tra materna, elementari e medie - spiega Paolo Perrini,
responsabile dell'Arci Solidarietà Lazio - Purtroppo, come ad esempio per gli
iscritti del campo di Castel Romano (280 con frequenza del 50% circa), spesso i
bambini devono affrontare lunghi tragitti per raggiungere la Garbatella o altre
zone limitrofe, tutto a discapito dell'attività didattica perché arrivano in
classe più tardi rispetto agli altri».
G. M.
di GIOVANNI MANFRONI
Sonita ha 16 anni, tanta voglia di studiare e divertirsi e un grave ritardo
mentale che non le permette di stare alla pari con gli altri bambini. Ma Sonita
è più forte della sua malattia. Ogni mattina, con il sorriso sulle labbra, mano
nella mano con la mamma, sale sul pullman che l'aspetta davanti all'entrata del
campo rom di Tor de’ Cenci. «Frequenta assiduamente la scuola - assicura Marco
Birnozzi, coordinatore dell'Arci Solidarietà Lazio - Sonita fa la prima media ed
è seguita da vicino da insegnati ed operatori. Quest'estate non vedeva l'ora che
ricominciasse la scuola. E' sempre un gioia vederla arrivare e leggere nei suoi
occhi la felicità e la spensieratezza che stona rispetto al contesto in cui
vive».
Ma spesso per i ragazzi rom non accettano regole. Quasi sempre sono i genitori a
impedirglielo. È il caso di Stepe, che ha ha sempre amato la scuola. «Le
elemenatri le ha finite a tempo di record - precisa un operatore - Poi, una
volta, finite le medie, i genitori le hanno messo i bastoni tra le ruote». Prima
hanno cominciato a farle saltare qualche lezione, poi, quando ha compiuto 13
anni, hanno deciso che si doveva sposare. «Si è battuta perché questo non
accadesse, tanto che ha provato a denunciare la famiglia ed è stata affidata ai
servizi sociali, pur rimanendo a vivere nel campo di Lombroso». Sembrava averla
spuntata, invece finite le medie la famiglia l’ha costretta a partire per
Milano, dove l'aspettava il futuro marito. I genitori hanno ottenuto quello che
volevano. «Faremo tutto quello che è nelle nostre possibilità per riportarla a
scuola - conclude l’operatore - La famiglia ormai non ci vede di buon occhio, ma
non ci arrendiamo».
Alessandro, invece, del campo di Tor de’ Cenci, è stato più fortunato, se così
si può dire. Fin da piccolo ha coltivato la passione per i computer. «E’ sempre
stato fissato», dice sorridendo Marco. Ha concluso regolarmente le elementari e
le medie, studiare gli piaceva tantissimo, già prima di diventare il primo
ragazzo del campo a prendere l'attestato di scuola superiore. La sua passione
l'ha portato a terminare un corso di formazione della Regione per operatore
informatico, uno di quei corsi che ti apre la strada alla vita lavorativa.
«L'abbiamo seguito fin dalla scuola materna - fanno sapere dalla Onlus - è
sempre stato un bambino bravissimo e con tanta voglia di riscatto».
Riscatto che ancora non è arrivato. Una volta terminati gli studi tutte le porte
si sono chiuse. Per 5 anni ha fatto colloqui di ogni genere senza mai ottenere
risposte positive. Oggi Alessandro a 19 anni e un futuro che non c'è. «Si parla
tanto di integrazione - accusa Birnozzi - e poi quando una ragazzo fa tanti
sforzi per lasciarsi alle spalle una condizione di degrado non si fa nulla per
aiutarlo». Per 4 anni ha lavorato come segretario nella Onlus, «abbiamo preso a
cuore la sua storia, ma poi se ne è voluto andare perché ci ha detto che gli
sembrava un'elemosina». Si è rimboccato di nuovo le maniche ed è tornato a
bussare alle porte girando tutte le agenzie interinali sparse per il territorio.
Non si riesce a dare una spiegazione al fatto che il futuro che gli avevano
promesso in realtà è fatto di «le faremo sapere» e «in questo momento non
cerchiamo». Ma non si rassegna e a chi gli chiede che cosa si aspetta dal domani
lui risponde deciso: «Ho studiato tanto per ottenere questi risultati e ora è
giusto che qualcuno mi dia la possibilità di lavorare».