Segnalazione di Voijslav Stojanovic
EaST Journal di Matteo Zola
"Un giorno metti la pentola a bollire sul fuoco, e sei in un posto. Quando
l'acqua bolle sei in un altro. Quando la pasta cuoce in un altro, e la mangi
chissà dove". Con queste parole la vecchia nonna di Laura Halilovic commenta lo
sgombero che la polizia ha imposto al campo nomadi in cui si trova. Laura, dal
canto suo, ne ha fatto un film: "Io la mia famiglia Rom e Woody Allen", in cui
racconta la sua vita e quella dei suoi cari, tra discriminazioni e vita
quotidiana. Il titolo è una citazione proprio di un film di Woody Allen. Il
cineasta americano ha letteralmente folgorato la piccola Laura che, ancora
bambina, si trovò da allora a coltivare un sogno: fare la regista. Oggi, con
questo film documentario prodotto in collaborazione con RaiTre e Film Commission
Torino, quel sogno è diventato realtà.
A META' TRA DUE CULTURE
«Da quando ho fatto questo film molti si interessano a me. Certo, il pericolo è
che lo facciano solo perché sono Rom, che mi mettano addosso quest'etichetta e
ci si interessi a me perché "diversa"».
Una diversità che le viene additata anche dalla sua comunità: «Sono diversa per
gli italiani e sono diversa per i Rom perché non voglio vivere secondo la nostra
tradizione e non intendo sposarmi per realizzare "il mio futuro"». Proprio con
queste parole infatti i genitori di Laura, nel documentario, la spingono al
matrimonio: "Sei già vecchia, hai 19 anni", le dicono. «Così mi trovo a metà tra
due culture, in bilico – prosegue Laura – e certo è una sofferenza, è una
situazione che vivo malissimo».
Ma la giovane regista ha le spalle larghe e con tenacia procede nel suo cammino
umano e artistico: «Anche la mia famiglia ora si è convinta, ma all'inizio è
stata dura poiché una ragazza Rom non può studiare e nemmeno lavorare, può solo
sposarsi».
LIBERTA' E PRIGIONIA
Nata a Torino, Laura ha vissuto nel campo vicino all'aeroporto di Caselle fino
all'età di otto anni. Poi la sua famiglia ottiene una casa popolare dove vanno a
vivere in nove: lei e i suoi quattro fratelli, i genitori e due cognati. Della
vita del campo resta un ricordo indelebile di libertà e prigionia al contempo:
«Mi ricordo la libertà, noi bambini stavamo sempre in giro nel campo, solo il
cielo a farci da confine. Ma ricordo anche il filo e la rete che delimitavano il
campo, eravamo come animali in gabbia». Le difficoltà coi "Gagé" – i non Rom –
iniziarono con la scuola: «Ricordo la mia felicità, il primo giorno. E ricordo
come gli altri genitori commentassero: "Ci mancava anche la zingarella". Quel
giorno non parlai con nessuno e corsi via appena la campanella suonò».
INTEGRAZIONE NON E' ESSERE TUTTI UGUALI
Questo dolore è quello che, secondo Laura, farà sempre sentire i Rom inferiori.
Un'inferiorità interiorizzata a tal punto da renderli incapaci di rivendicare i
loro diritti. «E non cambierà mai. Come mai cambierà l'atteggiamento dei Gagé
che continueranno sempre a disprezzarci. Un'integrazione è impossibile». Poi,
con un sospiro: «Integrazione non è essere tutti uguali, non è –per un Rom –
diventare Gagé. I Rom non vogliono diventare Gagé. Se non ci fosse più
diversità, nel futuro, forse non ci sarebbe più discriminazione. Ma poi saremmo
tutti più poveri».
Nella parole di Laura echeggia la saggezza della vecchia nonna, che nel film è
il simbolo di una cultura antica, modellata dai secoli e dai chilometri percorsi
da questo popolo nomade. «Quando mi dicono: "vai a casa tua" io mi domando
qual
è la mia casa, la casa di un nomade è ovunque». Laura non nasconde che ci siano
dei problemi: «Le persone però non devono fare di tutta l'erba un fascio, tra di
noi siamo diversi. Tra un Rom Romeno e uno bosniaco c'è differenza, ad esempio.
Non conoscono la nostra cultura». E davvero è arduo conoscere la cultura Rom, il
film di Laura è un ponte per la reciproca conoscenza. Forse così sarà possibile
capire che: «Non è vero che i Rom sono tutti ladri e delinquenti». "Quando un
Rom fa un reato, a venire puniti sono tutti i Rom" si dice nel film.
CASETTE IN FILA
E Laura fa un agghiacciante parallelismo: «Quando vedo le casette in fila, tutte
uguali, del nuovo campo di via Germanasca a Torino, con un recinto di ferro
intorno alto tre metri, mi vengono in mente i campi di concentramento dove sono
morti i miei bisnonni». Già, poiché molti dimenticano che, insieme agli ebrei,
ad Auschwitz trovarono la morte milioni di zingari. «Se mai incontrassi Woody
Allen di persona – conclude Laura – gli chiederei come ha vissuto il suo essere
ebreo. E come ne ha fatto una risorsa».