300 giorni. Tanto è durato il governo di Enrico Letta, e con esso tutti i
ministeri nati nell'aprile del 2013. Tra questi, uno dei più discussi è stato
senza dubbio quello per l' integrazione, guidato da Cecile Kyenge, spesso al
centro di attacchi politici e personali. Un dicastero, quello della parlamentare
emiliana, che ha segnato una svolta nella storia della Repubblica italiana, in
quanto primo ad essere gestito da una persona di colore. Ad un mese dal
passaggio di consegne al governo Renzi, Piuculture ha intervistato in esclusiva
l'ex ministro dell'integrazione per fare un bilancio del lavoro svolto e per
affrontare alcuni nodi cruciali per il prossimo futuro.
Dopo trecento giorni di governo, il ministero per l'integrazione è stato
soppresso, cosa ne pensa?
La scelta di avere un ministero dell'integrazione da parte del presidente Letta
è stata molto coraggiosa e lungimirante, perché è andata molto avanti rispetto
alla tradizione italiana che non aveva mai avuto un dicastero di questo tipo. Il
segnale è stato forte e mi ha permesso di parlare al mondo intero con
autorevolezza. Ha consentito all'Italia di non guardare più all'immigrazione con
timore ma con l'idea di aprirsi al diverso, di porre le basi per iniziative come
il servizio civile nazionale aperto agli immigrati o al dialogo interreligioso.
Il ministero è stato importante anche per avere un approccio inclusivo e non
esclusivo verso lo straniero. Oggi il governo non ha confermato il ministero per
l'integrazione ed è un peccato, ma il mio augurio è che ci possa essere comunque
una cabina di regia che funga da luogo di discussione per alcuni temi centrali
sull'immigrazione. Tutto questo è fondamentale, sopratutto vista l'assenza di un
modello d'inclusione italiano. Prendiamo sempre come riferimento quello
statunitense o quello francese, ma dovremmo crearne uno nostro.
Una delle riforme più discusse durante il suo mandato è stata quella per
lo Ius Soli. Quando riusciremo a facilitare l'accesso all'acquisizione della
cittadinanza italiana?
La volontà è che avvenga il prima possibile. Spero che il progetto di legge vada
avanti perché il riconoscimento della cittadinanza per i giovani è un grande
strumento d'integrazione, è strettamente legato al luogo in cui loro vivono e
alle tradizioni che andranno a comporre il loro bagaglio culturale e la loro
identità. Il mio obiettivo dal momento in cui sono stata nominata ministro del
governo Letta, è stato di riconoscere questo strumento, e a maggior ragione, ora
che non ricopro più quella carica istituzionale, non mi fermerò finché non sarà
approvato. I giovani sono il futuro del nostro paese e non mi basta sentir dire
che i ragazzi italiani ormai sono abituati a considerare i figli degli stranieri
come loro pari. Servono norme legislative che rafforzino questa idea, e lo Ius
Soli deve essere la principale.
La questione sulla chiusura dei CIE sta facendo discutere, qual è il suo
pensiero al riguardo?
Bisogna innanzitutto capire che tipo di politica dobbiamo mettere in campo.
Quando si decide di eliminare una struttura come quella dei CIE, c'è la
necessità di costruire delle alternative ai vecchi modelli di accoglienza,
altrimenti si rischia di peggiorare la situazione. Guardando le persone che
vivono in questi luoghi, bisognerebbe trovare dei modelli d'integrazione ad hoc
per ognuno di loro. Oggi assistiamo ad una promiscuità nell'assistenza. Il 60%
di loro vengono dal carcere e necessitano una soluzione diversa, come ad esempio
l'identificazione fatta direttamente in carcere invece che essere effettuata nei
CIE. Ci sono donne vittime della tratta, e anche con loro bisogna approcciarsi
in modo specifico, così come con tutti coloro che perdono il lavoro e finiscono
dentro il centro. Si devono riorientare le politiche di accoglienza, in questo
modo non ci sarà bisogno di chiedersi, dove finiscono queste persone.
Adriano Di Blasi (18 marzo 2014)