(immagine da milano.blogosfere.it)
No, non avete sbagliato link, siete sempre su Mahalla. Ma andiamo con ordine:
Un mese fa ero a Sesto san Giovanni, per presentare il progetto
MAHALLA, e dato che contemporaneamente vi si svolgeva il consueto
mercatino del libro usato, avevo fatto qualche scambio. Mi era capitato in mano
L'INNSE CHE C'E' (di Bruno Casati e Renato Sacristani) e in
attesa di iniziare mi leggevo le prime pagine. Lettura interessantissima, non
solo perché negli anni '80-'90 ho avuto trascorsi nel sindacato, ma perché mi ha
fornito la chiave per rompere il ghiaccio e trovare un filo comune con i
presenti.
- Il libro inizia col capitolo Ci vorrebbe Ken Loach.
Cioè, qualcuno che sapesse costruire storie, fare politica, e
dare voce a quell'etnia negletta che si chiama "lavoratori". Io
non sono di sicuro Ken Loach, neanche Franco Rosi o Ermanno
Olmi, ma nel tempo con Mahalla ho cercato di far conoscere
musica, testi, cinema, libri su Rom e Sinti. Perché se sono in
Italia da oltre 600 anni, qualche traccia (magari pop) nella
nostra cultura devono pure averla lasciata, al di là della
perdurante desolazione delle cronache. E contemporaneamente, si
saranno contaminati, tra il mantenimento della loro identità e
una presenza storica nel nostro paese. Eppure, restano
sconosciuti o vengono descritti in maniera stereotipata.
- Poi c'è la location: Lambrate-Rubattino.
A chi non ha letto
I ROM DI RUBATTINO può sembrare strano, ma i Rom, quelli
accampati di fronte alla fabbrica, gli eterni sgomberati
conoscevano bene l'INNSE e i suoi lavoratori. Era lì che andavano a
prendere l'acqua, e quei lavoratori in lotta non gliel'hanno mai
negata. Si chiama SOLIDARIETA', e i due libri raccontano che la
solidarietà è POLITICA, ne è l'ingrediente principale. Senza,
non solo si perde, ma nel lungo periodo si rifluisce nel
privato, nell'interesse di parte. Il fatto che sui due lati di
via Rubattino fossero accampati questi cittadini, che altrimenti
non si sarebbero mai conosciuti, ci porta ad un terzo punto.
- Milano e chi comanda: ecco un altro punto
di riflessione comune, sui due lati della via Rubattino tornano
a intervalli regolari le Forze dell'Ordine e le dichiarazioni
dei vari politici, sono la presenza visibile. Proseguendo nella
lettura del libri, si chiarisce man mano il ruolo nascosto e per
niente secondario di soggetti oscuri ma determinanti della
finanza ed el ramo immobiliare. Sono gli stessa, che in maniera
ancora più nascosta, da qualche anno stanno decidendo il destino
delle aree dove sorgono i campi, comunali o informali che siano.
E poi c'è l'Expo, che nella sua perdurante confusione, sta
monopolizzando il dibattito su cosa fare di tante aree dismesse
o da dismettere, quasi un Piano del Territorio parallelo.
Questi tre punti portano a presentare la questione Rom e Sinti (almeno in una
città come Milano), al di là del folklore o del buonismo, ma come uno dei tanti
nodi per risolvere il NOSTRO e il LORO rapporto con una metropoli del XXI
secolo. Il libro prosegue con molte testimonianze, e si legge con piacere e
interesse. Opinioni a volte diverse, ma tutte ugualmente "partigiane". Una bella
storia, una volta tanto con un lieto fine.
I lavoratori vincono perché hanno coscienza e unità, i Rom no, hanno sempre
adottato strategie differenti; o le hanno adottate i loro "difensori". Ma senza
voler imporre punti di vita altrui, ritengo che una lettura sia utile anche a
quanti decidano cosa debbano fare i Rom (i Rom decidono da soli??
Sinceramente non me ne ero accorto!). Storia di una vertenza lunga,
difficile e ostinata.
Il libro lo trovate a Sesto San Giovanni in via Don Minzoni
129. Ogni mese i volumi si rinnovano: ne troverete migliaia
tra cui scegliere, per tutti i gusti e ogni età. Costo? L'offerta è libera, da 1
euro in su.
Al termine, ci sono alcune sezioni che sono da stimolo ad utili riflessioni,
a cominciare da INNSE e media. I media, riguardo ai due lati di
via Rubattino, hanno avuto un atteggiamento simile: inizialmente di indifferenza
se non di ostilità, che in seguito ha invece sposato tesi e ragioni di chi
resisteva ai due lati della strada. In tre brevi capitoli si tenta di spiegare
come mai STAVOLTA l'Innse abbia bucato il muro di gomma delle cronache.
Lo so, vi ho già tenuti attaccati allo schermo sino troppo, ma c'è un
altro capitolo che addirittura vorrei riportare per intero. Riguarda il rapporto
del mondo del lavoro con le classi intellettuali. Chiederei ai miei
amici attivisti & difensori dei diritti, di leggerselo tutto (con comodo, anche in più riprese) sostituendo ogni
volta alla parola lavoratori quella di Rom. E vedere se viene
in testa qualche idea (lungo da leggere? Sì, è lungo).
Oggi sono gli operai a salire sui tetti domani potrebbe toccare ai
docenti
di Aldo Giannuli Docente di Storia
contemporanea, Università Statale, Facoltà di Scienze Politiche, Milano
Il caso Innse, pur riguardando solo alcune decine di lavoratori, è stato un
"reagente" utilissimo per analizzare le trasformazioni subite dall'ambiente
accademico, nel trentennio che ci separa dalla fine della "grande stagione dei
movimenti" degli anni Settanta.
In quel decennio si saldò un fronte sociale molto composito - fatto di
operai, impiegati, studenti, intellettuali e fasce di lavoratori autonomi - che,
da un lato si unificava nella difesa della democrazia dall'assalto eversivo
della destra, dall'altro, trovava ragion d'essere nell'aspirazione a un modello
sociale diverso e più egualitario.
Tutti gli ambienti sociali ne furono contaminati e persino la corporazione
accademica - una delle più chiuse e gelose dei propri privilegi - subì vistose
fratture interne.
Interi gruppi disciplinari (sociologi, giuslavoristi, storici, politologi,
filosofi, italianisti, psicologi, pedagogisti) si schierarono a grande
maggioranza con i movimenti (primo fra tutti quello sindacale) fornendo il
supporto delle proprie conoscenze, sottoscrivendo appelli ed anche dando vita ad
esperienze formative come quella delle 150 ore (se ne ricorda ancora qualcuno?).
Anche se in dimensioni non maggioritarie, parteciparono anche economisti,
civilisti, penalisti, fisici, biologi, informatici. Persino a Medicina, vero
bastione della conservazione accademica, sorsero gruppi di contestazione legati
a Medicina Democratica o a Psichiatria Democratica.
E, come è facile immaginare, i più sensibili furono i docenti più giovani -
allora denominati "assistenti" o "incaricati" - che erano stai studenti sino ad
un passato abbastanza recente da essere ricordato.
Non era raro vedere loro (e persino qualche giovane "ordinario" di fresca
nomina) partecipare a cortei e assemblee, dare un volantino o gridare slogan.
E tutti a chiedere una riforma democratica dell'Università contro antichi
privilegi e steccati corporativi.
Sono passati più di trenta anni e quegli stessi giovani accademici sono
diventati ordinari.
Oggi la maggioranza di rettori, presidi, direttori di dipartimento hanno
quella età e si apprestano ormai a concludere andando in pensione.
Ma sono persone diverse, molto diverse, da quelle di trenta anni fa: la
corporazione li ha assorbiti, inquadrati, digeriti.
Oggi la corporazione accademica sono loro.
I progetti di trasformazione sociale non sembrano interessarli più di tanto,
e non da oggi.
La mia facoltà è uno dei sancta sanctorum dell'intellettualità del
Pd e l'ideologia della "sinistra liberista" (alla Giavazzi ed alla Boeri, per
intenderci) la fa da padrona.
Per molti mesi la lotta della Innse è passata semplicemente inosservata: non
se ne parlava neanche per sbaglio.
Uno dei tanti episodi di inutile protesta destinato ad essere schiacciato dal
rullo compressore del mercato.
Prendendo un caffè con un collega di economia, mi capitò di fare cenno a
quella lotta che durava ormai da mesi, ma la cosa cadde nel vuoto: "sono le
leggi del mercato: se un'azienda non produce profitto non c'è ragione che resti
in vita".
Anche io - dissi - penso che l'accanimento terapeutico per tenere in vita le
aziende decotte sia inutile e dannoso, ma facevo notare che l'Innse non era
affatto un'azienda decotta, e che la ragione della sua liquidazione non era la
mancanza di profitti, ma l'operazione speculativa sul suolo, in vista dell'Expo.
La risposta non si fece attendere: "Per le leggi del mercato un buon
affare diventa cattivo se ce n'è uno che produce guadagni maggiori. Per cui, se
vendendo suoli e macchine l'impresario ricava di più che dalla sua attività
attuale, non si vede perché debba rinunciare a quei guadagni".
Impeccabile! Non c'è più alcuna prospettiva macro economica, il mercato basta
a sé stesso e il progresso sociale ha come sua unica molla il guadagno
individuale.
Trenta anni di egemonia culturale dell'individualismo proprietario di von
Mises e von Hayek non sono passati invano: ogni traccia della cultura economica
della sinistra, non solo marxista, ma anche semplicemente keynesiana, è
semplicemente sparita e qui anche Luigi Einaudi farebbe la parte del sovversivo.
E poi le preoccupazioni sono altre: fra il 2011 ed il 2014 andranno in
pensione quasi un terzo del totale dei docenti, ma i robusti tagli della Gelmini
al finanziamento dell'Università fanno temere che i concorsi di rimpiazzo
(attesi come l'acqua nel deserto dalle torme di ricercatori ed associati ormai
ultracinquantenni, che premono per passare al livello successivo) non ci saranno
e che per molti la cattedra - o anche solo il posto di associato - resterà solo
un miraggio sino alla fine della carriera.
Detto questo, se ne dovrebbe dedurre che, non fosse altro per ragioni
corporative, ricercatori ed associati avrebbero dovuto partecipare di slancio
alla protesta studentesca dell'"Onda", un anno fa.
Nemmeno per sogno: gli studenti sono stati lasciati soli ed il loro movimento
è stato accolto con fastidio se non con ostilità.
Qualche settimana fa sono arrivate comunicazioni giudiziarie a sessanta
giovani per i fatti di quel periodo: non si riesce neanche a raccogliere le
firme di solidarietà e se ci provi, diversi colleghi ti rispondono che "Se la
sono andata a cercare".
Così come non ebbe successo un tentativo di documento di solidarietà con i
lavoratori dell'Innse, lanciato ai primi di luglio e subito abortito: ci sono
gli esami, le tesi, l'ultimo consiglio di facoltà e poi fa caldo... stiamo
andando in vacanza.
Ma caldo e vacanze c'entrano poco. La ragione vera è che nessuno crede più
all'utilità dell'azione collettiva ed, ancor più, nel conflitto sociale. Faccio
notare ad un collega che fra un anno potrebbe toccare a noi andare per tetti e
cornicioni se, come già ci avverte il Rettore, non ci saranno i soldi per
pagarci gli stipendi.
Risposta "Ma va! Per noi i soldi si troveranno in un modo o nell'altro, non
siamo mica operai!".
Già, non siamo operi e ci difendiamo con altri mezzi.
Una categoria come la nostra ha molte armi per difendersi: molti dei nostri
sono in Parlamento e sia nell'opposizione che in maggioranza.
Molti sono nei consigli d'amministrazione di banche e società o sono firme
autorevoli di quotidiani... non c'è bisogno di cortei o assemblee.
Chissà se sarà ancora vero. Forse sta per arrivare una cocente delusione per
molti.
Più sensibili si dimostrano gli studenti. Ma non tutti.
Il movimento dell'Onda è stato abbastanza partecipato qui a Milano ed ha
coinvolto non meno di sette-ottomila studenti che, però, sono solo una minoranza
- e neanche troppo estesa - degli oltre centomila iscritti ai vari atenei
milanesi.
Intere facoltà (come quelle del blocco scientifico) ne sono state interessate
solo marginalmente.
E poi tutto è durato un mese ed il movimento è scomparso lasciando pochissime
tracce di sé: alcuni collettivi di facoltà, qualche scossa d'assestamento e
qualche fiammata di ritorno ma, nel complesso, la cosa è rientrata.
Se le generazioni precedenti hanno perso la cultura dell'azione collettiva,
gli attuali ventenni non l'hanno mai avuta.
Cercano, questo è vero, di costruirsela, di porsi come soggetto collettivo,
ma siamo ancora a vagiti assai elementari e discontinui.
E questo si riflette anche nel rapporto con le lotte dei lavoratori.
Non manca la simpatia, anzi in molti casi essa è evidente, ma non si va al di
là di qualcosa di epidermico ed istintivo, nulla di chiaramente politico.
D'altra parte, questa è una generazione che guarda all'area del lavoro
dipendente fisso con un misto di simpatia, indifferenza ed invidia: bene o male
si tratta di persone che hanno un reddito garantito, mentre questi ventenni in
gran parte vedono davanti a sé lo spettro di un lungo precariato.
Ci sono gli stude3nti che non hanno un progetto di sé, avvertendo di avere
ben poche forze per realizzarlo, ragazzi anche molto intelligenti ma scoraggiati
e con poca voglia di imbarcarsi in avventure dall'esito assai incerto.
Altri che aspirano ad una collocazione lavorativa elevata, ma in termini di
tipo libero-professionale.
Pochissimi ambiscono ad un posto fisso e quasi nessuno spera di ottenerlo.
Per un'altra fascia non piccolissima è proprio la parola "lavoro" a provocare
pesanti reazioni esantematiche: una allergia invincibile che li porta a
reclamare un reddito garantito, non un lavoro garantito.
Anche l'ala politicamente più sensibile degli studenti, quelli di sinistra,
non riesce a tradurre il grido che li ha accomunati in autunno "Noi la crisi non
la paghiamo" in qualcosa di più di un semplice slogan.
I giovani che fanno riferimento al Pd e dintorni sono parte della cultura
liberista, anche se con frequenti mal di pancia, e preferiscono recitare la
parte dei "propositivi" poco inclini alla protesta, ma si limitano a battaglie
assai circoscritte e di nessun impatto esterno all'università.
I giovani dei collettivi di area radicale, prossimi ai centri sociali e in
diversi casi iscritti a Rifondazione o al PdCI manifestano simpatia e si
spingono anche ad affiancare la lotta dei lavoratori dell'Innse, partecipando
anche alle loro manifestazioni.
Sperano che essa sia il preannuncio di una ondata generalizzata di conflitti
nel mondo del lavoro nella quale vorrebbero inserirsi anche se non sanno bene
come.
Nel loro atteggiamento c'è più generosità che progetto politico.
Il collante si limita ad un generico antigovernativismo, ma stenta a darsi un
insieme coerente di obiettivi comuni.
D'altra parte, una riflessione anche non molto approfondita, porta facilmente
a concludere che la difesa e il rilancio dell'occupazione va in senso diverso da
quella del "salario di cittadinanza" che li affascina (e che peraltro attrae
anche settori di sindacato): le risorse non sono infinite ed una cosa esclude
l'altra.
Piuttosto confusamente, i ragazzi dell'area radicale avvertono l'esigenza di
un blocco sociale che comprenda il lavoro dipendente, quello precario e gli
immigrati, ma non sanno esattamente come metterlo insieme, come organizzarlo,
come esprimerlo politicamente e non trovano interlocuzioni politiche idonee, per
cui la lotta dell'Innse assume, più che altro, un valore simbolico.
Quel che li colpisce di più è l'assunzione, da parte di questi lavoratori, di
forme di lotta e di espressione di tipo nuovo.
Il collettivo degli operai dell'Innse promuove un profilo su Facebook, vera
icona di culto dei ragazzi che, infatti, guardano alla cosa con interesse.
fa discutere la forma di lotta di salire sulle gru, minacciando di buttarsi
di sotto, ad alcuni piace al punto di farla propria (lo faranno i collettivi ex
Onda della sapienza a Roma), altri la trovano un po' autolesionistica e magari
preferirebbero i "sequestri" dei dirigenti come in Francia.
Tutti, però, la valutano per l'impatto mediatico: i giovani dei centri
sociali ed affini sono molto sensibili alle nuove forme di comunicazione su cui
discutono spesso.
Dunque, la Innse è vista un po' come la prova provata che, ancora oggi, la
"lotta paga" ed un po' come l'avvisaglia di una ondata di lotte nuova anche per
le forme espressive e di lotta.
Ma tutto è avvolto in una persistente nebbia: l'assenza di un progetto
politico unificante, di una strategia capace di combinare gli interessi di un
vasto blocco sociale, persino di un comune immaginario che motivi alla lotta, si
avverte con sempre maggiore nettezza.
Il caso Innse è un segnale importantissimo, ma la strada da fare per
ricostruire un senso comune di appartenenza, una cultura politica alternativa a
quella del potere è ancora lunga.
#mediazioneculturale #milano #lavoro #Innse