Non è una bella parola in lingua romanì: significa divoramento, smembramento; e
qualcuno preferisce la parola "Samudaripen", genocidio, senza dubbio
più oggettiva, ma anche meno carica di significati simbolici.
Se la prima si intende come una specie di stupro collettivo, la
seconda credo che sia posteriore ai fatti narrati: insomma le elites
intellettuali romanì hanno dovuto adattare-inventare un termine per descrivere
qualcosa che i Rom e i Sinti "normali" non erano in grado di concepire, come
somma di violenza e di cui neanche comprendevano la ragione.
Non sono in grado di fare statistiche approfondite, ma almeno in Italia quasi
ogni famiglia ha avuto un parente internato o ucciso e per molti anni non se ne
fece cenno: da una parte per le reticenze e l'ignoranza della storiografia
ufficiale, dall'altro per la vergogna (molto privata) con cui le famiglie
conservavano quella memoria.
Furono i Sinti tedeschi che verso la metà degli anni '70 iniziarono a far
luce su un sistema di annientamento fisico e morale, organizzato in
maniera scientifica e massiva.
Però non basta che una notizia sia conosciuta, non basta parlarne (magari
per una settimana), perché resti qualcosa anche il resto dell'anno. Ma
stavolta non intendo tornare sulle ragioni storico-politiche di un dopoguerra
che non passa, visto che è un argomento che qui viene trattato sino alla nausea.
Torno al divoramento e a tutti i simboli connessi. Al vuoto che è rimasto
dopo e all'incapacità dei nostri sistemi democratici di costruire una società
inclusiva. Un vuoto che da una parte è stato riempito di vergogna e pudore,
dall'altra la società maggioritaria (quella degli inclusi) ha imparato a
convivere con i propri
buchi neri della memoria.
Abbiamo anche noi la nostra vergogna: quella di scoprire il filo che lega la
storia di 70 anni fa, con gli sgomberi e i piccoli e grandi razzismi quotidiani.
Come in tempo di guerra, c'è chi vede le discriminazioni attuali e preferisce il
silenzio, perché nonostante la nostra presunta evoluzione da allora, abbiamo
sempre paura di essere additati come irriconoscenti a questo sistema che non ci
ha permesso di evolvere, ma al limite di arricchirci. E nel contempo, ci
consente di avere un capro espiatorio su cui sfogare i nostri
corto circuiti.
Il vuoto, nuovamente, crea e si nutre del DIVERSO. E la paura fa chiudere gli
occhi. L'importante è non doverlo ammettere, perché la nostra sicurezza potrebbe
collassare come un castello di carte.
Succede allora che la marea di notizie che ci circondano, la scoperta che il
Porrajmos è effettivamente avvenuto (nel nostro caso), perde la sua
oggettività, e le notizie diventano come pedine di una partita a scacchi. Senza
la conoscenza dell'ALTRO, il Porrajmos viene ridotto ad una disputa, dove pari
sono chi lo ricorda e chi lo nega.
Non mi sorprende che allora ci sia qualcuno che in questo mercato delle
notizie, dove gira di tutto a grande velocità e in centinaia di piazze
mediatiche, per [noia, insicurezza, voyerismo ecc.] alzi ancora di più la voce,
credendosi dissacratorio ed abbassandosi a fare l'ultra negazionista: il troll
della situazione o il Borghezio in brufoli e pantaloni corti.
Anche lui è figlio del divoramento, deve riempire il suo vuoto, inventandosi una propria superiorità.
Sognandosi una guerra personale da cui poter uscire vincitore.
Per lui, ho rubato queste considerazioni finali:
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
Bertold Brecht