«Se fosse vero che a causa dei nomadi gli altri bambini restano indietro, in
pochi anni avremmo chiuso. Invece... E poi abbiamo il riscontro delle scuole
medie. I nostri alunni non hanno nulla da invidiare agli altri, quelli che
vengono dalle altre scuole elementari. Anzi...».
A parlare è Antonio Perazzi, uno dei maestri della scuola elementare
"Francesco Baracca" di Mestre. Una scuola di frontiera, come di frontiera era
l'esperienza del pilota cui è intitolata, che andava su e giù per i cieli a
battagliare con quegli aerei di "carta" che si facevano nel primo '900.
Una multiformità che non si nota. Un dato solo: alla "Baracca", su una
settantina di iscritti, circa venti sono rom o sinti. Anzi, quasi tutti
sinti. O, per dirla che la capiscano tutti, zingari.
Sono i bimbi del vicino campo di via Vallenari, quello di cui si parla sui
quotidiani un giorno sì e l'altro pure perché si progetta di spostarlo e di
collocarlo in un'altrea area, appositamente attrezzata.
Però, entrando a scuola ci si rende ben poco conto, di primo acchito, di questa
sorta di record da Guinness: tutt'al più si osserva qualche bambino che ha la
pelle più scura. Ma sono gli stessi che all'intervallo stanno giocando insieme
ad altri dal colorito molto italiano. E anche in classe i ragazzini che potresti
immaginare di altra etnia sono sparpagliati qua e là per l'aula: scelta degli
insegnanti, che cercano di favore l'osmosi e scoraggiano la formazione di
gruppetti fissi, legati magari dall'etnia.
Quando poi cominciano ad aprir bocca e a fare domande all'ospite (il cronista),
vanno a raffica, senza distinzioni, curiosi anche di sapere quanto guadagna un
giornalista.
La "Francesco Baracca" è uno degli avamposti dell'integrazione. E anche se non è
tutto rose e viole, è un'esperienza di formazione e di condivisione culturale
che da anni sta dando lusinghieri risultati.
Alessandra Bressan, storica insegnante della "Baracca", dove ha passato
più di trent'anni, si ricorda bene la situazione degli esordi. Allora sì la
continuità della presenza a lezione degli alunni nomadi era una quasi-utopia. E
il senso della disciplina e il rispetto delle regole e degli orari erano ben
lungi dall'essere acquisiti.
Cos’è cambiato da trent’anni fa. Alessandra Bressan ha smesso di
insegnare pochi anni fa, ma la passione per la sua scuola e per questo cocktail
inusuale di umanità la tiene ancora avvinta al complesso scolastico che si trova
in fondo a via Bissuola: era lì anche per organizzare, qualche settimana fa, il
concorso "Io e gli altri", con la successiva premiazione dei disegni elaborati
dagli alunni.
Da trent'anni fa la "scuola degli zingari" è cambiata. Non nel senso di una
forzata assimilazione, ma in quello di un progressivo avvicinamento fiducioso:
«Si è via via creato un rapporto di fiducia con i genitori», sottolinea il
maestro Perazzi.
I segni del cambiamento possono sembrare piccoli, ma sono importanti: da qualche
anno i piccoli sinti si fermano a mangiare alla mensa scolastica; prima non
accadeva. Oppure tornano al pomeriggio, nelle giornate di rientro; prima non
accadeva.
E non accadeva neppure - ricorda il maestro Nerio Bellemo - che venissero
in gita. Adesso, invece, le mamme si fidano e, anche se mantengono un po' di
ansie iper-protettive, affidano i loro figli agli insegnanti: «Purché - aggiunge
qualcuna - lei, maestro, tenga mio figlio per mano».
Un saluto dalla curva. Parimenti, i papà sinti manifestano, magari un po'
a modo loro, il compiacimento di avere i propri ragazzi a scuola: all'intervallo
si avvicinano al cancello per fare un buffetto ai figli che giocano in cortile;
oppure passano in auto e dal curvone danno un colpo di clacson per dire ciao ai
bimbi.
E i nei? E le incomprensioni o le distanze culturali ? Non sono scomparse del
tutto. Anche se il nomadismo è sempre meno diffuso, capita anche oggi che
qualche famiglia del campo di via Vallenari ad un certo punto prenda su baracca
e burattini e se ne vada, anche per qualche settimana. Il che non fa certo bene
alla continuità didattica.
Ma la novità è che un bambino (è successo qualche mese fa) chiami al telefono il
suo maestro per dirgli: «Io voglio stare lì con te, nella mia scuola a Mestre».
Così anche le difficoltà linguistiche che, sia pure più contenute di un tempo,
persistono, sono controbilanciate da aspetti positivi: «Chiedo ai miei alunni -
esemplifica Bellemo - di aiutarmi a spostare i banchi o di prestare una matita a
chi se l'è dimenticata? I più gentili e più veloci sono i nomadi».
Di buono perfino gli odori. Certo, bisogna che gli insegnanti siano
uniti, appassionati. Non è che alla "Baracca" ci debbano essere dei maestri con
una marcia in più: in tante altre elementari - anche se la cosa non finisce in
prima pagina - ci sono educatori competenti e generosi.
Ma alla "Francesco Baracca" bisogna aver presente che si è comunque immersi in
un'esperienza pilota. Perdipiù, in una scuola piccola, si instaura un clima di
comunità. Se ne fa portavoce Antonio Perazzi: «Con i colleghi si è costruita una
vera sintonia. Ma se devo dire perché io mi trovo bene ad insegnare qui, dico
che è perché ritrovo la spontaneità, la freschezza, quel modo affettuoso e
riconoscente di fare che vedevo negli alunni delle mie prime esperienze da
maestro, quando, in un paese delle colline emiliane, insegnavo in una scuola di
campagna pluriclasse: 7 bambini dalla prima alla quinta. Perfino gli odori - di
fresco e di aperto - ho ritrovato nelle classi qui alla "Baracca"».