Ricevo il testo dell'intervento di Maurizio Pagani, per la sezione di Milano dell'Opera Nomadi.Per quei milanesi che il 3 dicembre non potranno andare alla manifestazione di Roma PER LA LIBERTÀ E I DIRITTI DEI MIGRANTI, segnala anche un appuntamento
"Comunità rom e sinte e politiche sociali del territorio: quali prospettive di cambiamento"
L’eterogeneità e la diversificazione socio culturale delle comunità che compongono la dimensione Romanì (15 gruppi distinti al proprio interno nella sola provincia di Milano, 27 in tutta Italia), nonché la oggettiva discriminazione politica e sociale che riguarda in particolar modo il nostro Paese e, a livello più ampio i circa 12 milioni di rom in Europa, pongono con forza la questione di “quali politiche pubbliche” si debbano o si possano attuare nel prossimo decennio, e quali siano le “prospettive di cambiameto auspicabili”.
Fino ad oggi, infatti, su scala nazionale, l’azione pubblica non ha seguito alcun indirizzo coerente, preferendo, a partire dalla metà degli anni ’80, “disimpegnarsi” in un processo di progressiva regionalizzazione delle politiche inerenti la minoranza rom, lasciando ai soli Comuni l’applicazione di normative regionali, le cui norme sono state del resto raramente o molto parzialmente ottemperate.
In assenza di un quadro di riferimento statale che promuova una affermazione esplicita dei diritti e delle modalità di partecipazione dei soggetti coinvolti, le contraddizioni si riversano esclusivamente sul livello locale, senza alcuna forma di coordinamento orizzontale tra gli enti, né di corresponsabilità, né di governo, tra le istituzioni ordinate verticalmente.
Le conseguenze che si registrano sono gravi, sul piano politico e culturale, poiché la gestione dei fenomeni ad essi collegati avviene solo sul piano emergenziale o dell’ordine pubblico o, con una parola oggi molto in voga, con la “legalità”.
E sono estremamente gravi per le comunità dei “Rom, Sinti e Camminanti” che subiscono gli effetti devastanti di una forte disuguaglianza di accesso alle risorse pubbliche, sanitarie, scolastiche, occupazionali, abitative o, infine, ma non per minor importanza, di trattamento delle misure giudiziarie afflittive, siano esse rivolte ad adulti o a minori.
La discussione sul tema dei diritti di cittadinanza sembra dunque mancare di una pre - condizione essenziale: il riconoscimento pubblico delle genti rom non solo come entità culturale e storica propria, cioè dell’applicazione da subito dello status di minoranza che le leggi attuali non riconoscono (in attesa di un’estensione più generale a livello europeo), ma anche come parte intrinseca della nostra identità sociale o, più semplicemente, come concittadini.
Costruire un’altra idea di città equivale, innanzitutto, alla possibilità di riconoscere a noi stessi la libertà di autorappresentazione dei soggetti altri, con modalità e capacità che possono anche essere molto diverse da quelle omologate dalla società maggioritaria.
Veniamo ad un esempio.
Il tema della casa e dell’abitare è, oggi come ieri, uno tra i principali motivi di conflitto urbano tra rom e gagè.
La soluzione più praticata dalle amministrazioni comunali è quella della realizzazione di campi sosta o “villaggi”, cioè di una segregazione estrema in luoghi liminali della città, invisibili e privi di un oggettivo valore fondiario, ma ugualmente definiti come frontiere off limits, dove cresce il disagio, la devianza, ma soprattutto viene meno la speranza, avvicinadoci impercettibilmente alle più note banlieues francesi…
L’influenza del luogo in cui si vive è un fattore determinante per creare il senso di emarginazione, discriminazione e disperazione tra le persone. Le barriere mentali si materializzano così in frontiere urbane, in spazi di negazione, in campi nomadi.
Le strutture e i servizi predisposti dal Comune di Milano (le sole ad oggi esistenti sul territorio provinciale…), realizzate nel 2000 per ospitare principalmente una parte dei rom romeni presenti in città, non presentano gli standard minimi necessari all’abitare e hanno codificato un trattamento indiscutibilmente differenziale tra l’applicazione di regole urbanistiche e amministrative che vigono per i cittadini italiani e quelle rivolte ai rom.
La fuoriuscita spontanea dai “campi sosta” di intere famiglie allargate rom o sinte non è, invece, un fenomeno recente. Nei Comuni della Provincia decine di famiglie di sinti lombardi, taich e piemontesi (ma anche rom calderasa e kahanjarja) hanno acquistato da 10 – 15 anni a questa parte piccoli terreni agricoli, riconvertendoli parzialmente ad uso abitativo, dando inizio ad un lungo contenzioso amministrativo e talvolta penale ma, soprattutto, restituendo all’abitare la condizione di consistenza per la persona e il gruppo.
A Milano, questo fenomeno ha interessato molte famiglie rom e sinte dal 1999, in risposta ad un sostanziale abbandono della sfera politica e amministrativa della città alle istanze di cambiamento abitativo avanzate dai gruppi di più antico insediamento.
In misura minore cresce anche il numero di famiglie che chiedono l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica o che occupano un appartamento sfitto.
In tutti i casi, quel che emerge è la necessità di una politica abitativa che proponga in modo convincente uno salto culturale, abbandonando politiche logore e rigettate dagli stessi rom, come la creazione di aree “abitative” temporanee, separate dal contesto urbano, prodotto di un “differenzialismo culturalista” foriero di sicure sventure.
Occorre inoltre estendere su ampia scala le politiche sociali nei settori prioritari quali l’istruzione, la salute, il lavoro, facendo leva sulle esperienze più che decennali di mediazione culturale e formazione di cooperative rom che costituiscono un prezioso e imprescindibile patrimonio comune.
Un percorso di promozione, sostegno all’autonomia, distribuzione di risorse pubbliche che veda dunque le comunità rom partecipare attivamente alla costruzione di progetti di integrazione e sviluppo e, non, viceversa, come soggetti passivi sottoposti ad una azione di tutela preventiva.
Tra le buone prassi e i modelli esportabili l’esperienza milanese e, in misura minore, quella provinciale può vantare un recente sensibile innalzamento del numero di iscrizioni alle scuole dell’obbligo e alla scuola materna (500 a Milano nell’anno scol. 2004 – 2005, 800 nell’intera provincia) ma soprattutto, la messa in rete di competenze specifiche attraverso un lavoro comune tra CSA, Scuole, Opera Nomadi, Docenti, Mediatori Culturali Rom.
Tuttavia la dispersione scolastica dei minori rom presenta numeri ancora rilevanti, come sostanzialmente negativa risulta essere la valutazione qualitativa degli esiti formativi finali, a cui fa seguito un precoce abbandono degli studi fin dalla scuola media e una pressochè nulla presenza alle scuole superiori.
La fascia minorile meno sostenuta è quella adolescenziale, dove più marcatamente si registrano comportamenti sociali spesso devianti che sfociano nella microcriminalità, in un innalzamento della gravità dei reati commessi (o di cui sono vittime, come nel caso dello sfruttamento a fini sessuali), in una permanenza media negli Istituti Penali Minorili più alta dei loro coetanei italiani.
Analogamente, sul fronte della salute e delle possibili prassi d’intervento finalizzate ad innalzare l’accesso alle strutture pubbliche da parte dei rom, si sono venute a confrontare, talvolta ad interagire efficacemente, modalità e tipologie differenti d’intervento.
Quella pubblica, dei Consultori Familiari e Pediatrici dove operano alcune mediatrici culturali, interagendo con le famiglie rom, in ispecie le giovani donne madri e i loro mariti e i servizi del territorio, e quella del privato sociale impegnato in interventi assistenziali e di carattere umanitario.
Sullo sfondo, gli indici più generali segnalano una aspettativa di vita media per un rom che non supera i 45 – 50 anni, con solo il 2 –3 % della popolazione al di sopra dei 60 anni d’età, ma anche le difficoltà crescenti di accesso al Servizio Sanitario Nazionale e la perdita di tutela per tutti quegli ammalati che, sottoposti alle restrizioni della Legge “Bossi – Fini”, non possono accedere alle prestazioni sanitarie gratuite.
Infine il lavoro, la necessità cioè di combinare azioni pubbliche di sostegno a realtà cooperativistiche consolidate che sono le uniche, oggettivamente, a fornire un percorso di inserimento lavorativo per fasce di soggetti altrimenti esclusi dal mercato del lavoro, accanto alla necessità di sperimentare forme nuove di microcredito individualizzato in grado di sviluppare le potenzialità imprenditoriali presenti nelle comunità rom di più piccole dimensioni.
Permane del resto un’ampia condizione di disoccupazione o di accesso al lavoro nero, ma anche una “chiusura” interna alle comunità come risposta alle sole politiche di repressione e controllo.
Per concludere, i ritardi accumulati dalle politiche pubbliche nell’ultimo decennio sono enormi e più complesse le problematiche in gioco, il cui esito finale, fortemente condizionato dall’andamento delle prossime elezioni e dal costante accanimento mediatico su ogni fatto di cronaca, rischia tuttavia di allontanare ancor più la ricerca di soluzioni praticabili.
Occorre stabilire delle priorità di intervento, ma poi bisogna metterle in atto, non solo enunciarle, dimostrando una capacità complessiva di comprensione e gestione dei fenomeni, non inseguendo un consenso di facciata ma proponendo azioni precise efficaci e di forte impatto simbolico.
Bisogna saper distinguere tra interventi emergenziali doverosi di carattere umanitario che riguardano innanzitutto le pessime condizioni degli immigrati rom romeni e i contenuti salienti di una politica di più ampio respiro che non debba appiattirsi su principi generali di “solidarietà” ma sappia relazionarsi alla gran parte variamente articolata del mondo romanì.
Trezzo, 26 Novembre 2005
Opera Nomadi Milano
Il Vicepresidente
Maurizio Pagani