di Božidar Stanišić 26 luglio 2011
Il fenomeno dell'immigrazione in Italia viene spesso descritto in bianco e
nero. Božidar Stanišić, scrittore e drammaturgo bosniaco da anni residente in
Italia, si addentra nello spazio grigio arrivando a conclusioni amare
Non credo di poter né voler dimenticare: il giorno di Pasqua del 2010, a
Spilimbergo, città friulana nota in Italia e nel mondo per la lavorazione dei
mosaici, un episodio di razzismo ha suscitato l'interesse nazionale. Nel bar
Commercio, nel centro storico, un cittadino del Burkina Faso ha pagato il suo
caffè 10 centesimi in più. Quel bar spilimberghese era gestito da un anno da
un'esercente cinese, la quale ha spiegato ai giornalisti, con una chiarezza
tagliente, che non appartiene alle cronache di ordinario ma di straordinario
razzismo, che "non si tratta di razzismo, sono i clienti italiani a dirmi di
scoraggiare l'ingresso delle persone che non curano la propria igiene personale.
Me l'hanno insegnato a Padova, dove ho lavorato in un bar di italiani.
Maggiorare le ordinazioni di chi non si comporta bene. D'altronde i miei clienti
sono italiani, ed è loro che intendo tutelare". Anche l'immigrato del Burkina
Faso è stato chiaro: "Mi è stato detto: tu paghi un euro perché hai la pelle
nera, e ringrazia che ti facciamo entrare".
Grazie alla denuncia dello stesso negro alle autorità, è emerso uno degli
ennesimi comportamenti razzisti nei confronti dell'altro e diverso. Lui stesso,
da molti anni in Italia, ha raccontato sia ai giornalisti che ai carabinieri,
che si sono recati al bar per fare i controlli degli scontrini, che "quello che
mi ha fatto arrabbiare è che ad essere razzisti siano stati degli immigrati." Ed
ha aggiunto di non aver mai vissuto un attacco razzista così forte. Per quel
motivo si era recato direttamente dai carabinieri, chiedendo il loro intervento.
Tragicommedia?
Un giornale, commentando l'episodio di Spilimbergo, ha sottolineato l'aspetto
tragicomico della vicenda: un immigrato è stato razzista nei confronti di un
altro immigrato! Credo che queste parole siano state scritte in buona fede, per
invitare gli stessi immigrati ad una maggiore solidarietà e comprensione
reciproca. Però mi hanno spinto ad un'osservazione più complessa del fenomeno
dell'immigrazione in Italia. In realtà, nelle numerose analisi e ricerche sul
tema, sia recenti che del passato, manca quasi del tutto la questione dei
rapporti sociali e culturali all'interno della popolazione immigrata. Ciò vale
anche per la maggior parte della narrativa scritta dagli stranieri in Italia
(che ormai i professionisti della tematica amano definire soltanto letteratura
migrante). Le descrizioni sono quasi sempre in bianco e nero. Immigrato: buono,
povero, nostalgico; italiano: cattivo, quasi-buono o indifferente. Per i miei
atteggiamenti critici nei riguardi di questa letteratura è da anni che vengo
marginalizzato: niente inviti ai festival o a serate letterarie "migranti"...
Certo, c'è un prezzo da pagare, per tutto.
Un'altra parentesi: alla fine degli anni novanta, un amico d'infanzia mi scrisse
una lunga lettera. Lui, fuggito dalla guerra in Bosnia, aspettava la risposta
dell'ambasciata del Canada in una città della Vojvodina. Appassionato del
risveglio di numerosi giovani nella Serbia anti Milošević, frequentava degli
incontri organizzati presso le università aperte, il cui contributo alla
resistenza civile era di notevole importanza. Una sera ascoltò la relazione di
un professore polacco (di cui, purtroppo, non notò il nome) sul razzismo nei
paesi slavi (nota: slavi nel senso più ampio, quindi russi, cechi, polacchi, ex
jugoslavi ed altri...) Avendo ascoltato la relazione, il mio amico rimase
stupefatto di fronte ai fatti presentati e alle descrizioni precise esposte dal
professore, a partire dall'antisemitismo, per arrivare a razzismo, xenofobia e
progetti vari su come liberarsi dagli zingari.
Malgrado la mia conoscenza dei fatti non fosse limitata, dato che avevo avuto
occasione di trovarmi in circostanze in cui emergevano sia xenofobia che
razzismo e antisemitismo da parte di immigrati provenienti dell'ex Jugoslavia
presenti in Italia e in altri Paesi dell'Unione, capii che i fenomeni che
facevano parte della ricerca di quel professore polacco, esperto in materia,
fossero molto più ampi e radicati di quanto non pensassi nel tessuto sociale di
ogni singola società dell'ex Est Europa, inclusi i nuovi Stati del mio ex Paese.
Dall'inizio del mio, ormai lunghissimo, soggiorno in Italia, in primis grazie
alle attività di mediazione linguistico-culturale, poi agli incontri di vario
genere in tutta l'Italia, non mi ero mai staccato dalla realtà della vita degli
immigrati, non solo di provenienza dell'ex Jugoslavia. Già da tempo mi era
chiaro cosa fossero il razzismo e la xenofobia striscianti presenti negli
atteggiamenti e nel modo di pensare dei croati, bosniaci, serbi, macedoni,
kosovari ed altri sugli altri e sui diversi.
Certo, la cosa non è piacevole, ma io la riporto sia nei miei discorsi pubblici
che nella narrativa. Purtroppo non si tratta di casi isolati, ma frequenti,
presenti non solo nell'immigrazione ex jugoslava proveniente dalle periferie
urbane o dalle campagne, ma pure da una parte della cosiddetta gente colta
oppure almeno formalmente scolarizzata.
La forza delle parole
Mi è capitato chissà quante volte di sentire i termini e le espressioni: crnčuga
(negrone); mrki (di colore); žuta njuška (muso giallo); zašto ih je toliko ovdje?
(perché ce ne sono così tanti?); trebalo bi im postaviti zabranu ulaska!
(bisognerebbe non farli entrare); oni nisu kao mi! (loro non sono come noi!);
prljavi su (sono sporchi); legisti imaju pravo (i leghisti hanno ragione);
ne znaju stanovati u kučama (non sanno abitare nelle case), ecc... Chi, come me, è
ancora memore della crisi profonda a cavallo fra gli anni ottanta e novanta in
cui era sorto il linguaggio dell'odio come ouverture alla pazzia bellica
fratricida del 1991-95, chi ancora ricorda le parole dell'amico scrittore Filip
David, che scrisse che prima delle pallottole da noi si incominciò a sparare con
le parole, non può sottovalutare questi fenomeni, anche se finora
prevalentemente limitati all'uso di questo linguaggio.
Che cosa spinge, ad esempio, un sindacalista bosniaco (non importa di che etnia)
in una cittadina fra Udine e Trieste a dirmi che i mrki (stavolta bengalesi)
sono privilegiati e lui, che per gli aspetti somatici assomiglia agli italiani,
è un residente di serie B? E un'altra persona, un ex profugo del mio ex Paese, a
chiedersi, in compagnia di un friulano doc, quanti mali ci porterà la gente
fuggita dall'inferno libico? E una dottoressa a dire che deve vendere
l'appartamento perché l'edificio pullula di stranieri? E lo dice perché ormai ha
ottenuto la cittadinanza italiana? E un giovane che ha comprato la macchina da
una persona di colore, a dirmi, mentre firmavano l'atto di passaggio, che quel
mrki faceva troppe domande?
In gran parte queste parole vengono dette in presenza dei figli. Che, per
fortuna, nei banchi di scuola, vivono un'altra realtà, molto più positiva. Ieri,
ad esempio, ho ascoltato un bambino afgano, un bambino bosniaco e uno di origine
honduregna parlare e giocare insieme... Sono loro che risvegliano delle speranze
coraggiose, credo non solo in me.
Credo sia giusto che ognuno di noi immigrati rifletta su questi fenomeni, a
partire dal contesto che sente più vicino. Compresi i cosiddetti "scrittori
migranti" e "buonisti" di tutte le parti, disinteressati da questi fenomeni di
una realtà, quella dell'immigrazione, in cui esistono anche lo sfruttamento e
l'assenza di solidarietà.