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Il bambino, il pagliaccio e la guerra
Di Fabrizio (del 23/01/2006 @ 10:23:22, in Kumpanija, visitato 2340 volte)

Il giorno della memoria, con il suo strascico di orrori e carneficine...
Mi ricordo i racconti di mia mamma: la guerra, la fame, le persecuzioni, hanno anche un loro lato di inquietante normalità. Anche chi non è passato dai campi d sterminio, ne ha portato il segno.
Dijana Pavlovic', nella sua intervista, raccontava della ricerca svolta per vedere quegli anni con lo spirito di un bambino, che era anche Rom.
Ma cosa accadde realmente in Italia ai nostri nonni? Chi lo visse racconta, e non sembri strano se recupero la memoria di un saltimbanco... un pagliaccio, da un libro che ha il grande pregio di un linguaggio perfettamente comprensibile anche ai bambini. Un libro scritto, come se fosse raccontato a voce, e che proprio così, con la sua grammatica colloquiale, ci introduce nella vita dei Sinti del sanguinoso secolo XX.

Da
STRADA, PATRIA SINTA (U DROM MENGRO CIACIO GAUV) di Gnugo De Bar edizioni FATATRAC
...Mio nonno era Jean De Bar, un sinto valcio che in lingua nostra vuol dire "francese". Scese in Italia a piedi nel 1900.
Lasciò i genitori in Francia e venne a tentare la fortuna, senza niente, a quindici anni, solo con qualche costume da saltimbanco.
Era uno dei più bravi contorsionisti del mondo, ma era bravo anche a fare i salti di scimmia, in altre parole i salti mortali al tappeto: ne faceva sei, sette o anche otto.
I De Bar sono una famiglia di saltimbanchi da sempre.
Anche mio nonno aveva imparato a guadagnarsi la vita così.
Lui posteggiava, che nella nostra lingua significa proprio fare i numeri di saltimbanco all'aperto, davanti alle chiese, nei mercati e nelle fiere.

...
Poi venne il 1939, un bruttissimo anno. L'Italia e la Germania avevano rotto il patto di non belligeranza con la Francia.
Era autunno e la mia famiglia s'era appena fermata al Bacino di Modena per fare la sosta dopo la stagione delle fiere.
Da noi s'usa così infatti. Quando si lavora la famiglia si divide, poi d'inverno ci si ferma tutti insieme.
Quell'anno la famiglia s'era fermata appunto nella Strada Bacino, che oggi credo si chiami Due Canali e c'erano insieme al nonno, lo zio Noti e la zia Mariettina con tutti i propri figli. Lo zio Carlo era invece ancora a fare la stagione in Lombardia e per lui fu una vera fortuna.
Mio padre aveva appena conosciuto la mamma Albertina, detta Gonia, che veniva da una famiglia che girava con le giostre.
Un mattino che piovigginava, mi hanno raccontato, molto presto hanno sentito bussare alle carovane, si sono svegliati e hanno visto le carovane circondate da militari, carabinieri, questura.
Dicevano che si doveva fare quello che volevano loro e che avevano l'ordine di sparare se qualcuno si fosse opposto.
Piantonarono tutto il giorno e la notte intera, prendendo il nome e il cognome a tutti, poi, il mattino seguente, condussero tutti quanti nel campo di concentramento di Prignano e ci portarono via tutti i muli e i cavalli che avevamo.
In Italia con le leggi razziali, fecero molti campi di concentramento per sinti, che nell'intenzione dovevano servire per smistare le nostre famiglie verso la Germania e la Polonia.
So per certo che ce ne erano a Berra di Ferrara, a Fossa di Concordia, a Pescara, e anche un paio nel bolognese che non ricordo più i nomi.
Se una deportazione di sinti non c'è stata, è stato solo per grazia della Regina Elena (che veniva dal Montenegro) che nel 1941 ci difese e impedì quello che poteva avvenire. C'era anche il campo di concentramento di Fossoli per gli ebrei, ma questo lo si conosce. Gli ebrei dopo la guerra hanno avuto il coraggio di parlare, di ricordare.
Noi sinti no. Io, per esempio, mi sono sempre vergognato di dire d'essere nato in un campo di concentramento.
Molti di noi ricordando di Prignano parlano dicendo "quando ci misero da quel contadino...". Ma quale contadino? Quello era un campo di concentramento fatto per sinti, e io ho trovato il coraggio di raccontarlo solo dopo che ho parlato con degli altri gitani spagnoli e altri sinti tedeschi e francesi.
Nella nostra lingua, mi hanno detto che nei loro Paesi dopo la guerra hanno potuto raccontare le loro storie, giornalisti e scrittori si sono preoccupati di quelle violenze che avevano subito e hanno scritto molte cose.
In Italia no, non si trova il coraggio; ma io credo invece che sia giusto raccontare.

PRIGNANO

A Prignano c'era il filo spinato e qualche baracca. poche perché noi avevamo le nostre carovane. Tutto era controllato da carabinieri e militari che nei primi giorni non ci facevamo mai uscire.
Poi, dopo un po' di tempo, decisero che dal campo potevano uscire quelli che volevano andare a spaccare le pietre per le strade a cinque lire al giorno. Così tutti andavano, anche per poter avere qualcosa da mangiare.
Le guardie due volte al giorno facevano l'appello e il contrappello. C'erano dei turni di un'ora e mezza in cui le donne potevano andare in paese a fare la spesa. I carabinieri erano i più cattivi e vigilavano anche all'osteria, tanto che non si riusciva nemmeno a fare una bevuta di un bicchiere di vino in santa pace. Dopo un mese che s'era nel campo venne un ordine del Ministero della Guerra: presero mio nonno Giovanni e lo portarono nel campo di concentramento a Civitella del Tronto perché fu riconosciuto detenuto politico, per il solo fatto di essere cittadino francese. Lì passò sacrifici e miserie insopportabili. Nel 1940 nasco io. Mio padre chiede ai carabinieri di portare la mamma all'ospedale di Sassuolo, ma dicono di no. Così nasco al freddo dentro una carovana al lume di candela.
E' un anno in cui tutti piangevano il nonno per morto, perché non si sapeva dove l'avevano portato e se fosse ancora vivo. Solo nell'autunno del 1940 concessero al nonno di scrivere una lettera. Nessuno ha ancora capito perché il nonno venisse considerato prigioniero politico, mentre poi hanno obbligato i suoi figli a servire la patria andando in guerra. Dal 1941, infatti, dopo l'intercessione della Regina, cominciarono a considerarci non più deportabili ma arruolabili, per cui iniziarono a far partire scaglionati e a forza tutti gli uomini in età.

...
Poi venne il famoso 8 settembre 1943, quando l'Italia fece l'armistizio con gli Alleati.
A Prignano quel giorno vennero i carabinieri e dissero: "Siete liberi di nuovo", ma nessuno ci credeva veramente. E il maresciallo disse: "Potete andare via come facevate prima", ma la nonna, che era il riferimento di tutta la famiglia rimasta, non sapeva più dove andare senza figli e senza il nonno. Così che mentre tutti gli altri sinti si rimettevano in viaggio e lasciavano quel posto maledetto, la nostra famiglia rimase lì ad aspettare che succedesse qualcosa.

IL RITORNO DEL NONNO

Un bel giorno dell'ottobre 1943 videro tornare a casa mio nonno, liberato perché i francesi erano di nuovo amici e ci furono momenti di allegria e di gioia, ma anche di passione per i figli al fronte. Poi mio nonno venne giù a Modena e andò dall'amico commerciante di cavalli, Tullio Pellicani. Quando gli raccontò ciò che aveva subito nel campo di prigionia, il Pellicani si mise a piangere e gli diede a credito un mulo e un cavallo per tornare a fare gli spettacoli: "Scegliti quelli che vuoi, me li pagherai quando avrai i soldi". Poi il nonno tornò a Prignano.

Quando i carabinieri videro il nonno con i due animali lo accusarono subito di furto e telefonarono all'allevatore di Modena che disse: “Io a Giovanni ne avrei dati anche di più, ma lui si è accontentato di quelle due bestie!”

Allora il maresciallo dei carabinieri si scusò con il nonno, gli strinse la mano e lo considerò persona degna di fiducia e di stima.

Dopo qualche giorno la mia famiglia lasciò definitivamente Prignano e si fermò a Modena. Qui si trovarono tutti i figli rimasti della zia Mariettina, dello zio Noti e del nonno, andarono a manghel un po' di vino (manghel significa “andare a chiedere”) e una sera fecro una grande festa d'addio. Al mattino infatti le tre famiglie si divisero: la zia Mariettina con i suoi figli cominciarono a girare nella zona di Milano, lo zio Noti verso Ferrara e la Romagna (poi nel bolognese), noi nel mantovano e nel modenese. Continuavamo a posteggiare, anche se gli uomini nello spettacolo erano pochi perché i figli del nonno erano tutti al fronte.

Visto che mancava anche il toni (il pagliaccio ndr.) per un periodo fu mia mamma a ricoprire quel ruolo. Il suo nome era il più buffo e strano mai sentito in una pista da circo: “Conserva”. Vestita da toni faceva anche le entrate.

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... e il racconto continua, con la Resistenza, il dopoguerra, la crisi del circo. Se riuscite a trovarlo leggetelo, altrimenti qualche altro brano lo ritroverò in seguito.