Una segnalazione di
Tom Welschen
Settembre 7, 2008 di
Sergio Bontempelli
Tutti sanno che, accanto al flusso migratorio di rumeni verso l’Italia, ne
esiste uno opposto, di italiani che vanno in Romania: si tratta però di
un’immigrazione diversa, fatta prevalentemente di imprenditori che delocalizzano
le loro attività produttive in città come Timisoara. Sono in pochi a sapere
invece che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, molti italiani
sono emigrati in Romania, nello stesso modo in cui oggi i rumeni arrivano nel
nostro paese: come lavoratori edili, operai di fabbrica e umili salariati.
Quello proveniente dalla Romania è divenuto il principale flusso migratorio
diretto verso l’Italia: questo lo sanno tutti. Ma quanti sanno che nella storia
- tra l’altro in tempi relativamente recenti - è esistito il fenomeno inverso,
di italiani che andavano in Romania? E non si parla qui dell’emigrazione
attuale, fatta di imprenditori del Nord-Est che trasferiscono le proprie
attività in città come Timisoara, non a caso ribattezzata “Trevisoara”: si parla
di un vero e proprio flusso di manodopera salariata - operai, minatori, edili -
che dall’Italia partiva per la Romania. A far luce su questa storia
«dimenticata» è un recente volume sulle migrazioni rumene curato dalla Caritas
[Caritas Italiana, Immigrazioni e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e
prospettive, IDOS, Roma 2008].
I primi flussi verso la Romania cominciano nel XIX secolo: si tratta di
lavoratori dell’odierno Triveneto, diretti per lo più in Transilvania.
«L’Austria Ungheria», scrive Antonio Ricci, curatore del saggio sulle migrazioni
italiane pubblicato nel volume della Caritas, «tende a favorire le migrazioni
interne tra le regioni più povere e di confine» [Caritas, cit., pag. 59]. Le
prime partenze risalgono - pare - al 1821, quando alcune famiglie della Val di
Fassa e della Val di Fiemme (nel Trentino) vengono condotte nei monti Apuseni,
in Transilvania, a lavorare come tagliaboschi e lavoratori del legno per conto
di un commerciante austriaco di legname [Ibid., pag. 61].
L’emigrazione - in Transilvania, ma non solo - prosegue anche dopo l’unità
d’Italia: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, anzi, la Romania
diventa una meta secondaria ma tutt’altro che irrilevante per l’emigrazione
italiana. Si è calcolato ad esempio che alla fine del XIX secolo circa il 10-15%
degli emigranti partiti dal Veneto si sia diretto in Romania [Ibid., pag. 59].
Si è trattato, spesso, di migrazioni stagionali: una sorta di pendolarismo
transnazionale che ha trovato sbocco nell’edilizia, nella costruzione delle
ferrovie, in attività boschive o nelle miniere [Ibid., pag. 61]. Stando ai
censimenti del Ministero degli Affari Esteri, il numero di emigranti italiani in
Romania è quasi decuplicato nell’arco di tre decenni, passando dagli 830 del
1871 ai più di 8.000 del 1901 [Ibid., pag. 64].
Un «manuale» per l’emigrante italiano nei Balcani e in Romania, pubblicato nel
1910, si sofferma sulle procedure burocratiche necessarie per raggiungere il
paese: e qui le analogie con la situazione attuale - ma, ovviamente, a parti
rovesciate - sono impressionanti. Il Regio Commissariato dell’Emigrazione,
curatore del volumetto, raccomanda infatti di richiedere il passaporto -
opportunamente vistato da un consolato rumeno - e di stipulate un contratto di
lavoro prima della partenza: il datore di lavoro in Romania, d’altra parte, deve
munirsi dell’apposita autorizzazione all’ingresso per il proprio lavoratore, da
richiedere al Ministero dell’Interno. Si tratta di formalità burocratiche -
avverte il Regio Commissariato - senza le quali si rischia di venir respinti
alla frontiera dalle solerti autorità rumene di polizia [Ibid., pag. 60]. Sono
le stesse procedure burocratiche che l’Italia ha chiesto agli immigrati rumeni,
fino all’ingresso del loro paese nell’Unione Europea.
Proseguita nel periodo tra le due guerre mondiali (alcune stime hanno calcolato
la presenza in Romania, negli anni Trenta, di circa 60.000 italiani),
l’emigrazione è andata man mano esaurendosi negli anni Quaranta. Sono rimasti,
nelle città rumene, quegli emigranti che nel frattempo avevano rinunciato alla
cittadinanza italiana: a queste piccole comunità lo Stato rumeno ha
riconosciuto, all’indomani della caduta del regime comunista, lo status di
minoranza linguistica e il diritto ad essere rappresentate alla Camera dei
Deputati da un proprio parlamentare [Ibid., pag. 68]. «Trascorsi ormai un secolo-un secolo e mezzo dalla partenza», conclude il saggio pubblicato dalla
Caritas, «la vicenda degli italiani di Romania mantiene un carattere esemplare,
ancor più oggi che in Italia si assiste a un malumore diffuso nei confronti dei
rumeni».