Rom e Sinti da tutto il mondo

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\\ Mahalla : VAI : Europa (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Fabrizio (del 20/12/2011 @ 09:36:52, in Europa, visitato 1661 volte)

Osservatorio Balcani e Caucaso di Cristina Bezzi 15 dicembre 2011

Foto di Cristina Bezzi

Che impatto hanno i fenomeni migratori sui diritti dei bambini? In questo reportage Cristina Bezzi, antropologa, visita la Moldavia romena, una delle aree più povere della Romania e più colpita dall'emigrazione

Secondo le stime UNICEF sono 350.000 in Romania i bambini con uno o entrambi i genitori all'estero per lavoro. Mentre madri e padri sono in Italia, Spagna e Francia per contribuire ad un bilancio famigliare altrimenti impossibile, loro vengono accuditi da zii, nonni o altri parenti. A volte vivono praticamente soli, magari affidati a qualche vicino di casa.

Anche a seguito di recenti e drammatici fatti di cronaca al destino di questi "orfani bianchi", così vengono chiamati, si inizia a prestare sempre più attenzione. Ci siamo recati nella Moldavia romena - nordest della Romania, una regione tra le più povere del Paese e quindi più colpite dal fenomeno migratorio - accompagnati dai volontari dell'Albero della Vita, Onlus impegnata nella tutela e salvaguardia dei diritti dei bambini.

Il progetto children rights in action
Il progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea "Children's rights in action. Improving children's rights in migration across Europe" è coordinato dalla fondazione L'albero della vita di Milano e vede come partner la fondazione ISMU, l'Università di Barcellona, la Fundaciò Institut de Reinserciò Social e l'associazione Alternative Sociale di Iaşi. Scopo del progetto analizzare le condizioni dei bambini romeni coinvolti nel processo migratorio familiare, in Romania, Italia, Spagna e sviluppare delle buone prassi per ridurre la loro condizione di vulnerabilità. Spesso i loro diritti fondamentali vengono violati sia nel paese di origine ma anche in quello di accoglienza a causa delle difficoltà d'integrazione nel nuovo sistema. L'importanza della ricerca appare evidente se si pensa che solo in Italia sono 105 mila i romeni iscritti alla scuola dell'obbligo e che molti si ricongiungono ai loro genitori solo dopo anni di distanza.
L'economia della zona è basata prevalentemente su un'agricoltura di sussistenza che, già fragile, è stata messa in ginocchio dalle alluvioni che nel 2008 hanno colpito l'intera area. Molti hanno dovuto considerare la migrazione, per poter far fronte ai bisogni familiari. E sono partiti per periodi più o meno lunghi, lasciando i figlia a casa.

Liteni: vivere a ritmo del passato, abitare nelle case del futuro
Parto dall'affollata autostazione di Iaşi, principale città della Moldova romena, alle 6.30 del mattino con il minibus che ogni mattina accompagna gli insegnanti della scuola media ed elementare del paese al lavoro. Trascorso un primo pezzo di superstrada svoltiamo su una strada bianca che ci porta dalla veloce e moderna città a Liteni, paesino a circa 50 chilometri da Iaşi dove il 30% dei 2.200 abitanti lavora all'estero. "In realtà sono molti di più", spiega il sindaco, Petraş Constantin, perché molti continuano a rimanere registrati all'anagrafe pur non vivendo più nel paese".

Qui il ritmo è ancora scandito dalle stagioni e al posto delle macchine che hanno oramai invaso la città, la gente si sposta utilizzando carretti di legno trainati da cavalli. Tutt'intorno distese di campi in passato coltivati da un'azienda agricola di stato, restituiti poi negli anni '90 ai vecchi proprietari. L'attività agricola è la principale occupazione delle persone che vivono nel paesino di Liteni; in questo periodo uomini, donne, vecchi e bambini sono impegnati nella raccolta del mais e il paese, nelle prime ore del pomeriggio, è attraversato da carri carichi di pannocchie seguiti da intere famiglie che tornano verso casa.

E' proprio l'immagine di un cavallo che rimane bloccato dal peso esagerato del carro davanti al cancello di un'enorme e moderna villa in costruzione che mette in risalto la doppia identità del luogo.

La vita del villaggio procede con il suo antico ritmo di campi arati dal cavallo, giornate che iniziano con il sorgere del sole e terminano con il suo tramonto, ma accanto alla strada bianca e polverosa si innalzano case modernissime quasi tutte non intonacate, che stanno sostituendo le piccole abitazioni tradizionali dai caldi colori pastello.

Dietro ad ogni casa nuova o in costruzione c'è una storia di migrazione. Lo stile delle costruzioni spesso racconta anche la storia di quella migrazione, come osserva Gheorghe Moga, direttore della scuola del paese: "Se osservi le caratteristiche delle case puoi capire anche dove le persone sono emigrate". Da Liteni le persone si sono dirette principalmente in Italia, Spagna, Francia e in misura minore in Germania.

La maestra
Entriamo nella prima elementare con la maestra Ileana, i bambini le si fanno attorno e la stringono forte in abbracci. "Manifestano così la loro carenza affettiva", mi spiega. Ileana chiede quanti di loro hanno un genitore all’estero, più della metà dei circa venticinque bambini alza la mano, la maggior parte ha la mamma lontana; nel villaggio questa è la normalità.

Ileana stessa è tornata in paese solo per alcuni mesi, in realtà lavora in Italia già da due anni e a breve ritornerà lì per accudire una persona anziana. "Nel 2009 c'è stato un' ulteriore riduzione degli stipendi per coloro che lavorano nel pubblico, tutti gli stipendi sono stati ridotti del 25%, se prima prendevo circa 300 euro dopo il 2009 lo stipendio è arrivato a 250. Ho una figlia che sta studiando a Iaşi al liceo, solo per il vitto e l'alloggio devo pagare 100 euro al mese più tutte le altre spese. Mio marito lavora la terra, non ha un salario fisso e trovare lavoro qui è molto difficile. Semplicemente se io non fossi partita non ce l'avremmo fatta".



Cerco un posto dove potermi risciacquare le mani. Maria, una ragazza di 14 anni, mi sorride e si offre di aiutarmi. Mi guida verso il pozzo azzurro proprio di fronte alla scuola; il villaggio infatti non è dotato di acqua corrente. Maria stringe forte la catenella del secchio alla corda e con movimenti decisi inizia a calare. Maria è molto curata e sembra essere serena nonostante l'assenza del padre e la distanza della madre partita per lavorare in Italia quando lei aveva otto anni. Vive con gli zii e i cugini, sembra capire i motivi per cui la madre è lontana, ma parlando con lei hai l'impressione di rivolgerti ad un' adulta responsabile più che ad un'adolescente.

Quando la crisi fa migrare le donne
Spesso sono le mamme a partire perché in questo periodo è più facile per una donna trovare lavoro. Dopo l'entrata della Romania nell'Unione Europea (2007), il flusso migratorio femminile è andato aumentando, mentre in seguito alla crisi economica sono stati molti gli uomini a rimanere senza lavoro e a tornare in Romania. A Liteni ci sono diverse donne che lavorano principalmente in Spagna ma anche nel sud Italia. Maria parte per circa 3-4 mesi all'anno, non vuole prolungare di più la sua assenza perché ha due bambini di 7 e 9 anni. Suo marito aveva lavorato per un periodo in Germania ma negli ultimi anni non è più riuscito a trovare lavoro.

Come lui anche Vasile, un 42 enne di Liteni, e rientrato dopo aver perso il lavoro all'estero. Ha lavorato come manovale a Torino per ben 7 anni, ma ultimamente faceva fatica a trovare lavoro ed inoltre spesso i datori di lavoro non lo pagavano: "Succede spesso, lavori per mesi e poi il datore non ti paga e quindi alla fine ho cercato un posto per mia moglie come badante. Adesso lei è lì".

Vasile e la moglie hanno quattro figlie: sei, otto, dieci e quattordici anni. Attualmente è lui a prendersene cura; ha dato la sua terra in affitto per poter seguire le figlie e le faccende di casa. A breve però desidera tornare a Torino dove spera di trovare nuovamente lavoro e lascerà le figlie in custodia alla sorella.

La sua idea è quella un giorno di rientrare definitivamente in Romania, ma non riesce ad immaginare quando: "Fino a quando le figlie non saranno grandi saremo costretti a lavorare all’estero. Qui la gente vive di ciò che produce la terra, non ci sono posti di lavoro, sarebbe necessario andare in città ma anche lì è difficile e un salario medio, di circa 250 euro, non è comunque sufficiente a far sopravvivere una famiglia". Vasile alza lo sguardo e mi mostra con orgoglio la casa che stanno costruendo attraverso le rimesse, anche se non è finita a breve potrà trasferirsi lì a vivere con le figlie. In lontananza la sua casa non intonacata si confonde con le pareti grige di numerose altre case. Ma sarà possibile per gli abitanti di Liteni tornare un giorno a vivere stabilmente nel loro paese?

Ancora bambini con la "chiave al collo"?
Come spiega lo psicologo Catalin Luca, direttore dell'associazione Alternativa sociale, la prima in Romania ad occuparsi dei bambini soli a casa, il fenomeno non è nuovo in Romania: "Durante il comunismo ci sono state diverse generazioni di bambini che sono cresciuti da soli, poiché ambedue i genitori lavoravano tutto il giorno. Questi bambini sono conosciuti come la generazione dei "bambini con la chiave al collo", perché passavano le giornate davanti al block con la chiave di casa appesa al collo, in attesa che i genitori rientrassero. Questa stessa generazione è quella che oggi emigra e lascia i figli a casa pensando che, così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale, proprio perché anche loro sono stati abituati alla distanza emotiva e a volte anche fisica dai genitori".



L'Associazione Alternative Sociale di Iaşi ha iniziato ad occuparsi di questo fenomeno impegnandosi attraverso campagne di sensibilizzazione e di informazione per i genitori, attività di prevenzione e counseling per i minori e proposte di legge per la tutela dei minori rimasti soli a casa.

Catalin Luca ha recentemente concluso la sua ricerca di dottorato in cui ha indagato le conseguenze causate dalla lontananza dei genitori, utilizzando un approccio che tiene in considerazione il punto di vista del bambino: "Dal loro punto di vista non sono le cose materiali di cui hanno bisogno ma la presenza dei genitori, la possibilità di discutere con loro. Spesso i bambini non vengono coinvolti nella decisione dei genitori di partire; la loro impressione è che non possono chiedere aiuto a nessuno per risolvere i loro problemi".

Drammatiche conseguenze
I bambini vengono accuditi dal genitore rimasto o da una zia, altre volte dai nonni, nei casi più gravi da un vicino o da un fratello maggiore. La mancanza di supervisione da parte dei genitori spesso pregiudica lo stato di salute del minore che tende a non nutrirsi regolarmente, peggiora l'apprendimento scolastico e può determinare soprattutto tra gli adolescenti la frequentazione di entourage negativi. Dal punto di vista psicologico le conseguenze possono andare da una disposizione alla depressione fino ad arrivare nei casi più estremi al suicidio.

Lo scorso settembre ad Arad, Romania occidentale, è morta Monica, una bambina di dieci anni che a causa della nostalgia della madre, che lavora in Spagna, ha smesso di alimentarsi fino a che i suoi organi non hanno più retto.

Il caso di Monica, ha creato un grande scandalo. La madre è stata demonizzata assieme a tutte le madri che partono "senza preoccuparsi abbastanza dei loro figli". Davanti a questo caso anche i politici hanno mostrato un cenno d'interesse tanto che il parlamentare Petru Callian ha proposto un disegno di legge che prevede una multa per i genitori che lasciano il Paese senza aver affidato i figli ad un legale rappresentante.

Come spiega Alex Gulei, assistente sociale di Alternativa Sociale, in Romania esiste già una legge che obbliga i genitori a nominare un tutore legale prima di partire per l'estero, ma poiché non è prevista nessuna sanzione, quasi nessuno si preoccupa di farlo.

E' il caso di Nicu un ragazzino di nove anni, che partecipa al programma del centro diurno Don Bosco della Caritas di Iaşi. La mamma è partita per l'Italia quattro anni fa e quindi vive con la nonna settantenne e la sorellina di sei anni. Da anni Nicu dovrebbe sostenere un'operazione chirurgica molto delicata, ma non può farlo perché per questo sarebbe necessaria la firma della madre che è la legale rappresentante del figlio, ma che è da anni che non si mette in contatto con loro. La nonna sta pensando di far togliere per abbandono la rappresentanza legale alla madre per ottenerla lei, cosicché il piccolo Nicu possa essere operato, la sua paura è però che non le restino molti anni di vita e che se lei morisse il nipotino sarebbe affidato ai servizi sociali.

Le conseguenze psicologiche ed emotive della privazione dell'affetto materno e paterno sono un prezzo altissimo pagato dai minori romeni le cui famiglie sono coinvolte nel processo migratorio. Purtroppo spesso anche per chi segue i genitori nel Paese di accoglienza il processo di adattamento è lungo e non sempre facile. In molti casi tra l'altro accade che il minore rientri in patria con o senza la famiglia subendo un ulteriore fase di adattamento.

La tutela dei diritti dei minori coinvolti in processi di migrazione è complessa e non può che passare attraverso un approccio che coniughi il livello locale a quello nazionale ed europeo. Un primo passo in questa direzione è l'analisi delle loro condizioni di vita e l'individuazione di buone prassi per ridurre la loro vulnerabilità.

 
Di Fabrizio (del 12/12/2011 @ 09:53:14, in Europa, visitato 1569 volte)

Da Romanian_Roma

Rispetto linguistico per un popolo una volta deriso come zingaro - By Gerry Hadden

05/12/2011 - In Romania, il termine ufficiale per la minoranza zingara del paese è stato modificato, dopo quasi un secolo di pressioni.

Il dizionario rumeno ufficiale usa ora il termine Rom, e riconosce che la parola Zingaro, o Tigan, ha una connotazione peggiorativa. Festeggiano i gruppi che promuovono i diritti dei Rom, ma molti rumeni - ed alcuni degli stessi rom, sono contro il cambiamento.

In una stradina dietro ad un affollato mercato agricolo nella capitale, Bucarest, un Rom di nome Aurika dice che tra di loro ci si chiama Tigan, e non Rom.

"Per me non è una parola negativa," dice. "Ma, se tu ed io stiamo discutendo, e mi chiami Tigan, avremo un problema."

Interviene suo figlio, Antoni.

"Io voglio essere chiamato Rom," dice, timidamente.

Suo padre si arrabbia.

"Perché?" chiede. "Perché a scuola ti hanno detto che gli Tigan sono cattivi?"

Il ragazzo risponde di sì.

"E' sbagliato," dice Aurika. "Tu sei tanto Tigan che cittadino rumeno."

Pregiudizio, rabbia e confusione simili non sono nuovi in Romania. Alcuni gruppi Rom hanno chiesto un cambiamento sin dall'inizio del XX secolo. Finalmente, l'hanno ottenuto quest'anno.

Monica Busuioc, linguista presso l'Accademia Rumena, è tra quanti hanno deciso di rimpiazzare la parola Zingaro o Tigan con Rom. (Foto: Gerry Hadden)

L'Accademia Rumena, il guardiano della lingua, ha ufficialmente definito il gruppo come Rom. Dietro questo grande cambiamento c'è la minuscola Monica Busuioc, un'anziana donna con gli occhiali che lavora al quarto piano dell'Accademia.

Recentemente, Busuioc era seduta con di fronte a sé l'ultima edizione del dizionario ufficiale rumeno. Disse che non solo riconosceva Rom come nome corretto del gruppo etnico, ma faceva anche una modifica antrettanto importante al vecchio nome, Tigan.

Prima definiva -qualcuno con comportamento malvagio-. Abbiamo aggiunto -epiteto insultante rivolto a chi ha un comportamento incivile-."

Busuioc dice che i linguisti non hanno il diritto di rimuovere termini come Tigan dai dizionari, non importa quanto sia offensivo, perché sono parte della storia. La parola Tigan, dice appare in documenti che risalgono al XIV secolo.

Ma l'Accademia può modificare le definizioni per riflettere la realtà sociale.

"Questo termine era usato frequentemente nei detti, proverbi e così via. Non si può eliminarlo dalla lingua rumena. Un dizionario non può eliminare una parola," dice Busuioc.

Introdurre Rom nel dizionario è offensivo anche per alcuni Rumeni perché, nella loro lingua, i due termini si assomigliano. (VEDI, ndr)

Molti Rumeni non vogliono essere confusi con i Rom.

A Bucarest, alla fermata dell'autobus, una donna che dice di chiamarsi Julia, ci dice che i Rom sono pericolosi e danno una cattiva fama ai Rumeni, soprattutto oltremare. Dice che sua sorella è un'infermiera onesta e gran lavoratrice, in Italia.

"Ogni giorno, i suoi colleghi le mostrano gli articoli sul giornale dicendo, guarda cosa fanno i tuoi Rumeni," dice. "Ma quello che le mostrano sono i crimini commessi dagli zingari."

Ana Avasiuc, che lavora con una OnG di Bucarest chiamata Impreuna, dice che quando la gente si riferisce ai Rom come Tigan, è un ulteriore isolamento dalla cultura maggioritaria

I gruppi per i diritti dei Rom dicono che è l'attitudine che vogliono cambiare, e togliere il termine Tigan dall'uso popolare può aiutare. Ana Avasiuc, assieme all'OnG di Bucarest chiamata Impreuna, dice che usare la parola Tigan aumenta la ghettizzazione linguistica.

"Leggevo della comunità rom di Baia Mare nella Romania centrale, attorno alla quale il municipio ha fatto costruire un muro del costo di 60.000 euro," dice. "Invece di spenderli perché i Rom riprendessero il loro diritto ad essere cittadini, sono stati usati per spingerli il più lontano possibile dalla vita cittadina." (VEDI, ndr)

Il muro è di cemento. In un'altra città rumena, ne è stato costruito uno di metallo. Allora i Rom l'hanno buttato giù e rivenduto come rottame. (VEDI, ndr)

Questi incidenti non hanno certo contribuito a migliorare l'immagine dei Rom o della Romania, tanto localmente che all'estero. La domanda è: cambiare una parola sul dizionario, può cambiare realmente le cose? Busuioc dice di non esserne sicura.

"Non posso combattere la discriminazione solo a livello di parole. E' un problema di mentalità da cambiare. Di sicuro le parole aiutano. Se al posto di Tigan senti Rom, Rom, Rom, allora comincerai ad usare Rom anche tu."

Per cambiare, una lingua ha bisogno di secoli, dice, ma da qualche parte si deve iniziare.

Oltre al linguaggio, il governo presenterà a breve un piano per migliorare le condizioni dei Rom, attraverso l'integrazione sociale e programmi di lavoro, miglioramento degli alloggi ed istruzione per i giovani.

L'Unione Europea ha dato il termine di fine anno a tutti gli stati membri, per predisporre piani volti al miglioramento della situazione dei Rom.

 
Di Fabrizio (del 12/12/2011 @ 09:40:56, in Europa, visitato 1920 volte)

Lunedì 19 dicembre 2011 alle ore 21.00
Circolo ARCI Martiri di Turro - Via Rovetta 14 a Milano

Documentario di Gianmaria Carrara, Luca Orioli e Lorenzo Giglio (www.aroproductions.it) – Italia - 2011 – terzo appuntamento della III^ edizione della rassegna di film "HO INCONTRATO ZINGARI FELICI" (Maladilem Bachtale Romenca - da Upre Roma), organizzata dall'Associazione La Conta in collaborazione con l'Associazione Aven Amentza – Unione di Rom e Sinti, con l'Associazione ApertaMente, con la redazione di Mahalla e con il Circolo ARCI Martiri di Turro, con ingresso gratuito, con tessera Arci.

Sarà presente il regista Gianmaria Carrara. Presenta la serata Fabrizio Casavola - Redazione di Mahalla che parlerà anche della situazione dei Traveller irlandesi e degli ultimi allevatori di cavalli a Milano.

"The million dollar kid" è un puledro appena comprato da Dennis alla fiera dei cavalli di Ballinasloe, in Irlanda. Dennis è un "traveller", ovvero un viaggiatore, così vengono chiamati per il loro nomadismo gli zingari irlandesi. La vita di Dennis, come di molti altri travellers, è legata di generazione in generazione all'allevamento ed il commercio di cavalli. Questo documentario lancia uno sguardo ad una Irlanda poco conosciuta, alla scoperta della vita, cultura e tradizioni di questo popolo nomade.

Oltre al documentario sarà proiettato uno slide show multimediale realizzato con l'integrazione

 
Di Fabrizio (del 07/12/2011 @ 09:30:10, in Europa, visitato 1397 volte)

di Slavoj Žižek - 29-Nov-11
La paura degli immigrati contagia anche il multiculturalismo progressista disposto ad accettare l'Altro a patto di privarlo della sua Alterità

Dopo decenni di speranza sostenuta dallo Stato sociale, durante i quali i tagli finanziari venivano spacciati per temporanei, e compensati dalla promessa che le cose sarebbero presto tornate alla normalità, stiamo entrando in una nuova epoca nella quale la crisi - o, meglio, una specie di stato economico d'emergenza, con il relativo bisogno di misure d'austerità d'ogni tipo (tagli dei sussidi, riduzione dei servizi sanitari e scolastici, maggiore precarietà dei posti di lavoro) - si è fatta permanente. La crisi sta diventando uno stile di vita. Dopo la disintegrazione dei regimi comunisti, nel 1990, siamo entrati in una nuova era nella quale un'amministrazione tecnica, depoliticizzata, e il coordinamento dei diversi interessi sono diventati la forma predominante di esercizio del potere statale. L'unico modo di introdurre passione in questo tipo di politica, l'unico modo di mobilitare attivamente le persone, è fare leva sulla paura: la paura degli immigrati, la paura del crimine, la paura dell'empia depravazione sessuale, la paura di uno Stato invadente (con il suo fardello di tassazione elevata e controllo), la paura di una catastrofe ecologica, e inoltre la paura delle molestie (il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura).

Una politica di questo tipo si fonda sempre sulla manipolazione di una moltitudine paranoica: la spaventevole mobilitazione di donne e uomini spaventati. Per questo il grande evento del primo decennio del nuovo millennio è stato il momento in cui la politica anti-immigrazione è diventata largamente diffusa e ha reciso il cordone ombelicale che la legava ai partiti minoritari di estrema destra.

Dalla Francia alla Germania, dall'Austria all'Olanda, cavalcando il nuovo spirito di orgoglio della propria identità storica e culturale, i partiti maggioritari ora trovano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti tenuti a adattarsi ai valori culturali che definiscono la società ospite: «È il nostro Paese, prendere o lasciare», questo è il messaggio.

I progressisti, ovviamente, sono inorriditi da questa forma di razzismo populista. Tuttavia, un esame più attento rivela quanto la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto delle differenze condividano con coloro che si oppongono all'immigrazione il bisogno di tenere gli altri a debita distanza. «Gli altri sono okay, li rispetto», dicono i progressisti, «ma non devono invadere troppo il mio spazio. Nel momento in cui lo fanno, mi molestano... Sostengo senza riserve l'affermazione della propria identità, ma non sono disposto ad ascoltare musica rap ad alto volume». Ciò che si sta imponendo come diritto umano centrale nelle società del tardo capitalismo è il diritto di non essere molestati, ossia il diritto di essere tenuti a distanza di sicurezza dagli altri. Il posto di un terrorista i cui piani micidiali debbano essere sventati è a Guantánamo, la zona vuota sottratta all'esercizio della legge; un ideologo del fondamentalismo dovrebbe essere ridotto al silenzio perché istiga all'odio. Persone simili sono soggetti tossici che compromettono la mia tranquillità.

Sul mercato odierno troviamo un'intera serie di prodotti privati delle loro proprietà nocive: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcol. E la lista potrebbe continuare: che dire del sesso virtuale, ossia sesso senza sesso? E della dottrina di Colin Powell sulla guerra senza vittime (del nostro schieramento, naturalmente), ossia guerra senza guerra? E dell'attuale ridefinizione della politica come arte dei tecnici dell'amministrazione, ossia politica senza politica? Tutto ciò conduce all'odierno tollerante multiculturalismo progressista come esperienza dell'Altro privato della sua Alterità: l'Altro decaffeinato.

Il meccanismo di questa neutralizzazione è stato teorizzato nella maniera migliore possibile, come ho detto spesso, nel 1938 da Robert Brasillach, l'intellettuale fascista francese, che si vedeva come un antisemita «moderato» e inventò la formula dell'antisemitismo ragionevole. «Ci concediamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin al cinema, un mezzo ebreo; di ammirare Proust, un mezzo ebreo; di applaudire Yehudi Menuhin, un ebreo... Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le sempre imprevedibili azioni dell'antisemitismo istintivo sia organizzare un antisemitismo ragionevole». Non è forse lo stesso atteggiamento che troviamo diffuso nel modo in cui i nostri governi trattano la «minaccia immigrazione»?

Dopo avere sdegnosamente respinto il razzismo populista esplicito in quanto «irragionevole» e inaccettabile per i nostri standard democratici, appoggiano misure «ragionevolmente» razziste, ovvero, come ci dicono i Brasillach del giorno d'oggi, alcuni dei quali persino socialdemocratici: «Ci concediamo il permesso di applaudire atleti africani ed est-europei, medici asiatici, programmatori di software indiani. Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore di intralciare le imprevedibili, violente azioni istintive anti-immigrazione sia organizzare una protezione anti-immigrazione ragionevole».

Questa prospettiva di disintossicazione del prossimo suggerisce un netto passaggio dalla barbarie diretta alla barbarie dal volto umano. Rivela la regressione dall'amore cristiano del prossimo all'istinto pagano di privilegiare la propria tribù rispetto all'Altro, il barbaro. Seppure travestita da difesa di valori cristiani, costituisce la minaccia maggiore all'eredità culturale del cristianesimo.

[Traduzione di Alba Bariffi] http://www3.lastampa.it  14/11/2011

Slavoj Žižek, 62 anni, sloveno di Lubiana, è un filosofo (e psicanalista) tra i più popolari d'oggi. Il testo di cui qui proponiamo uno stralcio è pubblicato sull' Almanacco Guanda 2011 (pp. 149, 25), curato da Ranieri Polese, che ha per titolo «Con quella faccia. L'Italia è razzista? Dove porta la politica della paura». Tra gli altri autori Gianni Biondillo, Andrea Camilleri, Luciano Canfora, Franco Cardini, Marcello Fois, Edoardo Nesi.

 
Di Marylise Veillon (del 25/11/2011 @ 09:39:25, in Europa, visitato 1723 volte)

Da Roma_Francais

MENDICANTI IN TRIBUNALE: "LA CACCIA AI ROM CONTINUA"

Intervista: due rumene compaiono lunedì davanti al Tribunale di Bobigny per "abbandono" dopo essere state arrestate mentre mendicavano insieme ai loro figli. Il loro avvocato denuncia un'infrazione aberrante e chiaramente contro i rom.

TF1 NEWS:
"In quali circostanze sono state arrestate le Sue due clienti e cosa viene esattamente contestato loro?"
HENRI BRAUN, AVVOCATO:
"Maria e Genovita sono due giovani donne rom, originarie dalla Romania. Hanno circa venti anni e sono arrivate in Francia alcuni mesi fa, con i loro mariti e i loro figli. Come tutte le cittadine rumene e bulgare in Francia, non hanno accesso al mercato del lavoro. Vivevano quindi in condizioni molto precarie, e sono state costrette a mendicare per sopravvivere e nutrire i loro figli. Sono state arrestate il 6 settembre al Bourget, mentre chiedevano l'elemosina per strada, con i loro figli. Questi ultimi sono stati loro tolti per otto giorni, poi finalmente restituiti. Da allora, sono citate per "abbandono" presso il Tribunale di Bobigny.
Questo reato, che figura nel C.P. Art. 227-15 comma 2, è stato creato per mezzo della legge di sicurezza interna del 2003. Stipula che costituisce un abbandono, in particolare il fatto di mantenere un bambino di meno di sei anni sulla via pubblica o in uno spazio riservato al trasporto collettivo di viaggiatori, con lo scopo di sollecitare la generosità dei passanti. La sanzione prevista è di 7 anni di reclusione e di € 100'000 di multa. In seguito all'istituzione di questo reato, c'è stata una prima ondata di controlli nel 2004 e nel 2005. Poi, il 12 ottobre 2005, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che impone alla procura di apportare la prova che la salute del bambino è stata intaccata, perché il reato possa essere costituito. Siccome non è mai il caso, gli arresti si sono fermati di netto.
Ma l'attacco è chiaramente ripartito, dall'estate scorsa. La caccia ai rom continua. Questo si ricollega all'offensiva lanciata un po' più di un anno fa, con lo smantellamento di tutti i campi nomadi, in particolare nella zona di Seine-Saint-Denis."

TF1 News:
"Questo lunedì sarà esaminata una questione prioritaria di costituzionalità (QPC), depositata da Lei a metà ottobre, durante una prima udienza: perché Lei si augura che questo testo venga abrogato?"
H.B:
"Ciò che sorprende, nei fascicoli delle mie due clienti, è che possiamo leggere che i poliziotti hanno dichiarato abbiamo reperito e interpellato una donna di tipologia rom. Il mio obiettivo è di fare sparire quest'articolo di legge, che considero chiaramente contro i rom, in quanto fino ad oggi, ho visto soltanto rom essere incriminati sulla base dell'art. 227 -15 comma 2. Quest'ultimo è stato pensato in un senso discriminatorio ed è applicato in modo discriminatorio. Semmai la mia QPC dovesse essere rifiutata oggi, mi rivolgerò alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, nel Lussemburgo, per violazione della Carta europea dei diritti fondamentali. Ritengo infatti che la mendicità non sia un reato. E quanto bene verrebbe stabilito che lo sia, la sanzione proposta è totalmente spropositata. E' aberrante. Come è possibile che un furto semplice sia punito con tre anni di reclusione, mentre il semplice fatto di mendicare sia punito con sette anni?"

TF1 News:
"E' il fatto di mendicare con il proprio figlio, che è punito con sette anni di reclusione."
H.B.:
"Sono d'accordo, ma il problema è che queste donne non hanno accesso né ai nidi, né ai baby-parking. Quindi, come devono fare? La giustizia penale è lì per reprimere dei comportamenti nocivi nei confronti della società. Ma nella fattispecie, si mira semplicemente a stigmatizzare una parte della popolazione. Trovo questo insopportabile. E senza fare alcun amalgama o volere tentare di paragonare l'incomparabile, è ancora più insopportabile per il fatto che gli zigani sono stati spesso stigmatizzati nella storia."

TF1 News:
"Nello stesso tempo però, la nostra società non può tollerare di vedere bambini mendicare fuori tutto il giorno, con i loro genitori."
H.B.:
"La questione non è di sapere se si approva o meno moralmente questa situazione. Nel fondo, sono ovviamente completamente d'accordo nel dire che il posto dei bambini di meno di sei anni non è per strada a mendicare. La vera questione è di capire se questo merita una repressione penale. All'ora attuale, non facciamo nulla per questi bambini. Un inizio di soluzione sarebbe di dare a questa gente l'accesso al lavoro. Hanno piene capacità per farlo. Allora, non avranno più bisogno di mendicare."

TF1 News:
"La votazione di questo articolo di legge mirava ugualmente a mette un fermo alle reti organizzate..."
H.B.:
"Può darsi che ciò esista, ma io non ne ho mai visto. Ho semplicemente visto mariti e donne che provavano ad avere una vita migliore per i loro figli. Ma se fosse il caso, esiste un altro testo che condanna lo sfruttamento della mendicità e che non ho ancora mai visto applicato. Allora iniziamo da questo."

TF1 News:
"Durante la prima udienza a metà ottobre, un'altra donna arrestata alla Courneuve e alla quale si rimproverava gli stessi fatti, è stata finalmente rilasciata. Lei si aspetta la stessa clemenza da parte del Tribunale, nei confronti delle Sue clienti?"
H.B.:
"Sono molto fiducioso in quanto all'ottenimento del rilascio, in quanto gli esami clinici effettuati sui bambini hanno dimostrato che godono di perfetta salute. I servizi di polizia stessi, hanno giusto constatato che il pannolino di uno di loro era stato cambiato con un po' di ritardo, e che di conseguenza, il piccolo aveva il sederino leggermente arrossato... Siamo quindi lontano dal maltrattamento o dall'abbandono. Però il mio obiettivo si sposta più in là del rilascio. Il mio obiettivo, come ve l'ho detto, è di ottenere l'abrogazione di questo testo di legge."

 
Di Fabrizio (del 19/11/2011 @ 09:50:02, in Europa, visitato 1866 volte)

Chiara-di-notte.blogspot.com

In un commento al mio terzo articolo sull'intolleranza fra tzigani e gadje' in Ungheria, mi e' stato chiesto di spiegare qualcosa di piu' riguardo all'Autogoverno Nazionale Rom di cui, appunto, parlo. Non smentendomi mai quando qualcosa mi prende e sento di essere in grado di dare un piccolo contributo - ed avendo un po' di tempo libero - avevo preso la tastiera e iniziato a scrivere, salvo accorgermi alla fine che la mia risposta era venuta talmente lunga da avere la struttura non piu' di un semplice commento, ma di un nuovo articolo che avrebbe potuto benissimo integrare gli altri tre gia' scritti sull'argomento. Ecco dunque, per chi fosse interessato, di cosa si tratta quando si parla di sistema di autogoverno nazionale per le minoranze.

Creato nel 1993, il sistema di autogoverno avrebbe dovuto permettere ad ognuna delle centotrentadue minoranze riconosciute in Ungheria di stabilire forme locali, regionali e nazionali di autogoverno. L'Autogoverno Nazionale Rom (Országos Roma Önkormányzat oppure Országos Cigány Önkormányzat), dunque, non si differenzia da ogni altro autogoverno nazionale delle minoranze, come ad esempio quello rumeno o tedesco che formalmente e sostanzialmente hanno identiche funzioni.

Questi organi elettivi, che sono paralleli alle principali istituzioni, ma non ne sostituiscono le funzioni, hanno soprattutto il compito di prendere decisioni in materia di istruzione locale, sulla protezione delle tradizioni e della cultura, e sulla lingua da utilizzare nelle istituzioni pubbliche e nei mezzi di comunicazione stampati ed elettronici.

"Il nostro obiettivo e' quello di rappresentare i Rom ed aiutare il governo locale a costruire ed operare in linea con quelle che sono le necessita' della comunita'. E' importante per noi la legalita', la professionalita' e la moralita'. Il nostro interesse comune e' quello di preservare i nostri valori e la nostra identita', concorrendo allo sviluppo rurale e alla creazione di nuovi posti di lavoro. Crediamo che in molti casi lo sviluppo vada oltre gli interessi specifici delle comunita' locali, i comuni, le province, perche' in tutto il paese, operando insieme, possiamo rafforzarci a vicenda."

Questo e' cio' che sta scritto nei propositi e nelle intenzioni, e i rappresentanti dell'Autogoverno Nazionale Rom tentano di farlo contribuendo a tutte le questioni che riguardano la minoranza Rom locale attraverso l'accesso garantito alle riunioni del consiglio comunale, oppure tramite altre funzioni speciali che vengono stabilite dallo stato centrale a seconda delle esigenze contingenti del momento.

Oggi ci sono oltre 1.100 Autogoverni Rom locali in Ungheria e perche' un autogoverno sia formato trenta persone, appartenenti ad un gruppo di minoranza e residenti nello stesso comune, devono registrarsi e partecipare alle elezioni.

Fin dall'inizio, giuristi, studiosi e politici vari hanno espresso preoccupazione per un sistema di governo separato in grado di deliberare sulle questioni delle minoranze. Cio' anche a causa di vari ed evidenti problemi procedurali. Nel 1997, in una conferenza a tre (il Consiglio d'Europa, l'Ufficio del premier ungherese, e i rappresentanti degli autogoverni nazionali) che aveva lo scopo di valutare il funzionamento del sistema, sono stati individuati molti problemi: competenze poco chiare, mancanza di differenziazione tra i bisogni delle varie minoranze, carenze di finanziamento, nonche' una scarsa emancipazione degli elettori, indipendentemente dall'appartenenza etnica. Quest'ultimo problema, combinato al fatto dei molti candidati che cercavano di rappresentare gruppi di minoranza a cui non appartenevano, ha portato a casi, come quello nella comunita' di Jászladány, di non rom (eletti da elettori non rom), che in realta' avevano come finalita' quella di limitare l'efficacia dell'Autogoverno Nazionale Rom locale.

Per risolvere alcuni di questi problemi, nel 2005, dopo anni di negoziati, il Parlamento ungherese ha approvato una serie di modifiche al sistema di autogoverno. I cambiamenti riguardano una piu' chiara definizione delle competenze, il rapporto con il governo locale, e l'istituzione di meccanismi di maggiore trasparenza per supervisionare i fondi destinati alle varie minoranze. Queste modifiche hanno anche corretto parzialmente il problema che nell'autogoverno fossero eletti cittadini non appartenenti a quel gruppo di minoranza, esigendo che i candidati fossero nominati solo dagli appartenenti alla minoranza stessa e che gli elettori registrati per eleggerli dovessero ufficialmente dichiarare la loro etnia.

Ma anche se le modifiche hanno prodotto dei miglioramenti, non hanno affrontato i problemi inerenti al modo in cui il sistema e' stato progettato, cioe' la tendenza a marginalizzare le questioni delle minoranze, depositandole su una struttura semi-governativa parallela molto limitata nelle sue funzioni, piuttosto che affrontarle con veri e propri strumenti istituzionali.

Percio', seppur il sistema sia chiamato "autogoverno", tale termine e' improprio in quanto la gamma delle sue competenze e' ben lungi da quelle che dovrebbe avere un vero autogoverno. L'Autogoverno Nazionale Rom non ha, infatti, l'autorita' di agire al di fuori di un ambito molto limitato di funzioni ed assomiglia piu' ad una ONG che ad un organo elettivo. L'uso del termine "autogoverno", dunque, non e' solo impreciso, ma in realta' danneggia la credibilita' e la legittimita' dell'intero sistema tra i rom, in quanto suscita aspettative irrealistiche che non vengono quasi mai realizzate nei fatti.

Tutto il difetto sta nel modo stesso in cui il sistema e' stato progettato che gli impedisce di avere un impatto significativo sui temi di maggiore interesse per la maggioranza dei rom e ne ostacola subdolamente l'integrazione politica. Cio' e' dovuto al fatto che non era una vera integrazione politica l'intento iniziale del governo quando lo ha creato. Piuttosto, il vero obiettivo era quello di dare alle minoranze una salvaguardia per preservare le diverse tradizioni culturali e linguistiche, ma soprattutto - secondo l'opinione di molti – era un modo per incoraggiare i paesi vicini a fare la stessa cosa, cosi' da permettere alle comunita' di minoranza ungherese lo stesso privilegio.

Gli Autogoverni Nazionali Rom, in ogni caso, non sono adeguatamente finanziati. Soprattutto a livello locale mancano finanziamenti sufficienti per svolgere entrambe le funzioni che erano l'intento originario del sistema: quella socio-culturale, e quella di promuovere ulteriori progetti per migliorare le condizioni di vita dei membri della comunita'. Con un budget bassissimo, di appena tremila dollari l'anno, destinato ad ogni "cellula", senza che vengano considerate le dimensioni della citta' o della popolazione, un Autogoverno Nazionale Rom da solo non puo' coprire che un modesto stipendio per un dipendente a tempo parziale incaricato di coordinare il lavoro dei suoi rappresentanti eletti. Per tale motivo, i fondi stanziati dallo stato vengono spesso integrati anche con aiuti che giungono a sostegno, come finanziamenti da parte di privati e enti religiosi.

Gli Autogoverni Nazionali Rom sono autorizzati a distribuire tali fondi sottoforma di aiuti a imprese, sostegno a famiglie oppure come borse di studio, e cio' puo', in molti casi, essere fonte di manipolazione e uso improprio di questi soldi. Ovviamente, come si puo' ben capire, tutto cio' crea contrasti e conflitti all'interno della stessa comunita' rom.

Il mio parere - e non solo il mio - espresso piu' volte in varie occasioni, e' che pur riconoscendo le carenze inerenti alla progettazione iniziale del sistema, gli Autogoverni Nazionali Rom debbano innanzi tutto favorire una maggiore partecipazione (ed inclusione) politica degli appartenenti alla comunita'. Cosa che non puo' avvenire se non si allarga la base di persone istruite. Il rischio, infatti, e'che a gestire gli autogoverni e ad essere eletti siano in fondo sempre le stesse persone, per questo necessitano maggiori fondi a sostegno dell'educazione e dell'istruzione. Oltre a cio', Autogoverni Nazionali Rom e ONG, insieme, dovrebbero svolgere non solo un ruolo piu' importante nel monitoraggio delle politiche dei governi locali e nazionali, soprattutto per cio' che riguarda la trasparenza nei criteri con i quali vengono assegnati e ripartiti i fondi, ma anche una funzione istituzionale di monitoraggio ed eventuale denuncia laddove venga ravvisata una violazione dei diritti umani.

 

DA PS, IL 10 NOVEMBRE 2011


La Corte europea dei diritti dell'uomo ha emesso una sentenza contro lo Stato della Slovacchia nel caso della presunta sterilizzazione forzata di una donna rom nell'ospedale di Presov nel 2000, ha informato ieri il Centro di consulenza per i diritti civili e umani con un comunicato a tutti gli organi di stampa. «Accogliamo con favore il verdetto. La Corte ha confermato ciò che il Centro di consulenza andava sostenendo sin dalla sua costituzione un anno fa: donne rom hanno subito una sterilizzazione forzata negli ospedali senza il loro consenso informato», ha dichiarato Vanda Durbakova, avvocato di Barbara Bukovsky, la donna rom che ha fatto la denuncia.

La Bukovsky avrebbe presumibilmente firmato un modulo di consenso per la sterilizzazione nel reparto maternità dopo che, alla nascita del suo bambino, le sarebbe stato detto che lei o il prossimo figlio rischiavano la morte se non si fosse proceduto alla sterilizzazione. La donna ha affermato che all'epoca non sapeva cosa si intendesse con il termine "sterilizzazione".

La Corte europea dei diritti dell'uomo ha respinto l'affermazione che la sterilizzazione si sarebbe dovuta fare a causa di "motivi di salute", dato che questo tipo di procedura non è classificata come "salva-vita". La Corte ha anche assegnato alla donna il compenso di 31.000 euro oltre ad altri 12.000 per coprire le spese relative al processo.

(La Redazione)


NdR: il comunicato (.pdf in inglese) di Poradňa pre občianske a ľudské práva che sollevò il caso

 
Di Fabrizio (del 14/11/2011 @ 09:33:42, in Europa, visitato 1329 volte)
Chiara-di-notte.blogspot.com

La situazione e' drammaticamente peggiorata dopo il 2008. In passato, una famiglia rom di cinque persone avrebbe potuto, con i sussidi, arrivare fino al 14 del mese. Poi, una volta finito il denaro, avrebbe potuto ottenere un credito presso i negozi del luogo e gli uomini, con i loro lavori occasionali, costruzione di muri, riparazione di tetti, eccetera, sarebbero riusciti a guadagnare il necessario per far sopravvivere la famiglia l'altra meta' del mese.

Ma con la crisi finanziaria, la gente ha smesso di spendere soldi per questi lavoretti e i negozi non fanno piu' credito. Anche se gli tzigani piu' poveri sono riusciti a sopravvivere - a stento - negli ultimi vent'anni, oggi con la crisi economica sono davvero in una situazione tragica, ed e' gia' da tempo che si inizia ad osservare un fenomeno che per chi e' rom e' davvero sintomo di disperazione: figli che, per mancanza di mezzi di sussistenza, vengono abbandonati agli orfanotrofi nella speranza che almeno trovino un piatto caldo e un tetto.

Inutile che stia qui a raccontare quanto sia dura la vita in un orfanotrofio. In mezzo a centinaia di bambini tutti disperati, e trascurati da chi si dovrebbe prendere cura di loro, che per menefreghismo e indolenza vengono lasciati e se stessi, senza regole, si forma una generazione di violenti pronti a tutto pur di conquistarsi uno spazio di sopravvivenza, nel tentativo di emergere sugli altri e non esserne a loro volta annientati, cosi' da perdere completamente il senso stesso di appartenenza ad una comunita'. Anche se qualcuno, di tanto in tanto, diverso per carattere o per particolare capacita', riesce poi ad emergere non con la forza ma con l'intelletto, ed accede a qualcosa di piu' elevato, riscoprendo il valore della cultura e della solidarieta' fra persone.

“Mentre nella maggior parte dell'Europa occidentale la questione rom e' marginale, in Ungheria, a causa delle dimensioni della comunita', delle conseguenze disastrose del comunismo e del fallimento delle politiche degli ultimi vent'anni, tale questione e' diventata centrale.” E' cio' che dichiara Balog Zoltán, per dieci anni pastore protestante prima di diventare ministro e il piu' fidato fra i consiglieri di Orban Viktor, il premier ungherese.

Magro, barba grigia, il cinquantatreenne Balog, oggi e' visto come la vera coscienza del governo conservatore ungherese. E' colui che e' stato dietro alla decisione del governo, durante il suo semestre di presidenza dell'Unione europea, di portare il problema dell'integrazione dei rom a livello europeo come una priorita' assoluta.

Per Balog - che ha dato al suo governo tre anni di tempo per affrontare il problema in modo efficace e risolverlo preannunciando in caso contrario il disastro - questa esplosione del fenomeno dei vigilantes in divisa in ghetti di Gyöngyöspata e di molte altre localita' ungheresi, e' il sintomo di una crisi nazionale molto profonda, ma non perche' presagisce l'ascesa dei neo-nazisti. Il problema e' secondo lui ancor piu' serio.

"La vera differenza tra il nostro problema rom e quello dell'Europa occidentale”, dice Balog “sta nel grado di rischio. In Italia e in Spagna si parla di integrare un gruppo marginale, piccolo, quindi e' tutto sommato esclusivamente una mera questione di diritti umani. Ma in Ungheria si tratta di una questione di strategia nazionale che riguarda tutto il paese. I rom hanno il doppio del tasso di natalita' degli altri ungheresi. La maggioranza della popolazione ungherese sta invecchiando, mentre circa la meta' della popolazione rom e' sotto i vent'anni. Nelle citta' del nord-est, fra dieci anni, ogni due bambini che nasceranno, uno sara' rom. Ma la disoccupazione per i rom e' dell'85%, e un terzo dei bambini non finiscono neppure la scuola elementare. Quindi questo non e' un problema come gli altri, ma e' il problema principale.”

Come le altre minoranze in Ungheria, la rumena, la tedesca e gli altri gruppi etnici, gli tzigani hanno una certa autonomia nella gestione dei propri affari, attraverso quello che e' l'Autogoverno Nazionale Rom. Per Balog, la risposta alla crisi spetta alle sia alle autorita' nazionali ungheresi, sia a quelle rom per creare, insieme, centomila nuovi posti di lavoro, a partire dai lavori pubblici da effettuare nelle comunita' in cui gli stessi rom vivono, e al tempo stesso aumentando massicciamente gli standard educativi dei giovani, avviandone il prossimo anno ventimila alla formazione professionale e preparandone altri cinquemila, dei piu' brillanti, per l'universita'.

Tutto cio' dovrebbe iniziare a mostrare i primi risultati in tre anni. La speranza di Balog e' che sul lungo periodo i rom si trasformino da problema sociale in un vantaggio per l'economia ungherese. Infatti, se il loro tasso di occupazione salisse fino a raggiungere la media regionale, cio' potrebbe significare una crescita compresa tra il 4 e il 6 per cento del prodotto interno lordo tale da poter innescare di nuovo un efficiente sistema di welfare.

Questo progetto, nonostante niente sia verificato e si tratti soprattutto di “proiezioni” che dovrebbero essere poi confermate dai risultati, e' controbattuto ed osteggiato da entrambe le parti. Balog e' sotto attacco da chi difende i rom per l'approccio autoritario del suo governo, ma anche dai gadje', soprattutto dai rappresentanti dei piu' poveri, che vedono "ancora una volta" un favore fatto ai rom.

Ma per Balog la necessita' principale e' quella di mandare un chiaro messaggio politico alla maggioranza degli ungheresi per far capire quanto la questione sia importante per tutti e come cio', piu' che per gli tzigani, sia un vantaggio per l'intera nazione. “Se infatti questi cambiamenti non saranno fatti” dice ancora Balog, “l'intera nostra struttura sociale, economica e del mercato del lavoro crollera', portando l'Ungheria sull'orlo del baratro e del conflitto civile. La questione rom, dunque, e' un problema di sopravvivenza nazionale".

A una trentina di chilometri da Gyöngyöspata c'e' un altro villaggio: Tarnabod. Abbandonato dopo il comunismo, e lasciato in balia dei piu' disperati (rom e non-rom) che non avevano un posto dove andare, e' stato preso in mano da giovani operatori sociali, uomini e donne, tzigani e gadje' di provenienza anche straniera. Oggi, in un'antica stalla riadattata a capannone, si possono vedere dozzine di persone al lavoro mentre smontano vecchi computer e altri apparecchi tecnologici obsoleti per il riciclarne i pezzi. Tutti percepiscono il salario minimo nazionale.

In altri edifici di Tarnabod, riadattati e restaurati, sono state create una scuola materna, una mensa per bambini e genitori, un centro di cultura con una sala proiezioni, un centro di insegnamento dopo scuola, un'infermeria, un centro sportivo. Ovunque i pavimenti sono stati sostituiti, le pareti ridipinte, i tetti riparati. C'e' una chiesa, una squadra di calcio, un gruppo teatrale. In biblioteca gli scaffali, tutti allineati, sono pieni di libri che vengono dati in prestito e sul muro campeggia il ritratto del primo e finora unico santo rom: Ceferino Giménez Malla.

Oltre settecento persone, uomini donne e bambini, a Tarnabod, vivono come una grande famiglia. Alcune sono rom, altre no e non esiste un modo facile per distinguerle. Ci sono voluti sette anni per arrivare a questo, ma dopo la poverta' e la disperazione di Gyöngyöspata, Tarnabod rappresenta l'altra faccia della medaglia, un'oasi felice in cui, a volte, confuso in mezzo alla gente, non e' difficile incontrarvi anche Choli Daróczi József, il piu' famoso scrittore rom ungherese vivente.

Come sostiene chi dirige il progetto, tale lavoro per avere successo su scala nazionale ed essere esportato anche in altre citta' e villaggi, creando nuovi posti di lavoro partendo proprio dalle comunita' tzigane, come appunto auspica anche Balog, deve avere il sostegno totale del governo ungherese e dell'Autogoverno Nazionale Rom. Solo cosi' non arriveranno piu' vigilantes vestiti di nero a terrorizzare la gente, e ai razzisti saranno tolti gli argomenti con i quali, oggi, si aizzano le persone le une contro le altre.


Questo il mio commento all'articolo originale:

Vorrei capire meglio il ruolo dell'Autogoverno Nazionale Rom.
In Italia ne ho sentito parlare qualche volta da "esperti" ed "intellettuali" (due parole di cui istintivamente mi fido poco) ungheresi, con toni diversi.
La mia impressione da profano, è che un organismo del genere in tempi di vacche grasse ha contribuito a diffondere l'immagine di Ungheria come paese all'avanguardia nell'integrazione di Rom.
Ma che col sopraggiungere della crisi, soprattutto dato la sua composizione, veda il proprio ruolo compromesso e rischi di elargire qualche piccola regalia agli "amici degli amici", senza riuscire ad essere un interlocutore "politico" affidabile.

La risposta:

Avevo iniziato a scriverti la risposta. Poi la tastiera mi ha preso la mano ed e' venuto un commento talmente lungo che forse merita farne un post. Tu che ne pensi?

Il suo nuovo articolo lo trovate QUI, lo riprenderò in Mahalla tra qualche giorno

 
Di Fabrizio (del 13/11/2011 @ 09:17:07, in Europa, visitato 1250 volte)

"Siamo nomadi, non criminali" Il Resto del Carlino di Tommaso Moretto

Il capo della carovana dei gitani che si sono fermati a Villamarzana "In Italia ci trattano male"

Rovigo, 8 novembre 2011 - Sono tornate le carovane di nomadi vicino al casello dell’autostrada a Villamarzana. Quelli che c’erano la settimana scorsa si erano spostati poi a Costa di Rovigo, ma domenica se ne sono andati di nuovo, non si sa verso dove. La gente del posto ha ricominciato preoccupata a chiamare il sindaco Valerio Galvan. Questa volta non sono più di cinque o sei roulotte. Per capire chi sono questi zingari che nelle loro peregrinazioni si fermano in Polesine siamo andati a conoscerli ieri mattina. Appena siamo scesi dalla macchina e ci siamo avvicinati si è fatta sotto una donna con un grembiule a fiorellini come quelli delle contadine di una volta. Pochi denti in bocca ma il sorriso stampato. Stava mescolando una zuppa in un pentolone e ci è venuta incontro. «Siamo del Resto del Carlino, vogliamo conoscervi e farvi qualche domanda». Prima ancora di stringerci la mano ci hanno chiesto dei soldi: «Quanto avete in tasca? Dateci qualcosa per dar da mangiare ai bambini e vi facciamo fare l’intervista».

Da dove venite?
«Dalla Spagna come origini, ma stiamo spesso in Francia. La maggior parte della nostra comunità sta in Francia».

Come mai siete qui nei pressi di Rovigo?
«Siamo venuti per i morti, abbiamo dei parenti a 50 chilometri di distanza». E pronuncia il cognome della famiglia ma non si capisce bene se sia Braidi, Bradi o Bradic.

Lei come si chiama?
«Cueves, Ivanovic Manolo Cueves». Chiestogli di scriverlo su un foglio non siamo sicuri che abbia scritto Cueveces, Cueves o qualcos’altro. Allora lo abbiamo scritto noi in stampatello perché lo leggesse e ci desse conferma: «Non so leggere» è stata la risposta. Il capo della carovana però era il più ben disposto nei nostri confronti: si è fatto fotografare senza chiedere soldi, mentre l’uomo più giovane che gli stava di fronte proponeva la foto di gruppo per 20 euro. «Noi siamo gitani, zingari. Ma gli zingari non sono tutti cattivi o tutti ladri. Qui in Italia ci trattano sempre male. Ci cacciano dappertutto, ma noi non facciamo male a nessuno», ci tiene a far sapere. «Noi siamo una famiglia che gira in tutta l’Europa. Esistiamo da 2.000 anni, prima giravamo con i cavalli, ora ci siamo un po’ modernizzati e giriamo con le roulotte, ma siamo sempre noi».

In quanti siete, del vostro gruppo?
«Siamo 10.000 roulotte in tutta Europa, stiamo tanto in Francia perché in Italia ci mandano via».

Qui a Villamarzana come vi siete trovati?
«Bene, il sindaco e i carabinieri sono stati gentili».

In Francia vi aiutano?
«Sì, lo Stato ci dà dei soldi. A me, per la mia famiglia, moglie e due figli, mi danno 800 euro al mese. E poi Sarkozy ha obbligato ogni comune sopra i 5.000 abitanti ad attrezzare un campo nomadi».

Tommaso Moretto

 
Di Fabrizio (del 07/11/2011 @ 09:02:48, in Europa, visitato 1578 volte)

Chiara-di-notte.blogspot.com

Per cercare di comprendere il perche' delle gravi tensioni che esistono fra rom e non rom, pero', non basta solo attribuire la responsabilita' a certe frange estremiste dei gadje', che sono sicuramente il problema principale e piu' immediato, ma non l'unico. Occorre anche individuare cio' che e' legato alle diverse appartenenze all'interno della comunita' tzigana e, cosa importante, tener conto della storia recente dell'Ungheria, che come quasi tutti i paesi dell'est Europa ha attraversato decenni di regime comunista.

Sebbene, quando si parla di tzigani, ci si riferisca spesso ad un'unica entita' linguistica e culturale, le cose stanno in verita' in modo un po' diverso, poiche' le anime che compongono la comunita' sono almeno tre. Ci sono i Romungro, i rom di lingua ungherese, che rappresentano circa il 70% degli tzigani nel paese, i cui antenati hanno vissuto in Ungheria da cosi' tanto tempo da diventarne elemento culturale integrante e che includono la maggior parte degli artisti e degli intellettuali. Ci sono poi i Vlach (20% del totale), discendenti degli zingari fuggiti dalla Romania dov'erano tenuti schiavi nel XIX secolo, che parlano la lingua Lovari. Infine, i Beas (10%) che parlano un antico dialetto rom, giunti in terra magiara due secoli fa.

Tutto questo crea inevitabili incomprensioni perche' non e' solo la lingua che differenzia le varie anime che compongono la comunita', ma e' la stessa concezione di "appartenenza". I Romungro si sentono sia tzigani che ungheresi. Un mix di due culture in cui credono di aver assorbito il meglio di entrambe, essendosi da tempo spogliati di tutto cio' che ritenevano in contrasto con una convivenza civile con i gadje'. I Vlach e i Beas, invece, respingono generalmente qualsiasi tipo di integrazione, rimanendo attaccati agli usi e alle tradizioni degli antenati, rifiutandosi in molti casi di imparare la lingua ed essendo refrattari a dare un'istruzione ai loro figli.

Ma a parte il fattore che riguarda le strade separate percorse dai vari gruppi, come molte altre cose, i problemi in Gyöngyöspata e non solo in Gyöngyöspata, hanno origine dal comunismo, ovvero dal suo crollo. Nel periodo comunista, tutti dovevano lavorare. Chi non lo si faceva, andava in prigione. Il regime comunista non ha mai voluto considerare gli zingari come minoranza, ma piuttosto come un problema sociale. Nel 1961, il Partito Socialista Ungherese dei Lavoratori, scriveva: "Nonostante alcune caratteristiche etniche, i Rom non costituiscono una nazionalita'. Coloro che lo affermano preservano la segregazione degli zingari e rallentano la loro integrazione nella societa'". Gli zingari erano dunque, come tutti gli altri, semplicemente dei proletari che avevano bisogno di essere costretti nel sistema, solo piu' indisciplinati.

Sono stati di conseguenza relegati in soluzioni abitative di scarsa qualita' e costretti alla fatica, come tutti gli altri. La maggior parte dei Rom lavorava nelle citta', nelle fabbriche o nei cantieri edili. Quelli di campagna lavoravano in aziende agricole di piccole dimensioni o nei villaggi, impiegati nella raccolta della frutta o scavando nei campi. Il regime non voleva che ottenessero una maggiore istruzione, perche' aveva bisogno di manodopera non qualificata e a buon mercato. Cosi', gli tzigani, come comunita' e come etnia, sono scomparsi per lungo tempo, assorbiti e diluiti nel sistema socialista.

Ma quando quel sistema e' collassato in modo quasi improvviso nel 1989, il problema dei Rom, come molti altri a cui il comunismo aveva promesso risposte definitive, si e' riproposto in modo, per molti versi, piu' acuto di prima. Quando le fabbriche e gli impianti produttivi hanno chiuso alla rinfusa, sono stati i lavoratori non qualificati e di basso livello - rom in particolare - ad essere maggiormente penalizzati e a restare praticamente senza niente di cui vivere. La crisi economica successiva, poi, ha fatto il resto. Si consideri che, negli ultimi due anni, la disoccupazione rom e' aumentata dal 15% all'85%. E oggi sembra che gli tzigani siano entrambe le cose: sia una minoranza etnica che un problema sociale.

In assenza di lavoro, i poveri si sono affidati al welfare. La mungitura del sistema e' diventata cosi' una strategia per sopravvivere. I sussidi di disoccupazione, di maternita', l'assegno per figli e molti altri piccoli benefici, davano almeno la possibilita' di vivere. Non certo per diventare ricchi, ma per uno stile di vita accettabile, e non solo per chi era tzigano, ma per chiunque si trovasse in condizione di profonda poverta'.

Cio' e' durato per quasi vent'anni. Per tenere bassa la tensione sociale e' stato scelto di dedicare sempre piu' fondi al welfare, senza far nulla per creare occupazione o ricostruire un tessuto produttivo nel quale tutte queste persone povere potessero trovare occupazione. Tutti i governi che si sono succeduti da allora, sia di sinistra che di destra, hanno scelto l'immobilismo e di non fare niente al riguardo. Cosi' lo Stato si e' indebitato sempre di piu', arrivando al punto, oggi, da non poter piu' sostenere la spesa sociale. Di questo, cioe' dell'impoverimento del paese, nonostante ad usufruire del welfare siano e siano stati soprattutto i non rom - gli zingari sono solo un terzo delle famiglie in poverta' assoluta - sono ciononostante i rom ad essere accusati, in quanto individuati come i soli ad aver "munto" lo stato.

C'e' inoltre la questione della criminalita'. Esistono due linee di pensiero ovviamente in antitesi fra loro: c'e' chi considera gli zingari solo delle vittime, colpevoli di nient'altro se non di essere quello che sono, ed e' l'idea per cui lottano gli attivisti e le organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti delle minoranze etniche e culturali vestendo i panni di difensori della comunita' rom, e chi, invece - praticamente la stragrande maggioranza degli ungheresi -, la pensa in modo diametralmente opposto.

Cio' genera odio in entrambe le comunita' e la gente ha esperienza quotidiana di questo conflitto. A scuola, molti sono i bambini non rom in conflitto con i loro compagni rom. E' quindi qualcosa che si radica nelle coscienze fin dall'infanzia e spesso sono i genitori stessi ad indicare ai propri figli l'altro come un probabile pericolo. Non sono piu' isolati ormai i casi in cui ci sono aggressioni, sia da parte che dall'altra. Si formano gruppi e bande di giovani al cui naturale conflitto che anima un po' tutti gli adolescenti, si aggiunge anche l'odio etnico. Sono a volte episodi terribili fatti di faide anche cruente in cui a farne le spese, spesso, sono sempre le persone piu' deboli. I bambini e le donne. Gadje' o rom che siano. In mezzo a tutto cio', non mancano pero' manifestazioni di civile convivenza, in cui le due parti si incontrano e si rispettano, ma perche' cio' sia possibile e' necessario che alla base ci sia una educazione, civile ed etica, possibile solo con la scolarizzazione piu' ampia che istruisca i giovani e li sottragga alla strada ed alle attivita' illecite.

Uno dei reati che piu' fa infuriare i gadje' di Gyöngyöspata e' il furto di frutta e verdura dai loro giardini. Gli alberi da frutto sono sempre stati una risorsa per la popolazione locale, ma nessuno si preoccupa piu' di prendersene cura perche', ogni volta che i frutti arrivano a maturazione, gli alberi vengono saccheggiati. D'altro canto non si puo' neppure impedire a chi non ha un lavoro e non sa come nutrire i figli, di appropriarsi di qualcosa che gli e' necessario alla sopravvivenza, anche se appartiene a qualcun altro. Il conflitto e' dunque fra chi possiede qualcosa, anche se poco, e chi non ha davvero niente.

E' quello che le autorita' chiamano reato di sopravvivenza, che in qualche modo e' diventato accettabile e la polizia generalmente tollera. Ma anche se e' cosi' a livello politico, cio' non rispecchia la realta' quotidiana, e non fa altro che aumentare l'intolleranza della gente comune, sempre piu' arrabbiata, verso i rom che vengono considerati "protetti" nei loro reati, anche se si tratta di reati di misera entita'. Tutto questo senza che qualcuno abbia il coraggio di porsi la domanda: se le parti fossero invertite le cose andrebbero diversamente?

 

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