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In Kosovo le case continuano a bruciare
Di Fabrizio (del 08/10/2011 @ 09:04:33, in conflitti, visitato 1365 volte)

FRONTIEREnews.it Testo di Srdjan Jovkovic, fotografie di Ippolita Franciosi (segnalazione di Marco Brazzoduro)

Passeggiando per Obilic, una delle città più inquinate dei Balcani, si possono vedere alcune case rosse costruite in mezzo a un campo polveroso. Si trovano nella zona di Subotic, vicino a due centrali termoelettriche a carbonedalle cui ciminiere esce costantemente fumo grigio. Qui i bambini non giocano nei cortili e le donne non curano il giardino, come invece accade in qualsiasi città del Kosovo.
Sono le case costruite dall'Unchr per i profughi ashkali da poco rimpatriati dalla Macedonia, nelle terre da dove furono espulsi dalla maggioranza albanese, dopo la guerra del 1999. Rispetto agli altri rom del Kosovo gli ashkali hanno un'unica, fondamentale, differenza: al posto del romanes, hanno scelto l'albanese come lingua.

Il quartiere rom di Subotic, Obilic: la casa è bruciata ad agosto

Dopo aver tentato invano di trovare qualcuno con cui parlare, incontriamo fuori dalla prima casa rossa Hajriz Rizvani, un ragazzo ashkali di 25 anni. Vuole spiegarci cosa è successo così ci invita ad entrare in casa, aggiungendo che è troppo spaventato per parlare fuori. Hajriz è tornato in Kosovo insieme alla sua famiglia da due mesi e mezzo, dopo un esilio in Macedonia durato 12 anni.
Due settimane fa la casa a fianco alla sua, quella dello zio Halim, è stata bruciata nella notte, ultimo di una serie di atti provocatori, come il lancio di pietre contro l'abitazione e vari colpi di pistola. Fortunatamente la notte dell'incendio la famiglia Rizvani non era in casa: preoccupati, avevano deciso di dormire da parenti. Dopo l'incidente hanno fissato delle barre di metallo su ogni finestra della casa e hanno preparato i bagagli, pronti a partire in caso di una nuova minaccia.
Dopo ogni singolo attacco Hajriz ha chiamato la polizia, che si è presentata ogni volta, senza però risolvere niente: “Vengono, danno uno sguardo alla casa, osservano le finestre rotte, scrivono qualcosa, ci dicono che tutto andrà bene e se ne vanno”. Ma le minacce e le violenze continuano.



Hajriz ci racconta che in seguito all'incendio è impossibile dormire, i bambini hanno visto la casa in fiamme e tutte le notti sono terrorizzati. Di giorno non si sentono al sicuro: evitano di andare a giocare, anche nel bel mezzo di un'assolata giornata d'estate. La famiglia Rizvani ha ricevuto anche le visite di rappresentanti dell'UNHCR e dell'OSCE, che si sono limitati a esprimere compassione e ad augurarsi che qualcosa del genere non succeda mai più.
Nessuna misura effettiva è stata presa né tanto meno è stata avviata una qualsivoglia indagine. Per le organizzazioni internazionali questa è una violenza difficile da riconoscere e sulla quale lavorare, perché è in chiara contraddizione con la politica adottata dall'UNHCR, che incoraggia i rifugiati a tornare in Kosovo dalla Macedonia, tagliando i supporti in maniera graduale.
Hajriz è inevitabilmente triste: nella sua giovane vita ha sperimentato la guerra, è diventato un rifugiato e ora non riesce a vedere alcun futuro nel Kosovo odierno. Il suo ritorno ha provocato una forte reazione dalla maggioranza della popolazione albanese. E qualcuno si è spinto oltre la disapprovazione, rompendo tutte le finestre della sua casa, proprio ora che sta ricominciando una nuova vita.
Il desiderio di Hajriz è trovare un lavoro per sostenere la sua famiglia: in Macedonia, essendo rifugiato, per legge non poteva lavorare. Ha deciso di tornare in Kosovo con la speranza che la legge e le istituzioni garantissero un ambiente sicuro per lui e per la sua famiglia. Ma chiaramente non è così.
L'incendio delle case è esattamente lo stesso tipo di intimidazione e violenza che i rom hanno subito prima e durante la guerra del Kosovo, dodici anni fa, quando la retorica dell'indipendenza trionfava e la violenza tra compaesani portava molte famiglie (più di 60.000) a lasciare il Kosovo perdendo tutto. Il futuro assomiglia troppo al passato violento del Kosovo, perché alla fine ogni speranza del paese, come quella di Hajriz, sembra svanire nel fumo nero delle case bruciate, ancora una volta.

Tutte le fotografie sul Kosovo di Ippolita Franciosi (http://www.ippolitafranciosi.net, [...]) saranno in mostra fino al 10 ottobre al Cafè de la Paix, a Ferrara, in occasione del Festival di Internazionale al Cafè de la Paix.