Di quanto è successo a Roma domenica sera, si è scritto
parecchio. Tra poco la cosa sarà dimenticata, fino al prossimo incendio.
Riprendo questo articolo di
Repubblica, perché per una volta, raccoglie pezzi di discorso degli
scampati, senza la morbosità che spesso hanno i giornali. La segnalazione è di
Luisa Rizzo
"Voglio morire anch'io insieme ai miei bimbi" lo strazio del padre davanti ai
corpi carbonizzati
La madre: "Non mi muovo di qua. Li devo vegliare anche se non serve a
niente". Uno zio: "Volevo portarli via perché in queste baracche si vive come
animali" di ANNA MARIA LIGUORI e EMILIO ORLANDO
Mircea Erdei, padre dei piccoli morti nel rogo
"Voglio morire anch'io, adesso che ho perso tre figli voglio andare con loro".
Mircea Erdei ripete in uno stentato italiano di "non potercela fare" di volerla
"fare finita".
Mircea Erdei è padre di tre dei quattro piccoli (l'altra è invece figlia di
primo letto della moglie) bruciati nella baracca andata a fuoco. Poco distante
c'è la moglie, Elena, che si lamenta e si contorce come se una mano invisibile
la stesse torturando: "Io non mi muovo di qua, dice anche se non serve a niente
devo vegliare i loro corpi, devo stare vicino a loro". Mircea e Elena hanno
altri cinque figli, poco più grandi e poco più piccoli di quelli che non ci sono
più. Vagano sparsi per il campo, gli agenti della municipale cercano di
raccoglierli, di farli stare insieme, ma loro non ne vogliono sapere. Fernando
Eldeban aveva 3 anni, Sebastian 7, Raul 5 e l'unica bambina Elena Patrizia 11,
figlia del primo marito di Elena. I poliziotti parlano con la sorella maggiore
Bianca, 18 anni, una delle prime a dare l'allarme, piange senza sosta: "Mi sono
allontanata solo cinque minuti, ero andata a prendere l'acqua. Quando sono
tornata la baracca era in fiamme. Cosa potevo fare?".
Nel piccolo campo abusivo sembrano spariti tutti, molti sono scappati, chi è
rimasto è legato a doppio filo ai genitori dei bimbi. Come uno zio arrivato dal
Campo regolare Arco di Travertino, che è sempre nel IX municipio, che non si da
pace per quello che è successo: "Volevo portarli via da qui, volevo portarli
dove vivo io, perché la vita lì è umana. Non come in queste baracche dove si
vive come animali. Ma non ce l'ho fatta non ce l'ho fatta". E poi viene fuori la
rabbia: "Siamo tutti disperati, qui la gente ci tratta male, non ci vuole. Noi
non vogliamo stare qui, ma dove andiamo".
Mircea Mirgia esce ogni mattina per andare a lavorare a nero fa il muratore. Il
suo vicino di baracca lo conosce da sempre, sono arrivati insieme in Italia un
anno fa: "Fa tutto per sfamare i figli, lavora come un pazzo. Tutto quello che
può fare lo fa. I bambini li avevo visti pochi minuti prima che il materasso
prendesse fuoco, si erano messi a dormire da poco. Come è potuto succedere?".
Tutti i bambini morti nel rogo andavano a scuola. Ma spesso erano soli, come
ieri sera, la madre e un'amica erano andate a comprare l'acqua e qualcosa da
mangiare in un fast food poco lontano. Al campo non si cucina, è abusivo: niente
acqua, ovviamente niente bagni. Stefan, un amico di famiglia, scalcia le pietre
e urla a chiunque voglia sentirlo: "Venivano solo a controllarci e a chiederci i
documenti, ci hanno fatto solo promesse ma nessun aiuto. Niente aiuto. Siamo
isolati e abbandonati a noi stessi. E noi non ce la facciamo. I nostri figli
muoiono e noi non possiamo farci niente". Rado, appena arrivato dalla Romania
gli fa eco: "Sono qui da pochi giorni e già ho capito questo campo non è sicuro,
per niente sicuro...". Intanto Mircea e Elena non si muovono, sono fermi davanti
alla baracca bruciata. Il sindaco Alemanno è lì e loro gli chiedono aiuto "per
gli altri nostri figli" dicono, "e i funerali dei bambini li facciamo in
Romania".
(07 febbraio 2011)