Mi chiamo Yvonne Slee e faccio parte della comunità romanì di Coffs
Harbour. Sono migrata in Australia nel 2005, arrivando dall'Europa. Impiego il
mio tempo, sin dall'arrivo in Australia, come scrittrice, attivista ed
educatrice.
La foto di una romnì e della sua famiglia è stata scattata nel 1907, poco
dopo il loro arrivo a Brisbane su di un battello salpato dalla Grecia.
Foto esemplare, che si potrebbe adoperare per l'Open Project ABC Now
and Then, volto a mostrare la storia di una comunità australiana.
La storia dei Rom data almeno 1000 anni addietro al tempo del loro esodo
dall'India, dove gli invasori islamici, guidati da Mahmoud of Ghazni,
allontanarono a forza i nostri antenati dalla patria natia. Altre informazioni
potete trovarle sul mio
sito dedicato
alla storia delle comunità rom e sinti.
I Rom hanno trascorso centinaia di anni nell'Europa delle perduranti guerre,
attraverso mancanza di comprensione per la nostra cultura, pregiudizi e
difficoltà. Cercavano un futuro migliore per loro ed i loro figli. I Romnì erano
sulle navi che per prime arrivarono in Australia nel 1788, e da allora sono
stati migranti.
Dopo la II guerra mondiale, molti Romanì guardavano all'Australia come una
nuova patria, arrivandovi con barche da 5 kg., portando seco le loro capacità di
calderai, artigiani del legno, ramai ed addestratori di cavalli.
Negli anni '50, '60 e '70 si sono visti accampati sulla costa orientale
dell'Australia, in posti come Nudgee Beach vicino a Brisbane e sulla costa Nord
Sud ovest da Orange fino a Mildura.
Usavano grosse macchine americane per trainare le loro grandi carovane
argentee, dove vivevano mentre svolgevano lavori stagionali presso fattorie,
orti, stalle o viaggiando con le fiere di divertimento, accampandosi in tendoni.
Quei giorni nomadi sono ormai finiti da tempo. La maggior parte dei Romanì
residente in Australia vive e lavora in città e paesi di tutto questo suo vasto
continente. Non pochi hanno studiato sino all'università, diventando professori
ed insegnanti.
Mio marito e io siamo entrambi Romanì, e viviamo a Coffs Harbour con i nostri
tre figli. Siamo arrivati in Australia nel 2005 dall'Europa. Mi piacciono le
nostre tradizioni, molte delle quali di radice indiana. La mia preferita è la
cucina romanì, che con quella indiana condivide l'uso di svariate spezie.
Mi piacciono anche i balli e le canzoni ed imparare la nostra lingua. La
parola romanì discende dal sanscrito, e così molti vocaboli della nostra lingua.
Abbiamo centinaia di parole hindu usate nel romanés.
Ci sono 12 milioni di romanì che vivono in Europa, 2 milioni nelle Americhe e
circa 25.000 in Australia. Sono orgogliosa di essere una di loro.
Ora sono cittadina australiana e ritengo che l'Australia continuerà a
beneficiare dell'avere una società multiculturale, dove le varie ed interessanti
differenze tra tutte le culture creeranno una maggior tolleranza e comprensione
nel nostro mondo e tra le persone che vi convivono.
Di Fabrizio (del 29/02/2012 @ 08:58:28, in Kumpanija, visitato 2606 volte)
Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono
oppresse e amare quelle che opprimono!(immagine da Terraelibertacirano.blogspot.com)
Conosco amici e compagni che sono convinti che il razzismo sia un patrimonio
degli imbecilli... il ché vorrebbe dire che se qualcuno è minimamente
intelligente-istruito, non dovrebbe essere razzista.
Visto che non sono d'accordo su questa affermazione, ho provato a dare delle
spiegazioni a me stesso:
quella più semplice era che, dato che chi lo pensa è di
solito antirazzista, trova più diplomatico affermare di non
essere razzista, piuttosto che dire di essere intelligente, col
rischio di essere smentito prima o poi;
del razzismo comunemente inteso, percepiamo gli aspetti
eclatanti (le fiamme date ad un campo rom, la mensa comunale
negata ai figli di stranieri, certe dichiarazioni sanguigne
oltre gli steccati penali). Più a fatica individuiamo il brodo
di coltura di questi fenomeni.
Se ripenso, ad esempio, a come fu possibile la mobilitazione
del III Reich contro gli Ebrei, vedo invece che gli
intellettuali svolsero un ruolo chiave nel prepararla. Göbbels
(non era l'ultimo arrivato) ben prima che il nazismo si facesse
stato, intuì il ruolo dell'informazione (che in seguito
passò alla scuola) come veicolo
anestetizzante della propaganda; era già successo in passato, ma
lui fu il primo ad adoperarla in maniera cosciente e
sistematica. Parimenti intuì ed applicò il ruolo di braccio
armato da delegare ai gruppi paramilitari. Quando le sue
intuizioni da teoria si fecero pratica, la macchina dell'odio
era un meccanismo così oliato che dalla guerra agli Ebrei passò
alla guerra mondiale.
Passando dai ragionamenti alla pratica, lo spunto arriva da
Reggio Emilia. Doppiamente interessante perché il network a cui fa capo la
testata, si chiama
4minuti.it: vale a dire il tempo che mediamente un lettore distratto dedica
a leggere e digerire una notizia.
Ma torniamo alla nuda cronaca, titolo e sottotitolo recitano:
Rom, dopo l'aggressione di Massenzatico "Il Comune non si limiti alla
solidarietà" La Lega Nord: bisogna fare rispettare la legalità
Di che si parla? Per motivi banali, qualche sera fa c'è stata una
rissa in un locale del Reggiano. Un frequentatore è stato malmenato da un gruppo
di "supposti nomadi". Si ignora chi siano gli aggressori.
Dopo queste indicazioni, l'articolo prosegue citando (oltre metà del pezzo
totale) una dichiarazione di un consigliere comunale (il partito di appartenenza
non mi interessa) da cui veniamo a sapere che la macchina degli aggressori è
stata ritrovata abbandonata nei pressi del locale "campo nomadi".
Il tono generale della dichiarazione è fermo, ma nel contempo civile ed
educato, niente a che fare con le sguaiatezze di un Borghezio, di uno Speroni o
un Calderoli. Difatti il consigliere termina il suo ragionamento con questa
frase, che chiunque potrebbe condividere: "Il rispetto della legalità è il
primo requisito per la convivenza civile tra le persone, e Reggio non può e non
deve tollerare in alcun modo che certi fatti rimangano impuniti".
E' però la penultima frase che ci riporta nel cortocircuito mentale del
piccolo razzismo trasmesso in quattro minuti. Con lo stesso tono civile, si
dice: "Qualora si accertassero responsabilità o anche solo connivenze o
favoreggiamenti da parte di ospiti del campo nomadi di via Gramsci, da parte del
Comune mi auspico che vengano presi i provvedimenti di cui al regolamento dei
campi nomadi, e che a Reggio non ci sia alcuna ospitalità per questi individui".
Spiazzante quel "qualora" iniziale: non vi suonerebbe fuoriluogo se al posto
di una comunità rom o sinta, fosse riferito a qualsiasi altro gruppo etnico? Se
il regolamento prevede l'espulsione dei colpevoli ("presunti" tali o dopo essere
passati in giudicato?), sapreste dirmi se conoscete un regolamento analogo per
le case comunali, dove se qualcuno compie un crimine, o è semplicemente
sospettato di esserne l'autore, perde il diritto alla casa? Nel vecchio
regolamento del comune di Milano (decaduto
lo scorso novembre), perderebbe il diritto alla piazzola di sosta l'intera
famiglia del presunto colpevole.
La chiave è in un altro frammento di dichiarazione: "Sono anni che i
cittadini di Massenzatico e di Pratofontana subiscono passivamente gli effetti
negativi di una convivenza intollerabile con la comunità nomade, nel silenzio
delle istituzioni..." da cui discende il "legittimo sospetto" che
l'aggressione nel locale sia la scusa per un regolamento di conti ben più grave,
per cui una comunità debba pagare le colpe dei singoli, ANCHE IN ASSENZA DI COLPA PROVATA.
Vorrei terminare questi pensieri, invitandovi a non chiedervi se ho
parlato o meno di razzismo. Non è un razzista dichiarato chi ha fatto quelle
affermazioni, ma credetemi, non lo sono neanche Borghezio, Gentilini, non lo era
neanche Göbbels... solo vogliono fortemente che lo diventiate voi.
Come sapete, nessun razzista ammetterà mai di essere tale.
Sono (stati) tutti attori, recitano una parte con diversi comprimari e
spettatori paganti, al solo scopo di alimentare la continua macchina dell'odio.
Sanno che la paura, il risentimento, l'incertezza fioriscono, mai come in questi
tempi, e quindi parlano e ci manovrano di conseguenza. Ma in fondo, dipendesse
da loro non farebbero male ad una mosca... ci sarà sempre chi svolgerà il lavoro
sporco in vece loro.
Di Fabrizio (del 30/01/2012 @ 09:21:21, in Kumpanija, visitato 2872 volte)
Non è una bella parola in lingua romanì: significa divoramento, smembramento; e
qualcuno preferisce la parola "Samudaripen", genocidio, senza dubbio
più oggettiva, ma anche meno carica di significati simbolici.
Se la prima si intende come una specie di stupro collettivo, la
seconda credo che sia posteriore ai fatti narrati: insomma le elites
intellettuali romanì hanno dovuto adattare-inventare un termine per descrivere
qualcosa che i Rom e i Sinti "normali" non erano in grado di concepire, come
somma di violenza e di cui neanche comprendevano la ragione.
Non sono in grado di fare statistiche approfondite, ma almeno in Italia quasi
ogni famiglia ha avuto un parente internato o ucciso e per molti anni non se ne
fece cenno: da una parte per le reticenze e l'ignoranza della storiografia
ufficiale, dall'altro per la vergogna (molto privata) con cui le famiglie
conservavano quella memoria.
Furono i Sinti tedeschi che verso la metà degli anni '70 iniziarono a far
luce su un sistema di annientamento fisico e morale, organizzato in
maniera scientifica e massiva.
Però non basta che una notizia sia conosciuta, non basta parlarne (magari
per una settimana), perché resti qualcosa anche il resto dell'anno. Ma
stavolta non intendo tornare sulle ragioni storico-politiche di un dopoguerra
che non passa, visto che è un argomento che qui viene trattato sino alla nausea.
Torno al divoramento e a tutti i simboli connessi. Al vuoto che è rimasto
dopo e all'incapacità dei nostri sistemi democratici di costruire una società
inclusiva. Un vuoto che da una parte è stato riempito di vergogna e pudore,
dall'altra la società maggioritaria (quella degli inclusi) ha imparato a
convivere con i propri
buchi neri della memoria.
Abbiamo anche noi la nostra vergogna: quella di scoprire il filo che lega la
storia di 70 anni fa, con gli sgomberi e i piccoli e grandi razzismi quotidiani.
Come in tempo di guerra, c'è chi vede le discriminazioni attuali e preferisce il
silenzio, perché nonostante la nostra presunta evoluzione da allora, abbiamo
sempre paura di essere additati come irriconoscenti a questo sistema che non ci
ha permesso di evolvere, ma al limite di arricchirci. E nel contempo, ci
consente di avere un capro espiatorio su cui sfogare i nostri
corto circuiti.
Il vuoto, nuovamente, crea e si nutre del DIVERSO. E la paura fa chiudere gli
occhi. L'importante è non doverlo ammettere, perché la nostra sicurezza potrebbe
collassare come un castello di carte.
Succede allora che la marea di notizie che ci circondano, la scoperta che il
Porrajmos è effettivamente avvenuto (nel nostro caso), perde la sua
oggettività, e le notizie diventano come pedine di una partita a scacchi. Senza
la conoscenza dell'ALTRO, il Porrajmos viene ridotto ad una disputa, dove pari
sono chi lo ricorda e chi lo nega.
Non mi sorprende che allora ci sia qualcuno che in questo mercato delle
notizie, dove gira di tutto a grande velocità e in centinaia di piazze
mediatiche, per [noia, insicurezza, voyerismo ecc.] alzi ancora di più la voce,
credendosi dissacratorio ed abbassandosi a fare l'ultra negazionista: il troll
della situazione o il Borghezio in brufoli e pantaloni corti.
Anche lui è figlio del divoramento, deve riempire il suo vuoto, inventandosi una propria superiorità.
Sognandosi una guerra personale da cui poter uscire vincitore.
Per lui, ho rubato queste considerazioni finali:
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente. Bertold Brecht
Di Fabrizio (del 24/01/2012 @ 09:47:45, in Kumpanija, visitato 1437 volte)
Il consiglio di Zona 4 per il Giorno della Memoria - Due importanti
iniziative promosse dalla Commissione Cultura:
WOW Spazio Fumetto – Museo del fumetto – viale Campania, 12 - dal 21 gennaio al
5 febbraio 2012 – due percorsi-espositivi che - utilizzando il linguaggio del
fumetto – parlano della tragedia delle persecuzioni nazi-fasciste.
Verranno esposti - attraverso una selezione e lettura ragionata di un
significativo numero di pagine - "Maus – Racconto di un sopravvissuto" di
Art Spiegelman e "Giorgio Perlasca – Un uomo comune" di
Ennio Buffi e Marco Sonseri.
La presentazione del materiale selezionato ha un taglio intenzionalmente
didattico, per facilitare la comprensione di un periodo tra i più dolorosi della
storia.
Nell'ambito delle esposizioni, domenica 22 alle ore 16 si terrà un incontro con
le Associazioni che rappresentano i deportati nei campi di steminio e
sopravvissuti alla Shoah.
Data la particolarità dei temi affrontati, l'ingresso alle suddette esposizioni
sarà gratuito.
Venerdì 3 febbraio – Teatro della XIV – via Oglio 18 – ore 20,45
Musica e Parole dal Mondo un ciclo di spettacoli, un filo conduttore: le tante
voci, le diverse anime e la preziosa pluralità di culture che popolano Milano promosso dalla
Commissione Cultura del Consiglio di Zona 4, presenta PORRAJMOS DIMENTICATO
in occasione della Giornata della Memoria incontro con la Comunità Rom di Zona 4
Introduzione musicale di Alessio Lega
Presentazione a cura di Opera Nomadi e del Museo del viaggio "Fabrizio De André"
di Rogoredo
con Mirko e Giorgio Bezzecchi e Maurizio Pagani
Proiezione di Porrajmos, filmato sulla deportazione Rom e Sinti nei campi di
internamento e di sterminio e di un documentario storico sulla famiglia
Bezzecchi negli anni '50 a Milano.
Esibizione del gruppo musicale I Muzikanti di Balval diretti dal Maestro
fisarmonicista Jovic Jovica che animerà l'incontro con musiche e balli della
tradizione balcanica.
Una delle persone recentemente identificate come vittime del capovolgimento
della nave Concordia, è il trentottenne violinista Sandor Feher. Il
ministero degli esteri ungheresi ne ha confermato la nazionalità.
Sandor Feher, la prima vittima dell'incidente identificata ufficialmente,
lavorava sulla nave come violinista. L'Associated Press riferisce che sua madre
l'ha identificato in Italia.
Si dice che il violinista abbia aiutato a fornire di giubbotti di salvataggio
i bambini che piangevano durante l'evacuazione. Sia poi tornato in cabina per
recuperare il suo violino. Il pianista Joszef Balog avrebbe confermato che
indossava anche lui un giubbotto di salvataggio mentre decideva di tornare in
cerca del suo strumento.
Feher proveniva da una famiglia di musicisti. Anche suo padre e suo nonno
erano violinisti. Iniziò a suonare a sei anni e si laureò nel 1998 all'Accademia
Musicale Franz Liszt di Budapest. Ha trasmesso l'arte del violino ai suoi
allievi, insegnando a bambini tra i 6 e i 20 anni col metodo "ABC" sviluppato
dal suo maestro, László Dénes, e da altri musicisti. Il sistema è molto
conosciuto in Germania ed Ungheria, e Sandor lo descriveva come un metodo che
comprende canzoni folk da tutto il mondo. Il violinista stava progettando di
insegnare violino all'estero e "usare questo metodo per formare una nuova
generazione di violinisti".
iDNES.cz, violinist.com, ih, translated by Gwendolyn Albert
Di Fabrizio (del 02/01/2012 @ 09:06:46, in Kumpanija, visitato 1626 volte)
Sul valico. Foto da geoportale.caibergamo.it
1 gennaio 2012: mi sveglio nel mio letto, da solo. Ricordi confusi della serata
precedente.
Bisogno di un caffè come si deve, al bar. Per strada, una distesa di serrande
abbassate. Voglio una conferma di dove mi trovo e so dove cercarla. Vado alla
torre del
binario 21, in Stazione Centrale, dove si abbracciano 100 anni di storia,
simboli e lotte di questa città. Milano, un'altra volta riparto da qua.
31 dicembre 2011: tutto è iniziato verso le 16.30, con
panettone, peperoni ripieni e 3 montenegro (più mixité di così!)... ci voleva
poco a capire come sarebbe continuata la serata. Giro tra le piazzole, un
abbraccio e un bicchiere. I falò accesi rivelano se in questo momento la
famiglia sia povera o ricca. Si ride, si chiacchiera (quando la musica lo
permette), la regola è che devi sentirti come a casa tua, anzi meglio. Ma il
mezzo non sono il vino, il cibo, le canzoni, piuttosto un mezzo sorriso che
traduci come un abbraccio vero.
Fuori
lontano dai fuochi fa freddo, nelle baracche le stufe vanno a tutto volume:
una continua sauna finlandese, solo i bambini corrono qua e là incuranti dello
sbalzo termico.
Amici, parenti e conoscenti si susseguono da una piazzola all'altra, in un
corteo incessante, che stabilisce chi è parte della tua gente, quelli su cui
forse potrai contare.
Entro in un grande container familiare, la tavola apparecchiata, 3 o 4
famiglie sono sedute. Il via vai continua. Musica a palla anche qui, ballano i
maschietti in giacca e cravatta e le femminucce vestite da principesse. Il rito
di far parte per una sera del mondo degli adulti. Anche i grandi che col tempo
hanno imparato a fingersi persone serie come i gagé, si lasciano andare,
cantano, fischiano, accennano un movimento del bacino o un passo di tango.
Stasera non devono fingere: è il momento di ribadire, anche davanti a chi continua ad
arrivare in visita, la propria identità e le proprie radici, in un casino inenarrabile e
liberatorio.
Io, da sempre negato per ballare, batto il ritmo sul tavolo e con i piedi.
Ridiamo: ma ti immagini fare una cosa del genere in un appartamento?
In quella baraonda, ho la netta sensazione di essere una comparsa in un film
di Kusturica, e di conoscere tutti gli attori. E' la realtà, invece, che si
ripete nei secoli in ogni dove sia arrivata questa gente.
29 dicembre 2011: parlando, anche dei problemi seri, emerge
qualcosa di nuovo in questo festeggiare: due giorni prima c'era stata una
riunione pubblica sul destino dell'insediamento. Abbiamo lavorato bene per un
anno, anche fuori dal campo, e siamo riusciti a riempire la sala della riunione
di tanti cittadini che, sorpresa sorpresa, erano lì a difendere i loro rom ed il
loro futuro. Rispettosi ma determinati. Con l'assessore che sinceramente non se
l'aspettava, ma anche i Rom presenti che si guardavano intorno stupiti.
I segnali c'erano... prima e dopo natale tanta gente del quartiere, molti
sconosciuti, è arrivata in quest'angolo dimenticato di Milano, anche solo a
stringere una mano, farsi un caffè o un bicchiere di vino, e dire
silenziosamente che non si era soli.
E ripenso alla strada percorsa in quest'anno, agli sforzi comuni per
abbattere, prima dei ghetti fisici, quelli mentali. Ai tanti Carlo, Paolo,
Laura, Cesare, Stefania, Antonio, Marco, Marina... che nonostante i dubbi ed i
problemi, ci hanno creduto ed hanno tenuto la rotta.
Se altrove il vento nuovo su Milano fatica a farsi sentire, la nostra piccola
primavera di via Padova (tutta, da Loreto sino alla Gobba) sta resistendo
all'inverno. Si continua a credere che E' POSSIBILE migliorare SOLO assieme, e
per farlo abbiamo dovuto imparare a parlarci da pari a pari. Non è stato così
con tutti, dice chi non ci crede... ed ha ragione. Ma c'è chi continuerà.
Parlandoci, vedendoci, siamo cambiati. La mia gente forse ha meno paura del
diverso. Qualche rom ha imparato che non si deve sempre fuggire o abbassare la
testa; cambiare non significa per forza spostarsi se non lo si vuole, cambiare
significa magari trovare il coraggio di lottare anche per restare.
Anche se non sarà (mai) facile. Continuavo a ripeterlo il 31: stavolta abbiamo
portato a casa il punto, ma non è finita. Dopo questo valico, nel nostro viaggio
da fermi, ce ne aspettano altri.
31 dicembre 2011: mi dice un amico: "A mezzanotte arriva il
cotechino con le lenticchie. Se vuoi, poi ti fermi a dormire da noi".
"Grazie fratello, ma ho bisogno di fare due passi. Ci vediamo dopo." Ed
invece passo dopo passo mi sono trovato davanti al portone di casa.
E adesso che ho riordinato i ricordi, un buon anno a tutti BAXTALO NEVO
BERSH SAVORRENGE.
Di Fabrizio (del 01/01/2012 @ 09:54:34, in Kumpanija, visitato 2200 volte)
immagine da barriodecuba.altervista.com
L'isola è conosciuta di sicuro, per diversi motivi, talvolta antitetici.
Alcuni anni fa raccolsi in italiano del materiale sulla presenza dei Rom a Cuba.
M'è venuta voglia di riproporlo. Per rispetto, inizio con Jorge Bernal, studioso
argentino che per anni ha documentato la presenza di Rom e Kalé nell'America centrale e
meridionale.
Seguono due pezzi, uno dell'agenzia ufficiale Granma e l'altro dell'Havana
Journal, un'agenzia web anticastrista. La cosa divertente di questa storica
contrapposizione politica è che i due pezzi sono quasi identici, anche se si
guardano bene dal citare le informazioni della "concorrenza".
Si sa poco del passaggio di alcune famiglie Rom che arrivarono a L'Havana
all'inizio del 1900 e negli anni '20.
…erano un gruppo coeso e imparentato tra loro, uniti da linguaggio, tradizioni e
professioni comuni. Mantennero questa unità a Cuba e negli altri paesi americani
in cui arrivarono. Questo garantì ovunque la loro sopravvivenza, come emerge in
questa storia molto conosciuta.
Come Dio creò gli esseri umani Sapete come Dio creò gli esseri umani? Ve lo racconterò: prima fece la terra
e tutte le cose che esistono: gli alberi, l'erba, gli animali…
Ma si sentiva solo, e così creò anche gli esseri umani. Modellò del fango e lo
mise a cuocere, ma se ne dimenticò e quando lo estrasse dal forno, era tutto
bruciato. Quello fu l'antenato del popolo nero. Non contento di questa sua
creazione, fece un altro modello. Questa volta lo tolse subito dal forno e la
statuetta era molto chiara. Divenne l'antenata del popolo bianco, i Gadjé. Fece
poi un altro tentativo e stavolta calcolò con precisione i tempi di cottura.
L'ultima statuetta era cotta a puntino e divenne l'antenato di tutti i Rom.
La leggenda riflette il sentimento dell'orgoglio che i Rom provano per la loro
origine etnica, e che tutte le comunità hanno sempre difeso. I Rom si
riconoscono in ogni paese perché hanno mantenuto precisi valori culturali,
etici, estetici propri. In ogni posto dove sono arrivati, hanno mantenuto la
loro autenticità e personalità, cercando di adattarsi ai diversi codici sociali.
Numeri e attitudine
I Rom a Cuba saranno 200, forse di meno. Sono comuni i matrimoni misti, perché
le famiglie estese saranno due o tre. Un gruppo era composto da soli uomini e
sposò donne cubane. Secondo la tradizione i discendenti seguono la linea paterna
e le famiglie hanno mantenuto le tradizioni e la lingua Romanes. Molti hanno
lasciato Cuba per ricongiungersi ai parenti in Venezuela e in altre parti del
continente e mantenere le proprie tradizioni. Durante la permanenza a Cuba,
avevano creato una cooperativa famigliare per il lavoro dei metalli, che in
seguito fu assorbita dallo stato.
La maggior parte delle famiglie miste è rimasta a Cuba (una sola andò in
Argentina) e hanno mantenuto una cultura mista. La lingua comune è lo spagnolo,
ma riconoscono parecchi termini nella lingua romanes. Si considerano cubani di
sangue Rom.
…
Durante le prime decadi del XX secolo, molte famiglie Rom arrivarono a Cuba,
provenienti dall'Europa centrale e orientale, mantenendo il proprio sistema
sociale di famiglia allargata. Il matrimonio è endogamo e deciso dalle famiglie,
ai neonati è d'uso dare il nome degli antenati, per rispetto a chi diede origine
al gruppo o clan (vitsa), gli anziani fanno anche parte dell'assemblea chiamata
"kris", che per i Rom è la più alta struttura di legge e giudizio. Questa
organizzazione è stata gelosamente salvaguardata e trasmessa di generazione in
generazione, come in altri paesi americani ed europei, sino alle seconde/terze
generazioni di Rom nati a Cuba.
Le famiglie che arrivarono a L'Havana si accamparono in una zona periferica che
oggi si chiama Lawton. Era abitata allora da operai e piccoli artigiani. I Rom
si mantennero però distanti dal nucleo originario, costruendosi per conto loro
povere baracche di legno.
Nel nucleo originario si ricorda una famiglia estesa di nome Cuik, proveniente
dalla Russia. Arrivarono a più riprese tra il 1912 e il 1924. Sino alla fine
degli anni '40 vissero nelle loro tende.
Questo gruppo di esotici immigranti trovò a Lawton un clima di accettazione e
riconoscimento sociale. Secondo i discendenti nessuno li disturbò mai e loro
stessi vissero senza creare disturbi.
Crediamo anche che l'accettazione fu dovuta allo sviluppo che questi Rom diedero
alla piccola metallurgia, attività che era particolarmente apprezzata nella Cuba
di quei tempi. Una delle discendenti, che attualmente vive in Venezuela,
racconta che anche dopo la rivoluzione non si sentì discriminata in alcun modo,
anzi fu pienamente integrata nella forza lavoro dal nuovo regime e molti degli
abitanti stanziali continuarono a frequentarla in cerca dei suoi pareri e
consigli.
Nell'accampamento, continuarono con le occupazioni tradizionali: gli uomini
nella piccola metallurgia e le donne come indovine.
Status sociale di uomini e donne
Nella tradizione Rom le donne acquistano rispetto sociale dopo il matrimonio,
con la possibilità di creare una nuova famiglia. E' una dinamica sociale che si
è mantenuta anche nel caso di famiglie miste; come anche quella di investire la
donna del mantenimento delle finanze famigliari (il capitale costituito dalla
cassa, dai gioielli e dall'oro, a cui i Rom attribuiscono anche proprietà
mediche). Nella lingua tradizionale è il "galau" e alle donne (le romnià) spetta
il compito di preservarlo e accrescerlo.
Diventando anziane, a Cuba e altrove, cresce il loro prestigio e vengono
consultate dalla kris (vedi sopra).
A Cuba le romnì possono studiare e divorziare senza subire rivalse dal resto del
loro gruppo.
Le famiglie miste hanno mantenuto anche la celebrazione tradizionale dei morti,
"la pomana". E' un pasto offerto in onore del morto – nove giorni dopo la morte,
sei settimane, sei mesi e poi nella ricorrenza annuale. Per l'occasione viene
vuotata una coppa di vino o di acqua a favore del morto, che per quanto
invisibile, rimane presente. Quando sono presenti immagini del morto, c'è l'uso
di mettere un bicchiere pieno di fronte alla foto o al quadro, per far piacere
alla sua anima. Oppure, nelle riunioni famigliari [i morti] sono invitati a
condividere quanto bevono gli altri invitati.
I gitani sbarcarono a Cuba, in Brasile e in tutta l'America Latina sicuramente
assieme ai primi colonizzatori spagnoli e portoghesi, dalle caravelle dei conquistadores… scrive il professore brasiliano Atico Vilas – Boas. E per questo
anche la vita cubana è permeata da questa cultura leggendaria
Con la loro pelle scura e strane abitudini, i gitani hanno sempre suscitato
curiosità: vengono chiamati anche Gipsy, Tzigani, Yeniche, Zingari e sono
vittime di malintesi e di persecuzioni. Hanno sempre resistito tenacemente per
la conservazione della loro personalità e autenticità esotica.
Sono vincolati al nomadismo, alle carovane, ai cavalli, le tende, le grotte, le
caverne, carri e carretti, vagoni, accampamenti, strade e campagna aperta…
Sono cestai, toreri, lavorano lo stagno, fanno gioielli, predicono la sorte,
sono musicisti e suonano in quartetti di chitarre; le loro espressioni vocali
propongono lamenti lontani e raccontano le pene e le arroganze di
un'emarginazione che è divenuta un'opera d'arte attraverso la prodigiosa e
millenaria tradizione dell'Andalusia, una delle più interessanti del mondo,
racconta lo scrittore spagnolo Felix Grande.
Buona parte della musica popolare cubana e latino – americana è nata in questo
mondo periferico, umile e disprezzato dalle classi aristocratiche. Ricordiamo il
tango, il samba, il merengue, i mariachis, il calipso, la bomba, il porro, il
joropo, il son, il bolero, la rumba, la guaracha, la conga…
L'origine dei gitani è stata misteriosa per secoli, ma gli specialisti di oggi
non hanno dubbi che sono originari dell'India nell'anno mille circa e questo è
stato provato grazie alla loro antropologia, la medicina, l'etnologia e la loro
lingua.
Cuba ha ricevuto i gitani per più di cinque secoli. Lo specialista d'arte,
Antonio Alejo Alejo, racconta che era abituale vedere gli indù lavorare nella
zona del porto dell'Avana.
La maggior ondata di gitani giunse a Cuba a partire dal 1936, in fuga dal
franchismo, con la guerra civile spagnola. Poi vennero i fuggitivi dai terribili
campi di concentramento nazisti.
La scrittrice Renée Méndez Capote dedica uno spazio ai gitani nel suo libro "Una cubanita che nació con el siglo" e in un numero della rivista Carteles del 1940
si legge un reportage che informa che i gitani si erano rifugiati nella zona
delle colline di Lawton.
Molti usarono l'isola come una base per poi raggiungere altri paesi, ma diversi
si integrarono alla vita di Cuba, che è sempre stata una nazione molto ospitale.
Joventud Rebelde l'anno scorso ha pubblicato un articolo sulla presenza dei
gitani, su come vivono questi discendenti eredi delle famiglie giunte negli anni
'20, che qui incontrarono il solo paese che permise loro di trascorrere una vita
tranquilla.
Qui ci sono abitudini e modi di vestire, parole, attrazioni nei circhi, nelle
fiere, le feste e carnevali, nel gergo musicale attuale della musica ballabile o
salsa; nel filin degli anni '40 – 50 troviamo parole come jama (cibo), curda
(ubriaco), puro (padre). Tra i dolci c'è il braccio gitano!
La moda dei giovani d'oggi è permeata dalle abitudini gitane: bracciali,
catenelle ai piedi, collane, fazzoletti alla cintura e in testa, vestiti
colorati, grandi anelli.
"Ma dov'è la verità gitana? Da quando ricordo io vado per l mondo con la mia
tenda e cerco amore e affetto!" Ras e Sedjic.
Negli ultimi tempi le storie sugli Zingari sono di moda nelle soap operas di
prima fascia televisiva alla televisione cubana.
Questo ha risvegliato domande da parte di molte persone sull'isola che – anche
se consapevoli dell'influenza esercita dalle culture straniere nella formazione
della nazionalità cubana – non erano sinora consci che nelle loro vene potesse
scorrere anche sangue zingaro.
Viceversa, le nostre radici africane sono talmente manifeste, che esiste un noto
detto per cui se un cubano non ha sangue congolese, sicuramente ne ha di Calabar
(ndr: esiste Calabar sia in Nigeria che in Giamaica, penso si riferisca a ciò),
questo significa che a Cuba non c'è modo di evitare di essere razzialmente
mescolati.
La comparsa di una cultura cubana non è dovuta solo al contributo di africani e
spagnoli, anche altre gruppi etnici hanno avuto il loro ruolo.
La storia mostra che nelle prime decadi del secolo scorso, masse di zingari
immigrarono nell'isola, mentre per altri studiosi la loro venuta risale ai primi
giorni della colonizzazione spagnola.
Ancora, per quanto qui gli zingari siano stati meno discriminati che altrove, lo
stesso nel 1930 fu varata una legge per impedire la loro entrata nel paese.
Legge che comunque fu largamente aggirata.
Nei ricordi degli anziani la loro presenza si lega a storie di indovini, donne
che indossano colorati orecchini, braccialetti e collane; uomini di bell'aspetto
che montano e smontano le loro tende.
Pedro Verdecie, avvocato in pensione e storico – che risiede nella provincia
orientale di Las Tunas, si ricorda di gruppi di uomini e donne accampati in
quell'area.
Dice Verdecie che questi nomadi praticavano la vendita al minuto di vari beni e
che talvolta furono coinvolti in attività illegali, riuscendo comunque a
instaurare un rapporto con la popolazione stanziale e scambiandosi costumi e
tradizioni.
Nonostante la mancanza di documenti ufficiali che provino il passaggio degli
zingari sull'isola, la verità è che in questi giorni i cubani sembrano aver
iniziato ad apprezzare l'impronta degli zingari all'identità nazionale, col loro
fascino vagante di bohemiennes.
Di Fabrizio (del 20/12/2011 @ 09:28:01, in Kumpanija, visitato 1462 volte)
Dopo i recenti avvenimenti che hanno coinvolto i Rom che abitano nella Cascina
Continassa di Torino, occorre aiutare e supportare in questo tragico momento le
famiglie che hanno perso l'unica casa che conoscevano.
Superata la prima emergenza, è prioritario ridare dignità e speranza a uomini,
donne e bambini che, in pochi istanti, hanno visto andare a fuoco tutta la loro
vita e che ora si trovano ad affrontare il freddo e la disperazione di non avere
più niente.
Di grande aiuto sono stati, in questi primi giorni, coloro che hanno portato la
loro solidarietà e che hanno contribuito a migliorare le condizioni materiali in
cui si sono ritrovate a sopravvivere le vittime dell'attacco razzista: le
associazioni di volontariato, le autorità politiche e religiose, i funzionari
pubblici e, soprattutto, i tantissimi cittadini fra i quali molti residenti nel
quartiere da cui si è mosso il corteo che ha assaltato il campo nomadi.
Adesso è però necessario dare un indirizzo alla spontanea solidarietà dei tanti
che ancora vorrebbero manifestare concretamente la loro solidarietà.
Le famiglie rimaste nella cascina hanno una enorme, principale, necessità:
un'ABITAZIONE VERA nella quale poter vivere dignitosamente.
Per questo motivo facciamo un appello ai cittadini, alle associazioni, agli enti
religiosi e alle istituzioni affinché si adoperino per l'unica vera soluzione
alla gran parte dei problemi innescati dalla presenza di campi nomadi nelle
città: un'abitazione per le poche famiglie costrette a restare nel luogo in cui
sono state aggredite e messe in pericolo di vita.
Si tratta di 3 famiglie, 7 persone in tutto, quelle che hanno finora trovato il
coraggio di rivolgersi alla Magistratura per ottenere quella giustizia che gli
aggressori hanno tentato d'oltraggiare durante il linciaggio.
Chi vuole dare il suo sostegno può:
mettere a disposizione locali per l'ospitalità delle famiglie;
offrire un lavoro;
versare un contributo economico al Centro Studi Sereno Regis di Torino
specificando la causale AIUTO FAMIGLIE ROM INCENDIO CONTINASSA:
con bonifico sul conto corrente postale 23135106 intestato a Centro Studi Sereno
Regis – via Garibaldi 13 – 10122 Torino - IBAN IT 67 G 076 0101 0000 0002 3135
106
con vaglia postale
in contanti presso la segreteria del Centro Studi (sarà rilasciata ricevuta)
I fondi raccolti saranno consegnati direttamente alle famiglie per provvedere
alle necessità materiali e alle spese per le abitazioni che speriamo di poter
reperire. Sarà data completa trasparenza alla gestione dei contributi.
Se mi si domanda di definire la prima generazione di immigrati, oserei dire
"silenziosa, invisibile e individualista per troppo tempo". Ne sono consapevole
che una tale definizione non susciterà troppe simpatie e consensi.
Sia per un po' d'orgoglio, sia perché come tutti gli umani, siamo più propensi a
gettare le colpe sempre sugli altri, in pochi condivideranno questa mia
opinione.
Essere schietti e leali, prima di tutto vuol dire esserlo con se stessi. Fare un
bel esame di coscienza individuale e generazionale non guasterebbe, anzi,
aiuterebbe ad uscire prima possibile da quel guscio in cui ci siamo rifugiati
dal momento in cui siamo approdati in questa terra, ancora succubi delle
condizioni socio-politiche che avevamo lasciato nei paesi d'origine.
Era ovvio che la paura e le diffidenze non ci avrebbero abbandonato subito.
Educarsi con la nozione e la realtà "Democrazia" non è fenomeno che si realizza
automaticamente appena metti piede in un paese democratico. È un processo lungo
e non sempre facile se non aiutato da politiche adeguate per l'integrazione. Ma
siamo arrivati in Italia, paese che storicamente va avanti a forza di decreti
legge per le emergenze..emergenza abusivismo, emergenza corruzione.
Persino emergenza mafia, anche se la mafia esiste da un bel po' di tempo ormai.
Sempre emergenza in vista. Così fu e ancora lo è con il fenomeno immigrazione.
L'emergenza albanesi che ha liberato i polacchi dal peso della definizione "il
male dell'Italia", passandoci la staffetta . Poi i jugo, (le popolazioni della
ex- Yugoslavia che scappavano dai feroci conflitti che stavano sprofondando la
penisola balcanica in una guerra senza fine) e poi e poi di nuovo gli albanesi,
i rumeni, cinesi, subsahariani nordafricani rom un'eterna emergenza.
Sono entrata in questo paese con la legge Martelli..e non mi si domandi se
ricordo tutte le leggi che si sono susseguite risponderei di no. Ho perso il
filo nella giungla di leggi e decreti speciali. Un immigrazione alquanto
selvaggia per il fatto che le politiche per l'integrazione erano totalmente
assenti. L'integrazione era questione di noi altri.
"Se vogliono, che s'integrino" - la frase più ricorrente che usciva come perla
di saggezza dai politici, i giornalisti, persino dal panettiere sotto casa.
L'integrazione, al massimo era una questione che dovevano risolvere le varie
associazioni e organizzazioni non governative.
Qualche spiraglio c'era in qualche realtà di amministrazioni locali, ma molto
fiacca per mancanza di mezzi e di conoscenza del fenomeno. E non ne parliamo
degli attacchi immediati provenienti dalla politica e dai media,rivolti ad una
nazionalità specifica, in caso che un membro di essa compiva un crimine, minore
o grave che fosse. Iniziava (e inizia ancora ),una campagna denigratoria senza
fine. A tal punto che la nazionalità in questione emetteva un sospiro di
sollievo in caso di altro crimine compiuto da italiani o da membri di
nazionalità diverse.
Incredibile, offensivo e fuori da ogni logica umana ma vero!!! Era l'unico modo
per salvarsi almeno per un po' da definizioni diffamatorie che toglievano le
forze Dopo aver detto tutto ciò, può nascere spontanea la domanda:- "Che c'entra
la prima generazione in questa situazione caotica?"
Penso che noi, cittadini di origine non italiana, dobbiamo riconoscere la nostra
colpa per la formazione e lo sviluppo di questo terreno fertile di attacchi a
più non posso dei media e della politica, specialmente nei momenti cruciali
della nazione. Un terreno fertile anche per un certo indifferentismo e apatia
nel trattare la questione Immigrazione come un problema, una questione scomoda
da prendere con le pinze.
La nostra colpa? Subire in silenzio per anni, cercando di proteggere noi stessi.
Subire in silenzio, non reagire in maniera organizzata rispondendo agli attacchi
in modo immediato e difendendo la parte sana, (che è anche la maggioranza) degli
immigrati che non ha niente a che fare con la delinquenza e le azioni lesive
verso la società. Aspettare che le cose cambiassero in positivo passivamente e
che questi cambiamenti arrivassero dagli altri come la mana del cielo, non
riconoscendo subito il nostro ruolo da veri cittadini di questa nazione e
permettere che fossimo trattati solo come braccia da lavoro Ecco, questo è in
parole povere la nostra colpa.
Subire e indignarci in silenzio, rischiando di ghettizzare persino l'anima,
senza reagire adeguatamente, basandosi sui mezzi che la democrazia ci concede.
La mancanza per molti lunghissimi anni dell'attività reale e organizzata,
appoggiando le lotte quotidiane di quella parte della società italiana che aveva
ed ha le stesse aspirazioni, gli stessi concreti ideali per una società
migliore, non era di certo la strada giusta per combattere l'inadeguatezza delle
politiche sull'immigrazione e integrazione, e per non permettere l'uso da parte
dei media dell'immigrato come il male che infetta questo paese. Per moltissimo
tempo abbiamo permesso passivamente di vedere buttarci addosso le colpe delle
vari momenti difficili della nazione, abbiamo permesso che l'integrazione sia
trattato come un problema e non come una strada da percorrere insieme. Abbiamo
aspettato troppo.
Abbiamo aspettato troppo per gridare BASTA!! con la nostra voce potente che è
ugualmente valida e ha la stessa forza di quella dei nostri compagni di viaggio
italiani, nella giusta strada del miglioramento e dello sviluppo di questa
società. Perché..perché spesso e volentieri abbiamo avuto
la percezione che questa società non ci apparteneva, e non appartenevamo ed
essa.
Sì, sono molto critica, prima di tutto verso me stessa e verso tutti noi, verso
il silenzio e la rassegnazione della cosiddetta prima generazione degli
immigrati. Troppi silenzi, testa nascosta nella sabbia come lo struzzo,
rassegnazione e paura di esprimersi.. Facile nascondersi dietro l'alibi delle
mancanze legislative ma noi proprio noi, cosa abbiamo fatto per rispondere
adeguatamente a queste mancanze? Parlo di una generazione, nella maggior parte
con un bagaglio culturale e d'istruzione molto alta rimasta nascosta per troppo
tempo.
Ci siamo ribellati..sì..è vero, ma una ribellione bisbigliata dentro le mura
delle proprie abitazioni, oppure spesso neanche bisbigliata ma solo soffocata.
Abbiamo mormorato BASTA solo dentro di noi, in silenzio, mettendo maschere
d'indifferenza e non abbiamo fatto i conti che, un giorno, i nostri silenzi
sarebbero caduti sulle spalle dei nostri figli.
Le parole del Presidente Napolitano sul diritto di cittadinanza per i ragazzi
nati e cresciuti in Italia ci rincuorano, ci danno ottimismo. Si parla dei
nostri ragazzi, di coloro che vengono definiti seconda generazione.
Ma di noi di noi che siamo i genitori, gli zii o semplicemente amici di
famiglia, non se ne parla. Quasi come se questa seconda generazione fosse nata
dal nulla. E questo nulla lo abbiamo creato anche noi, con la nostra
indifferenza, i nostri silenzi la nostra non partecipazione.
Abbiamo cercato di integrarsi con le nostre forze, con la nostra grande volontà.
Questo fatto ci fà onore. Abbiamo educato i nostri figli con dei principi sani,
occupandosi di dare a loro anche una giusta istruzione, pretendendo i risultati
massimi a scuola. Abbiamo cercato di vedere in loro il nostro riscatto per le
ingiustizie subite in tanti anni. E non ce ne siamo accorti che forse
l'ingiustizia più grande lo abbiamo fatto noi a se stessi, con i silenzi
prolungati nel tempo, con la rassegnazione, rischiando di diventare fantasmi
viventi.
Se domandi ancora oggi giorno un natìo italiano chi sono questi esponenti della
prima generazione, all'inizio lo vedrai pensarci su, e poi spesso ti
risponderà:- "Quelli che venivano in gommoni, in barconi semidistrutti.. Eh loro
portavano la droga, le donne per venderle in strada" e altre cose del genere.
Spesso lui ignora la presenza del muratore straniero che ha ristrutturato la sua
casa, la colf che gli ha cucinato il ragù meglio di una massaia emiliana, la
babysitter che gli ha cresciuto i figli con tanto amore, insegnando a loro a
scandire bene la parola "mamma" e a fare i primi passi verso quella cosa così
bella che si chiama vita.
Perché perché il muratore o la colf sentivano in silenzio i commenti che si
facevano nelle case su questi stranieri, (e non aggiungo le definizioni non
proprio simpatiche che accompagnavano il termine stranieri), su questi stranieri
che "vengono qua e dettarci legge e a rubarci il lavoro e i mariti ". In
silenzio e senza fiatare inghiottendo spesso le lacrime. Ecco il massimo della
ribellione di noi, la prima generazione. E in silenzio abbiamo costruite le case
nel paese d'origine, dove andiamo una volta all'anno e dove ci fermiamo sempre
di meno.
E ce ne siamo resi conto solo tardi, molto tardi che, la vera costruzione della
nostra vita noi lo facevamo lì dove producevamo ogni giorno, lì dove i nostri
figli crescevano e si formavano come persone e come cittadini in una società, la
quale ancora non se ne rendeva conto della nostra voce, della nostra esistenza,
del nostro contributo nello sviluppo della società stessa.
Ce ne siamo accorti molto tardi che stavamo diventando immigrati a tempo
indeterminato, rischiando che i nostri figli diventassero una seconda
generazione di immigrati a vita. Ci ha dovuto pensare il Presidente per dare una
scossa alle nostre coscienze che ormai si stavano svegliando dal letargo ma un
po' apatiche, ancora non trovano la strada giusta per attivarsi nella lotta
quotidiana per i diritti.
Per dirla tutta e all'onor del vero, negli ultimi 3-4 anni, la partecipazione
sempre più numerosa e sempre più attiva dei cittadini di origine non italiana
nelle varie manifestazioni, iniziative concrete, nelle lotte quotidiane dimostra
che finalmente il risveglio delle coscienze è una realtà. Abbiamo iniziato a
riconoscerci il ruolo importante di membri attivi di questa società.
Un tardivo risveglio?? Forse sì! Ma forse, forse proprio questo dà ancora più
forza alla nostra voce. Perché difendiamo il nostro diritto di essere trattati
alla pari nei doveri e nei diritti con i cittadini italiani. Così agendo,
facciamo comprendere alla società che questo paese lo rispettiamo, lo amiamo, lo
chiamiamo CASA. È la casa dei nostri figli e nipoti,la maggior parte dei quali
qui ci sono nati, crescono e maturano. E la casa la si difende e la si migliora
continuamente, investendo energie concrete, investendo il proprio lavoro, il
proprio sudore, la propria mente e la propria passione.
Ce ne ribelliamo più apertamente e in modo attivo verso le leggi discriminatorie
della Destra, (la legge Bossi-Fini, con il suo contenuto disumano è un ostacolo
quasi insormontabile per una vera e naturale integrazione), e ci rallegriamo per
l'attivazione concreta della Sinistra nel cercare di dare al fenomeno
immigrazione la dignità e l'attenzione che merita, senza abbassare la guardia e
il tenore degli sforzi quotidiani a questi intenti. Sto cercando di rimanere il
più possibile neutrale e razionale su questo punto, perché in queste mie
personali riflessioni non vorrei fare un'analisi politica né dell'una e né
dell'altra parte, anche se a chi mi conosce è noto il fatto su da che parte sto
per quanto riguarda lo sviluppo politico italiano. Non è stato mai un segreto e
ne sono consapevole delle mie scelte e le mie convinzioni.
Ma, anche dalla parte politica che io stessa appoggio, c'è una certa falla per
quanto riguarda la prima generazione. Forse il mio è un richiamo a noi e proprio
a loro. Siamo dei quarantenni, con delle risorse ancora inesplorate e non messe
alla disposizione.
Abbiamo un mondo ricco dentro di noi, che si può sfruttare in tutti i campi. Il
futuro è dei nostri figli, dei giovani ma noi esistiamo in questo presente.
Esistiamo e viviamo non siamo dei vegetali.
Abbiamo molto da dare prima di tutto la nostra energia e il nostro sapere, la
nostra esperienza inestimabile. Abbiamo coscienza e per di più siamo degli
adulti che come dovere primario conosciamo il ruolo di guida per i nostri
ragazzi. Non siamo solo una definizione di un aspetto dell'immigrazione, siamo
attivi. Non scordate la nostra presenza, perché siamo proprio noi le radici di
questa seconda generazione.
Ci siamo!!! E vogliamo che si riconosca il nostro ruolo attivo in questa
società, in tutti i campi per preparare un terreno fertile per la crescita e lo
sviluppo delle nuove generazioni. Rendiamo attiva questa prima generazione,
rendiamola utile proprio ora che la sua coscienza è risvegliata. Perché si è
lasciata ed è stata lasciata per troppo tempo in disparte per ragioni sopra
menzionate. Sennò rischiamo di vedere una seconda generazione riconosciuta come
cittadini in tutti gli effetti, che come radice ha una generazione ghettizzata.
L'esempio dei ragazzi di origine nord-africana di cittadinanza francese che
fischiano l'inno nazionale, ci deve fare riflettere. Già il mondo lavorativo
tratta i quarantenni e i cinquantenni come peso morto Che la politica non faccia
lo stesso errore!!!
Chiudo queste riflessioni personali, prendendo spunto da due passaggi che
citerò:
1. "Ho provato ad affermare un principio: l’integrazione non riguarda gli altri.
Riguarda noi, tutti. Noi tutti che condividiamo il destino di vivere nello
stesso spazio e nello stesso tempo. Indipendentemente da dove siamo nati, in
quale lingua sogniamo, quale sia il nostro credo religioso, il nostro
orientamento sessuale, la nostra età, il nostro genere o la nostra condizione
sociale ed economica. Noi che usiamo gli stessi mezzi pubblici, le stesse
piazze, gli stessi luoghi di lavoro, gli stessi giardinetti dove giocano i
nostri figli
2. Lavoriamo perché l'Italia sia un paese per tutti, per i bimbi e per i loro
genitori, qualsiasi sia la loro origine.
Visti così, sembrano i passaggi dello stesso discorso, della stessa persona.
Invece appartengono a momenti diversi e a persone diverse. Il primo è di Ilda
Curti, Assessore delle Politiche per l'Integrazione di Torino. E il secondo
appartiene a Marco Pacciotti, Coordinatore Nazionale del Forum Immigrazione PD,
in un intervento congiunto con Piero Ruzzante, Vicepresidente della Commissione
Bilancio di Regione Veneto.
Comunque la si pensi dal punto di vista politico, si può trarre la conclusione
che, la società che vogliamo è proprio questa, dove c'è un posto e un ruolo per
tutti, e dove la politica mette in centro del suo lavoro il cittadino.
Noi, di prima generazione lo siamo!!! E vogliamo riconoscere e vedere
riconosciuto il nostro ruolo nella società e nello sviluppo di essa. Ne vale il
nostro presente e il futuro delle generazioni che verranno.
Esmeralda Tyli Ha studiato "Letteratura
italiana" presso l’Università di Tirana
Di Fabrizio (del 03/12/2011 @ 09:23:25, in Kumpanija, visitato 2428 volte)
Al JazeeraLe comunità tradizionalmente nomadiche di fronte alla
discriminazione statale ed ai violenti tentativi di abolire il loro modo di vita James Brownsell and Pennie Quinton
Le comunità viaggianti come quella di Dale Farm sono spesso distrutte col
pieno appoggio delle autorità statali [GALLO/GETTY]
Viaggiate dovunque nel Medio Oriente e potrete essere accolti con queste
parole: Ahlan wa sahlan wa marhaban. Letteralmente "Benvenuti su
questo pezzo di terra", un ritorno al tempo in cui la cultura araba era per
natura tradizionalmente più nomade ed i visitatori potevano aver avuto un lungo
viaggio periglioso prima di raggiungere i loro amici.
Ma l'immagine romantica del viaggiatore errante è ben lontana dalla realtà
quotidiana sperimentata dalle comunità nomadi. Da Est ad Ovest, la loro è più
spesso una vita piena di discriminazioni, violenza ed oppressione portata avanti
dalle autorità di stato, che tentano di costringerle a conformarsi con lo stile
di vita urbano.
"E' stata un'esperienza che non dimenticherò più, la polizia che ci
attaccava, ci picchiava, usava le scariche elettriche," dice Pearl, della
comunità di Dale Farm.
Lei fa parte di un gruppo di oltre 200 Traveller irlandesi cacciati a forza
dai loro terreni vicino a Basildon nell'Essex, Inghilterra del sud-est, da una
serie di
sgomberi violenti che si dice siano costati sino a 18 milioni di sterline
($29m).
L'isolamento della loro comunità, fondata negli anni '70, ha paragoni
inquietanti con quella dei Beduini residenti nel Negev, che hanno subito
frequenti minacce dai funzionari di Israele sin dalla fondazione dello stato -
col diniego di servizi infrastrutturali ai villaggi "non riconosciuti" o
semplicemente rasi al suolo dalle ruspe.
Dale Farm è un'ex discarica, venduta dal consiglio di Basildon alla comunità
Traveller irlandese quando la loro vita nomade venne messa fuorilegge dal
Criminal Justice Act nel 1994, che abrogava le precedenti garanzie legali ai
diritti dei Traveller. Al suo culmine, Dale Farm ospitava circa 1.000 persone.
La legge del1994 abolì l'obbligo da parte dei comuni di fornire siti ai
Traveller, riducendo così drasticamente i posti dove le comunità nomadi potevano
sostare durante i loro spostamenti.
Attivista solidale a Dale Farm regge un crocifisso davanti alle barricate in
fiamme [GALLO/GETTY]
Le autorità locali incoraggiarono allora le comunità viaggianti ad acquistare
terreni per ovviare alla situazione: Dale Farm nacque appunto così. Ma la
comunità di Dale Farm non si aspettava ciò che hanno descritto come un
pregiudizio arbitrario mostrato dal consiglio di Basildon a guida Tory, che ha
rifiutato ripetutamente i permessi di edificabilità per parcheggiare rimorchi e
case mobili, e costruire casette sul sito, con la scusa che quell'ex discarica
inquinata facesse parte della fascia protetta detta "green
belt".
Si riferisce che durante lo sgombero, una cappella cattolica eretta in loco -
intitolata a san Cristoforo patrono dei viaggianti - sia stata distrutta dalla
compagnia degli ufficiali giudiziari, Constant & Co. Padre Dan Mason, il
prete del posto, era a Dale Farm quel giorno.
"Ero lì... a visitare i miei parrocchiani e vedere come stavano. E' stato
molto traumatico," ha detto all'Independent Catholic News.
"E' stata ferita una donna. Mi hanno detto che è stata spinta contro un muro
e presa a calci. Ha subito un infortunio alla schiena. Questo è quello che mi
han detto. E' stata portata in ospedale ma non l'hanno trattenuta perché non
c'erano posti letto. E' tutto completamente surreale. Conosco bene quel sito. Le
famiglie sono così ospitali. Ci siamo seduti in una roulotte per una tazza di
tè. Non credevo ai miei occhi. Dappertutto vedevo poliziotti, elicotteri,
manifestanti - sembrava una zona di guerra."
John Baron, eletto Tory al Parlamento nella circoscrizione di Basildon ed ex
banchiere, ha difeso lo sgombero come applicazione della legge sui suoli.
"Non dimenticate, queste sono famiglie che hanno infranto la legge,
ha
detto alla BBC. "Non possiamo permetterlo in questo paese... se dovessimo
semplicemente concedere a questi viaggianti di rimanere, dopo aver infranto
tutte le leggi, che messaggio arriverebbe a tutti gli altri? Chiunque direbbe
-Bene, se loro possono farla franca, perché non noi?- Ed avremmo il caos."
Durante lo sgombero a Richard Howitt, eletto Laburista al Parlamento Europea
nella circoscrizione Inghilterra Est, non è stato permesso di osservare lo
svolgersi delle azioni, dicendogli che il consiglio di Basildon aveva ordinato
al personale addetto alla sicurezza di farlo spostare nello spazio riservato ai
media, accanto a Dale Farm. Era stato invitato dalla televisione regionale, col
permesso scritto della polizia, ed aveva correttamente ed in anticipo informato
il consiglio di Basildon; quindi ha presentato una denuncia formale sulle azioni
del consiglio e sull'attacco alla sua persona.
Il parlamentare si era in precedenza offerto per mediare tra Traveller e
consiglio, come avevano fatto gruppi di chiesa ed organizzazioni statali.
Persino le Nazioni Unite avevano condannato l'azione prevista, "esprimendo il
profondo rammarico per l'insistenza del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda
del Nord nel procedere con lo sgombero di famiglie zingare e viaggianti a dale
Farm nell'Essx, prima di identificare e fornire una sistemazione culturalmente
appropriata."
Distruggere le case di circa 86 famiglie senza fornire "sistemazione
culturalmente appropriata" va contro il diritto internazionale, ha detto Amnesty
International. Nel contempo, sono stati identificati due siti alternativi dalla Britain's Homes
and Communities agency, ma il consiglio di Basildon ha deciso lo stesso di
spingere per la liquidazione di Dale Farm, prima di considerare i permessi di
edificazione su questi siti.
I residenti di Dale Farm hanno dichiarato di non aver altro posto dove andare
dopo lo sfratto
[GALLO/GETTY]
Il clamore sullo sgombero aveva attirato al sito numerosi attivisti solidali.
Hanno aiutato i residenti a costruire barricate e si sono incatenati ad una
torre d'osservazione costruita in fretta da loro stessi.
"La prima cosa che è successa, la polizia antisommossa ha fatto irruzione
attraverso la recinzione ed hanno usato le pistole a scariche elettriche [Taser],
prima ancora che i loro piedi fossero sul sito," ha detto un'attivista di nome
Jenny durante un incontro alla
Fiera del Libro
Anarchico di Londra, una settimana dopo lo sgombero.
"Quelli che si erano incatenati alla torre, sono stati staccati da una
"squadra di arrampicatori" molto brutale ed è stata tagliata l'elettricità,
inclusa la casa di una persona che ne aveva bisogno per le apparecchiature
mediche che gli sono indispensabili... Altri che erano rimasti incatenati [al
cancello, alla torre] erano ancora lì 24 ore dopo. I lucchetti sono stati
scardinati in una maniera rischiosa - quando le televisioni ed i media se ne
erano andati. [...]"
Il giorno dopo, i Travellers decisero che era giunto il momento di andare.
Racconta Jenny: "Non volevano vedere nessun altro colpito. Hanno deciso di
andare con dignità e ci hanno chiesto di uscire assieme a loro... Siamo partiti
in dignità e solidarietà."
Tony Ball, leader del consiglio di Basildon, ha detto alla stampa: "E' molto
incoraggiante vedere i Traveller ed i loro sostenitori lasciare Dale Farm in
maniera pacifica e dignitosa, cosa che ho sempre sollecitato ed auspicato.
Purtroppo, questo si sarebbe potuto ottenere molti anni fa e senza le scene di
violenza a cui abbiamo assistito nelle ultime 48 ore, e con queste spese a
carico dei contribuenti."
Residenti, testimoni ed attivisti lamentano che lo sgombero si è svolto in
maniera illegale e che, nonostante le battaglia legale condotta dai residenti,
le regole di condotta emanate dall'Alta Corte non siano state seguite dalla
polizia o dagli ufficiali giudiziari - che ora stanno rendendo il sito
inabitabile, accumulando macerie e rifiuti sui terreni di proprietà della
comunità. La compagnia [degli ufficiali giudiziari] dedica un'intera sezione del
suo sito alla rimozione dei Traveller, evidenziando che "i procedimenti del
tribunale significano ritardo" e promettendo "un'azione alternativa e veloce".
Contesto internazionale
Il Comitato ONU sull'Eliminazione della Discriminazione Razziale
ha notato [PDF] che "Tuttora Viaggianti e zingari subiscono notevoli
discriminazioni ed ostilità da parte della società maggioritaria... e quesyo
potrebbe peggiorare a causa delle azioni intraprese dalle autorità nell'attuale
situazione".
Infatti, un
rapporto del 2008 [PDF] di Human Rights First nota che parte delle
discriminazioni viene approvata dallo stato stesso:
[in Italia] Migliaia di Rom sono stati allontanati dalle loro case nel
2007, quando la folla ha attaccato. picchiando i residenti ed incendiando i
loro insediamenti che sono stai rasi al suolo, mentre viene riferito che in
diversi casi la polizia non è intervenuta a protezione delle vittime. Alcuni
politici italiani hanno favorito quanti chiedevano che i Rom fossero espulsi
dalle città e deportati.
Episodi di violenza sono stati riportati anche in Bulgaria, Repubblica
Ceca, Federazione Russa, Serbia e Slovacchia.
Lo stesso rapporto annota anche le dichiarazioni razziste espresse
ufficialmente dal prefetto di Roma, Carlo Mosca, nel dichiarare i propri intenti
di firmare i decreti di espulsione senza esitazioni. "E' necessaria la linea
dura," dice, "per agire contro queste bestie".
Sono stati firmati "Patti di sicurezza" dai sindaci di Roma e Milano, che
"prevedono lo sgombero forzato di 10.000 Rom" dalle due città, ignorando le
regole di migrazione UE.
Nella Repubblica Ceca, Liana Janáèková, senatrice e sindaco, ha detto che il
problema degli insediamenti rom potrebbe essere risolto con "la dinamite", che i
Rom hanno troppi bambini, e che dovrebbero essere ""tenuti dietro una recinzione
elettrica".
Tuttavia, è in Israele che lo stile di vita nomade è stato maggiormente
criminalizzato, col pretesto di "aiutare" le comunità nomadi a diventare più
"civilizzate".
Sono state dispiegate le guardie di frontiera, mentre le ruspe demolivano il
villaggio beduino di al-Arakib [GALLO/GETTY]
Khalil al-Amour ha 46 anni ed insegna matematica ad al-Sira, uno dei 45
villaggi beduini "non riconosciuti" nel deserto del Negev, Israele meridionale.
"[I funzionari israeliani] hanno ordinato la demolizione di tutte le case del
villaggio nel 2006," ha detto ad Al Jazeera. "Ci sono circa 70 famiglie e 500
persone ad al-Sira."
Le loro case non sono state ancora demolite (a differenza di
altri villaggi beduini) ed il caso viene dibattuto in tribunale. Ma la loro
comunità resta senza nessuno dei servizi statali che collegano i villaggi
attorno, come la rete elettrica o le strade asfaltate.
"La gente ha usato i generatori per anni," dice. "Ora sto cercando di
convincere sempre più persone ad usare sistemi e pannelli solari - che [sono]
molto costosi. D'altra parte, anche il carburante usato per i generatori è molto
caro."
Ci sono circa 80.000 beduini che vivono nei villaggi "non riconosciuti".
La loro comunità è sempre stata semi-nomade; migrano stagionalmente con le
loro mandrie in cerca di pascoli e tornano ai loro villaggi ogni anno.
Ma quando Israele ha approvato le sue leggi su pianificazione e sviluppo nel
1965, vennero esclusi i villaggi beduini del Negev, "anche se i beduini erano
una popolazione indigena e lì vivevano da secoli," dice Doni Remba,
co-direttore della Campaign for Bedouin-Jewish Justice in Israele.
La sua campagna, un progetto dei Rabbini per i Diritti Umani in America del
Nord e della Jewish
Alliance for Change, sottolinea che, oltre a non avere servizi di
infrastrutture, i beduini vivono sotto minaccia costante di sgombero forzato che
[...] "si basa su una legge fondamentalmente discriminatoria".
"L'esempio più recente sono state una serie di demolizioni nel villaggio
beduino di al-Arakib, nel Negev," dice Remba ad Al Jazeera.
"In questo caso, il governo israeliano ha inviato ben 1.300 poliziotti
paramilitari, per espellere violentemente oltre 300 uomini, donne e bambini. Il
villaggio è stato distrutto e ricostruito quasi 30 volte, soltanto nell'ultimo
anno e mezzo."
Una donna beduina seduta sulle macerie della sua casa ad al-Arakib, distrutta
dalle ruspe israeliane [GALLO/GETTY]
In più, sono in corso piani che secondo i funzionari israeliani saranno una
risoluzione completa sullo status dei beduini di tutto il Negev.
"Il Piano Praver [dal nome dell'ex collaboratore di Netanyahu, Ehud Praver]
riguarda la demolizione di 20 villaggi non riconosciuti e l'espulsione di
20-40.000 residenti, se questi non accettassero un'offerta di compensazione
piuttosto scarsa ed inadeguata," dice Remba.
L'obiettivo del piano, aggiunge, era di concentrare l'intera comunità beduina
in sette "riserve" riconosciute dal governo, nella regione che attualmente
ospita circa 100.000 persone che, aggiunge, sono già state sgomberate dalle loro
terre.
"Il governo li discrimina e trascura, perché i beduini sono tra le
popolazioni di Israele più economicamente svantaggiate sotto ogni parametro
socio-economico."
"Anche nei villaggi approvati dal governo, quindi legali e non a rischio di
demolizione... i tassi di disoccupazione, povertà, criminalità, istruzione e
mortalità infantile sono tra i più sfavorevoli."
"Il tasso di mortalità infantile è quattro volte superiore a quello delle
comunità ebraiche lì accanto, ad una o due miglia di distanza - e tutto a causa
dell'estrema discriminazione delle condizioni di vita."
"Il governo intende "cancellare" i villaggi beduini e rimpiazzarli con
comunità ebraiche, "per controllare il territorio... in collegamento a ciò
che il primo ministro Netanyahu chiama - mantenimento della maggioranza ebraica
nel Negev-," ha detto Rembo ad Al Jazeera.
Come nel caso dei residenti di Dale Farm, i funzionari dicono che la
rilocazione "aiuterà" i residenti a rispettare le leggi di pianificazione. Ma,
mentre lodava il suo nuovo piano, persino Netanyahu notava che i beduini sono
stati allontanati dalla terra su cui hanno vissuto per generazioni.
"Dopo anni in cui i loro bisogni non erano trattati sufficientemente, questo
governo ha deciso di prendere in mano la situazione ed arrivare ad una soluzione
a lungo termine della questione," ha detto.
"Il piano permetterà ai beduini, per la prima volta, di stabilizzare i loro
beni e tramutarli da capitale morto a vivo - di essere proprietari della terra,
cosa che permetterà loro di costruire case nel rispetto della legge e lo
sviluppo di imprese e posti di lavoro. Questo sarà un progresso per la
popolazione e darà loro l'indipendenza economica."
"Il nostro stato sta balzando verso il futuro e voi dovete essere parte di
questo futuro. Vogliamo aiutarvi a raggiungere l'indipendenza economica. Questo
piano è volto allo sviluppo ed alla prosperità. E' un'opportunità storica che
non dobbiamo perdere."
Comunque, questo tipo di retorica non piace a molti beduini.
"Il problema del piano è che ci sradicherà tutti dalla nostra terra
ancestrale, per metterci nelle città più povere," dice al-Amour, leader beduino
di al-Sira.
"Stiamo per essere sradicati, per perdere le nostre tradizioni, la nostra
vita, la cultura ed i valori - andando in queste città - questa è l'antitesi del
nostro essere, come beduini. E' per questo che ci opponiamo al piano. Gli ebrei
hanno il diritto di scegliere dove vogliono vivere. Possono vivere in città, in
un villaggio, in un moshav, in un kibbutz. Ora i beduini dovrebbero vivere solo
in città. E' ridicolo, è incredibile."
Ridicolo forse, ma non incredibile. Difatti, molti beduini ed i loro
sostenitori dicono che il Piano Praver è soltanto la continuazione della
politica di stato portata avanti da decenni.
Nel 1963, l'allora ministro dell'agricoltura Moshe Dayan mostrava il suo
disprezzo per i beduini ed il loro modo di vita, dicendo ad Haaretz:
"Dobbiamo trasformare i beduini in lavoratori urbani... Significa che il
beduino non vivrà più sulla sua terra col suo gregge, ma si urbanizzerà,
tornerà a casa nel pomeriggio e si metterà le pantofole. I suoi figli si
abitueranno ad un padre che indossa pantaloni, senza un pugnale, che non si
spulcia in pubblico. Andranno a scuola con i capelli pettinati. Sarà una
rivoluzione, ma si può fare in due generazioni. Senza coercizione, ma con la
guida dello stato. La realtà è che i beduini spariranno."
Campagna in corso
Al-Amour è stato insegnante per 28 anni, ed è anche docente di sistemi
informatici di rete, ha un master in amministrazione dell'istruzione ed ha
appena terminato il secondo anno di studi in legge.
Dice ad Al Jazeera che continuerà a lottare per la sua comunità, senza
abbandonare mai il suo stile di vita nomade.
"Andrò a Ginevra per prendere parte alla riunione del Comitato ONU per i
Diritti Economici, Sociali e Culturali, e dopo a Berna, ed incontrerò dei
sostenitori a Losanna. Sarò sempre in movimento, per rappresentare la mia
comunità ed il mio popolo."
Difatti, lui - e migliaia come lui - hanno sostenitori in tutto il globo.
Doni Remba, di New York, ha detto che la discriminazione contro i beduini
deve finire.
"Se noi crediamo che Israele sia una democrazia, come pretende di essere, il
minimo che deve ai propri concittadini beduini è dar loro gli stessi diritti ed
opportunità dei cittadini ebrei."
"E' ciò che Israele promise nella sua dichiarazione d'indipendenza - di
sviluppare il paese per il beneficio di tutti i suoi abitanti... [il Piano
Praver] è una violazione dei principi democratici base israeliani, e del suo
impegno per l'eguaglianza - lo vedo come una violazione dei valori morali base
ebraici."
"Penso anche che sia estremamente negativo e che infiammerà le relazioni tra
ebrei ed arabi in Israele - e questo non può portare ad un buon finale."
Tornando all'Essex, una volta usciti da Dale Farm, gli ex residenti hanno
reso omaggio ai loro sostenitori e richiesta una solidarietà continuata con le
comunità viaggianti, dato che gli ufficiali giudiziari hanno continuato a
distruggere le loro case:
"Stanno facendo cose che non si immaginava potessero fare," dice un
residente di nome Clen. "Stanno sfasciando tutto, gli ufficiali giudiziari
stanno facendo un gran casino nel mezzo del sito. I residenti stanno
gridando. Ma se siete venuti a Dale Farm, siete venuti ad appoggiare una
causa, perché sapevate che quanto stava accadendo era sbagliato. Vi voglio
bene con tutto il cuore. Prima d'ora nessuno si era erto per i Traveller,
avete fatto la storia."
Conclude Pearl: "Voglio bene a qualsiasi attivista nel mondo, senza di loro
il mondo sarebbe un posto duro e malvagio."
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