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Il ghetto e il campo
Di Fabrizio (del 13/06/2013 @ 09:00:01, in media, visitato 2094 volte)

Rileggevo quanto diceva un Romanichal (uno che non conviene contraddire): "Sono irlandese d'origine, nato a Manchester, ma non sono Irlandese o Inglese, sono uno zingaro. Vi dirò cosa rende Traveller: è come nascere neri. Per me è irrilevante dove vivere: in una casa, un caravan o una tenda."

Settimana scorsa ero ad una performance artistico-letteraria-teatrale: esecuzioni di brani di Charlie Mingus alternati alla recitazione della sua biografia, o meglio la ricostruzione cronachistica di momenti comuni della sua vita privata e d'artista. Spettacolo potente: mentre sentivo la musica, in testa mi si accavallavano gli accordi del contrabbasso (che comunque non so suonare!), e la recitazione dava un senso tra disperazione e grandezza: lacrime, gloria e vanagloria, polvere e ricerca di un dio.

Mingus: un grosso borghese, simile "dentro" a tanti giovani neri senza arte né parte, magari magri e col berrettino da basket. Quando la tua voglia di mondo, il suo contemporaneo rifiuto, la fame e l'insoddisfazione diventano un tratto comune che lega il benestante Mingus al giovane sottoproletario, forse quella è la cultura.

    Parlerò di cultura (FORSE, dipende da qual è il nostro vocabolario mentale): cosa lega l'artista nero, il cameriere sotto casa mia, quella ragazzina con la minigonna, il rom che non sa più a quale mondo appartiene? E cos'è quell'insicurezza che leggi tanto negli occhi di un professionista magari ebreo, come in quelli di un teppistello da strada, se non il ricordo di un isolamento che ti porta COMUNQUE, a prescindere, a diffidare?

Cultura che nasce dalla pelle, dallo schiavismo, dal ghetto... Tutte cose che porti fuori anche quando nel ghetto non ci abiti più e puoi concederti due settimane all'anno di vacanza come il bianco che ti sei sempre immaginato (che molti bianchi ormai le vacanze se le sognano, è un particolare irrilevante).

I ghetti fanno pensare ai modi di vivere (la cui immagine speculare sono le ricorrenti rivolte urbane), tipici degli USA e dei paesi anglosassoni: c'è posto per tutti, ma per favore ognuno stia per conto suo e si risolva le sue beghe per conto suo (gli altri, non devono sapere, non devono interessarsene).

Ma i ghetti sono un'invenzione nostra: la testimonianza più antica resiste a Venezia, col ghetto ebraico. Gli ebrei, da anni ne hanno valicato i confini, ma i ghetti sono proliferati lo stesso: cosa sono altrimenti i campi nomadi, o certi quartieri di periferia lasciati da decenni a se stessi?

Non importa che nel nostro immaginario il ghetto debba essere un posto schifoso (come è in effetti la maggior parte delle volte), o che invece possa "anche" essere un posto con una sua dignità, con modi di vivere che non trovi altrove. Il ghetto è comunque il frutto di un isolamento, imposto con le buone o con le cattive.

Cioè: nel ghetto puoi finirci perché ti viene imposto (i nativi americani), o puoi capitarci a tua insaputa: ad esempio andando ad abitare in un quartiere di "bianchi" o inizialmente misto, ma poi i bianchi per varie ragioni, si trasferiscono altrove e lo spopolano. Allora, per tornare all'attualità NOSTRA, richiedere case per Rom e Sinti non basta a superare il ghetto, gli esempi sono GIA' sotto gli occhi.

Però, perché durante quello spettacolo vedevo davanti a me le facce di Mingus e del resto dello zoo, le note mi risuonavano in mente, riconoscevo una scala musicale nell'alternarsi di preghiere, bestemmie, bisogni espressi o meno, modi di dire? E perché, quando sono in un campo nomadi, dovunque sia, mi sento a casa?

Ecco: tu (scusa se passo al TU così diretto) il ghetto da fuori lo vedi popolato da facce preoccupanti, oppure preoccupate (a seconda della tua sensibilità), comunque conciate male. Messi assieme, non li valuteresti 10 euro... Però, se provi a considerarle PERSONE, trovi che persino quella vecchia semianalfabeta, lurida e cenciosa, potrebbe stare ore o ore a raccontarti la storia del mondo, MA NON VUOLE! Che persino quel ragazzino più bravo col coltello che con la matita, sa ripeterti ad orecchio tanto Mozart che Puf Daddy, MA NON VUOLE! Tu, proprio tu così civile ed istruito, vieni escluso da questa cultura!

Il ghetto, non è solo cultura (minoritaria), ma è soprattutto la sua condivisione, il codice per trasmetterla ai propri simili. La capacità di "esportarla" o di "preservarla". Vedi (scusa se continuo con il TU), creare ghetti e confini comporta un gioco strano: alla fine ci si ritrova tutti, anche noi, in un ghetto; ma se il gioco diventa quello di "escludere il diverso", alla fine il risultato che non c'è più nessuno con cui comunicare, e anche la più centenaria della culture, se diventa solo una caratteristica identitaria, è destinata a sparire.

Difatti noi, i bianchi, finiamo a vivere in ghetti che ci autoimponiamo, ma non siamo in grado di riprodurne la cultura. Le nostre pulsioni, i nostri bisogni, non ci appartengono, al limite appartengono ai media, che oscillano nello strano equilibrio tra una perduta identità e mode che assumono dai ghetti altrui.

Se continuiamo ad essere vincenti, è solo perché siamo in tanti, e perché (questo devo ancora capirlo bene) abbiamo la proprietà dei mezzi d'informazione - o forse sono loro che ci posseggono.