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Solo la scuola da' il pensare
Di Fabrizio (del 17/03/2013 @ 09:02:39, in scuola, visitato 1324 volte)
CORRIERE IMMIGRAZIONE 10 marzo 2013 | Cesare Moreno

Nadia, giovane rom, non vuole saperne dei libri... Appunti e riflessioni di uno storico "maestro di strada".

Lunedì pomeriggio mi trovavo a Cosenza nel Circolo di via Popilia mentre erano in corso le ultime attività del "doposcuola" frequentato da molti bambini dei campi Rom. C'è anche Pamela (nome di fantasia, molto diffuso in quella comunità), madre di Nadia (altro nome di fantasia) che in prima media ha smesso di andare a scuola prima di dicembre e ora sembra, insieme alla madre, essere ritornata sui suoi passi. Per sommi capi conosco la sua storia e c'è qualcosa che non torna nel racconto che mi è stato fatto; quasi distrattamente, ma con intento provocatorio le dico:

"Perché Nadia non vuole andare a scuola, è lei che non vuole mandarcela!".
Pamela non si scompone:
"Ma no, è lei che da sempre la scuola non gli entra in testa".
"Allora significa che il suo errore è cominciato da molti anni!".
Ancora non si scompone:
"Già alla scuola materna non voleva andare".
"Se è per questo anche mio figlio non voleva andarci, alla fine ha vinto lui, però poi alla scuola elementare c'è andato. So che anche sua figlia c'è andata".
"Sì ma sempre senza voglia, non l'ha mai accettata".

Interloquisce Franca:
"Ma no! Fino alla quinta andava tutto bene, poi in quinta è successo qualcosa che non so ed è cambiata".
"Allora, - insisto - è lei che non vuole mandarla, e cosa fa tutto il giorno?".
"Si alza tardi, verso le nove e mezza, poi passa il tempo così. Devo dire che nei lavori di casa è coscienziosa, li fa volentieri".

Nel frattempo vedo sgusciare all'esterno una ragazzina che intuisco essere lei: è alta, slanciata, capelli lunghi sciolti, una figura che per quel poco che ho visto mi sembra di portamento elegante.
Finalmente Pamela reagisce:
"Io ho fatto fino alla prima elementare, poi ho abbandonato. Vorrei che lei facesse la scuola perché solo le scuole danno il pensare" e si tocca la fronte con le dita della mano riunite: il gesto che indica il pensare. "Ma lei con la scuola proprio non si trova".
Poi ripete interrogativamente: "Perché solo la scuola dà il pensare".

Franca ripete che è successo qualcosa in quinta. Io invece resto senza parole; è la prima volta che sento riassunto in una sola frase ciò che faticosamente, da anni cerco di ripetere a tanti miei colleghi e compagni di lotta per l'educazione: la scuola serve innanzitutto a se stessi, a costruirsi gli strumenti di pensiero. E questa scena non mi esce di mente e continuo a pormi delle domande, la prima delle quali vi giro: perché Pamela insiste a voler retrodatare il disimpegno scolastico della figlia, nonostante evidenti prove contrarie? E lo chiedo perché in migliaia di incontri avuti con i genitori di allievi "difficili" è una affermazione piuttosto frequente.

La seconda domanda è cosa è successo in quinta, ma soprattutto - mi capita spesso di fare questa domanda durante incontri formativi con docenti ed educatori - perché vi interessa tanto il saperlo, perché abbiamo un bisogno direi ossessivo di sapere "cosa c'è dietro"; non possiamo limitarci a vedere Nadia come è oggi, a immaginare una figura elegante, mentre invece forse è sguaiata; a immaginarla silenziosa e discreta quando invece, magari, urla al disopra di tutte le compagne. Se vogliamo incontrare l'allievo dobbiamo avere innanzitutto uno sguardo contemplativo, uno sguardo non analitico, che non si separa da ciò che guarda, che si confonde in esso così come facevano i mistici nei confronti di Dio: un'assenza di pensiero, uno stato fusionale. Senza questa contemplazione iniziale ogni altra conoscenza sarà raccolta come dato che inchioda la persona ai propri parametri oggettivi, ossia ad uno stereotipo costruito con i paludamenti della scienza che non è scienza e non è neppure conoscenza personale: è una costruzione mentale artificiosa che deve creare l'illusione del controllo su una realtà che ci sfugge e ci inquieta.

La terza domanda è cosa significa "alleanza educativa" nel caso di Pamela. Io credo che la frase: "solo la scuola dà il pensare" è il nucleo di una possibile alleanza, è il punto in cui Pamela ha espresso un suo sogno. Forse appena cinque minuti dopo avrà fatto qualcosa per smentire questo nobile proposito. Forse farà molte cose per smentirsi. Ma il senso di una alleanza è proprio quello di custodire in due una buona intenzione e di potersi appellare a quella intenzione condivisa, il poter ricordare l'uno all'altro il comune intento. Alleanza significa che da quel punto può cominciare una narrazione condivisa.

Quando parlo di queste cose vedo che spesso non ci si capisce, molti dicono che l'alleanza c'è, ma poi non sanno esemplificare, è più implicita che esplicita, non è stata formalizzata, non c'è stato un rito officiante. Perché un'alleanza che non sia sufficientemente condivisa dalle parti non è un'alleanza, ma una dichiarazione unilaterale che trasforma l'asimmetria di una relazione in una struttura di potere. E quindi insisto che l'alleanza deve avere dei riti appropriati, una enunciazione davanti ai testimoni giusti, una scrittura, un simbolo che ce ne faccia ricordare. Dobbiamo potere in ogni momento ricordare a noi educatori e ai nostri interlocutori quella parte buona di sé che nell'alleanza si è impegnata.
La quarta domanda è cos'è che impedisce all'istituzione scuola un dialogo umano con Pamela? Perché nei confronti di Pamela o c'è il disinteresse o si attiva una catena persecutoria che le contesterà - come ho fatto io provocatoriamente - di essere una madre sciagurata, di violare i diritti dei bambini, di eludere le leggi dello Stato e quant'altro. Cos'è che impedisce alle tante donne che di mestiere fanno le docenti e le educatrici di empatizzare con questa donna, di capire che non è all'altezza dei suoi sogni perché è sopraffatta dai bisogni, perché la sua mente non è libera, perché nessuno le riconosce il pensare - neppure lei stessa - ed il nostro compito non è inchiodarla al suo piatto realismo, ma sostenerla con i mezzi del pensiero e della riflessione a migliorare se stessa. Ecco cosa potrebbe significare fare un lavoro educativo con i genitori degli allievi 'che la scuola non gli è mai piaciuta'.