di Nando dalla Chiesa
Cristina. È il nome che le torna sulle labbra più volte mentre racconta la
sua esperienza di maestra milanese. Flaviana Robbiati ha appena tirato due o tre
pugni nello stomaco al pubblico della
Settimana Internazionale dei Diritti di
Genova. È venuta qui con un'altra maestra milanese, Stefania Faggi. A spiegare
perché le è stato impossibile voltarsi dall'altra parte mentre le ruspe
distruggevano i campi nomadi dove abitava Cristina. Non voltarsi quando
vengono calpestati diritti altrui dà, secondo la tradizione ebraica, diritto a
quell'appellativo di "giusti" a cui è dedicata la rassegna genovese. Loro sono
venute a rappresentare, con altri insegnanti, i "giusti nella scuola".
"Lo sa lei che cosa vuol dire uno sgombero? Noi sì, l'abbiamo misurato
attraverso i nostri alunni rom del Rubattino. Saranno catapecchie in lamiera, ma
ognuna è per loro la propria casetta, capisce? Quando arrivano a tirar giù tutto
fanno la conta a quintali della spazzatura. Ma quei rifiuti triturati sono
pentole, cartelle, quaderni, giocattoli, guardi qui la foto di questa bambola
decapitata. A Milano in tre anni hanno fatto 540 sgomberi. Il vicesindaco De
Corato li festeggiava pure. Quando poi il cardinale Tettamanzi chiese di evitare
di farli in inverno, di risparmiare la pioggia e la neve e il freddo a quelle
creature, il sindaco rispose che la lotta per la legalità non conosceva
stagioni. Bella legalità, che ammazza il senso di giustizia. Io dico che negli
edifici dove si applica la legge c'è scritto ‘Palazzo di giustizia', mica
‘Palazzo della legalità'. E di ingiustizie ne abbiamo viste. Sa, noi seguivamo
attentamente le vicende del campo. Un mattino seppi che avevano fatto uno
sgombero che era ancora buio. Allora spiegai tutto agli altri alunni, chiesi
loro di non farlo pesare a Cristina. Cristina arrivò a scuola chiedendo che i
compagni non sapessero nulla, con gli occhi bassi, per la vergogna di quel che
le era successo. In classe furono bravissimi, perché per fortuna i compagni di
scuola e le loro famiglie ci aiutavano molto a creare un clima di amicizia e la
invitavano alle feste".
Ha un viso lungo e scavato, Flaviana, gli occhiali dorati poggiati su un naso
magro e impertinente. Stefania ha i capelli scuri, è solo all'apparenza più
severa. "Quel giorno", continuano, "quel 19 novembre, ci arrivarono a scuola
alle quattro del pomeriggio tutti i genitori degli alunni rom del distretto,
quasi una quarantina ne avevamo. E ci chiesero di aiutarli a dormire. Facemmo
subito le telefonate, Sant'Egidio, la Casa della Carità, le parrocchie, e alla
fine ne prendemmo qualcuno in casa nostra. Riuscimmo a sistemarli quasi tutti.
Il fatto vero però è che questa guerra ai rom toglie a dei bambini un diritto
elementare: quello di andare a scuola. È andare a scuola, secondo lei, doversi
rifare i quaderni ogni mese, trovarsi senza casa decine di volte all'anno,
perché questi sono i numeri di Cristina, oppure dovere cambiare otto scuole in
un anno come è capitato a Samuel, o metterci due ore a piedi tra i campi
ghiacciati, come è successo a Giulia che voleva restare nella sua classe? È
andare a scuola con la serenità necessaria venire staccati come figurine dal
padre o addirittura dalla madre a sei anni? Per questo noi diciamo che i bimbi
rom sono bimbi come gli altri, ma contemporaneamente che sono un po' meno
bambini di tutti. Perché per loro vivere la normalità non è normale. Si sentono
sempre in colpa. Vuole sapere la storia di Ulisse, che arrivò a scuola ricoperto
di sputi? Era stato un signore dalla sua macchina. Appena lo ha visto, aveva
tirato giù il finestrino e l'aveva trasformato in un bersaglio".
Stefania e Flaviana, scuole diverse ma stesso circolo didattico, quello di via
Pini, zona est della città, non si fermerebbero mai nel loro racconto.
D'altronde se c'è qualcuno che ha presidiato le frontiere della civiltà
nell'Italia ubriaca di pregiudizi e di razzismo sono loro. Loro che appena
fiutavano l'aria di sgombero facevano lasciare le cartelle a scuola o
preparavano materassi nelle loro cantine. "Ma lo sa che alcuni di questi bambini
vivono perfino sotto terra? Pensi quanto è grottesco: li bocciano a volte per le
troppe assenze, quando sono proprio gli sgomberi a catena che gli impediscono di
venire a scuola. Eppure si impegnano, sa? Cristina sapeva solo il romans e il
rumeno. Ora è andata a vivere in una casa in un altro paese, anche se i suoi
compagni continuano a invitarla alle feste, ed è stata promossa in prima media
quasi con la media dell'8. Ha studiato e imparato. Noi lo ripetiamo a ogni
incontro: lasciarli analfabeti è come compiere una pulizia etnica. Perché se tu
non sai la lingua non leggi neanche la medicina, non leggi la pagella di tuo
figlio, resti letteralmente senza diritti. Che è la più grande povertà: non
potere accedere ai diritti, non sapere nemmeno di averli. Per questo un giorno
abbiamo scritto loro una lettera per rivederli l'anno dopo a scuola". Dice così
quella lettera: "Vi insegneremo mille parole, centomila parole, perché nessuno
possa più annientare le vostre voci".
"Se abbiamo dei progetti? Certo che li abbiamo. Borse-lavoro, progetti sanitari,
la promozione anche del vino e del pane rom. Ma quali soldi, non abbiamo niente.
Piuttosto, sa che cosa ci sembra un po' orribile? Di essere diventate note
perché difendevamo i bambini. Ma perché, non sta scritto ovunque che bisogna
difenderli? E invece per qualcuno siamo un po' uno scandalo. Ma come, si
chiedono, come è possibile che della gente si voglia tenere gli zingari?".