Segnalazione di Giancarlo Ranaldi
Sconfinamenti.splinder.com di Giovanni Giovannetti
Nel pomeriggio - oggi 10 giugno 2010, alle ore 15,30 - ci troviamo a Gambolò,
sotto casa di Irene Zappalà per impedire l'esecuzione dello sfratto (la signora
abita a due passi dalla piazza, dietro la confraternita di san Paolo, in via
Magenta 5). Oltre alla comunità Sinti di Gambolò, hanno già confermato la loro
presenza i consiglieri provinciali e il segretario provinciale di Rifondazione
Comunista; i rappresentanti della CGIL, del sindacato inquilini SUNIA e della
lista civica Insieme Per Pavia.
Devastante. Nella provincia di Pavia oltre duemila famiglie sono a rischio di
sfratto. Per la precisione, tra sfratti pendenti (844) e richieste di esecuzione
(1.172) si sommano 2.016 casi. Aumentano del 27 per cento gli sfratti per
morosità (nel 2009 se ne sono avuti 790, di cui 127 a Pavia); calano del 10 per
cento quelli per finita locazione. Da una parte il legittimo diritto dei
proprietari; dall'altra le ragioni di molte famiglie, soprattutto quelle
monoreddito o improvvisamente senza lavoro.
Prendiamo il caso della signora Irene Zappalà di Gambolò. Quarant'anni, due
figli, lavorava come addetta alla cucina presso la casa di riposo "Fratelli
Carnevale" di Marcianò. Dopo una vertenza sindacale nel 2006 nonostante l'asma,
si ritrova relegata alle pulizie degli scantinati («per rappresaglia»), e infine
licenziata nel 2008. Da quel momento per lei solo attività lavorative saltuarie,
pagate in nero (ad esempio, lavora come inserviente di cucina al ristorante
"Quattro stagioni" di Remondò. Venti ore mensili per 360 euro quando, per il
solo affitto, ne dovrebbe esborsare 330) e il progressivo scivolare giù,
nell'indifferenza generale, fino allo sfratto ormai esecutivo.
Soluzioni abitative ce ne sarebbero: in attesa di un alloggio popolare (era
dodicesima; un anno dopo si è ritrovata diciottesima...) la signora potrebbe
trovare provvisoria dimora alla stazione ferroviaria di Remondò, che il Comune
detiene in comodato d'uso; Irene si è offerta di curarne apertura e pulizia. C'è
poi un alloggio presso la Fondazione Fratelli Carnevale, in ristrutturazione.
Irene Zappalà chiede pane e lavoro; in Comune allargano le braccia. Così l'unico
aiuto concreto le è oggi offerto dai Sinti. Sì, gli zingari residenti a Gambolò,
che ogni tanto le portano alimenti. Come racconta Franco Ovara Bianchi, «quando
vado a comprare il pane per le famiglie che vivono nel campo lo prendo anche per
Irene». Il portavoce della comunità Sinti gambolese si è anche offerto di
ospitarla in una delle roulottes del campo lungo il torrente Terdoppio.
Insomma, una inedita solidarietà tra marginali "storici" – come appunto gli
zingari – e questi nuovi marginalizzati, la cui interazione supera finalmente le
categorie peraltro mobili di "etnia", "cultura", "identità". Interazione che
smentisce l'artificio dei presunti "conflitti culturali", branditi come clave da
élite politiche che soffiano sul fuoco dell'intolleranza e del pregiudizio,
istigando all'odio "razziale" nei confronti degli zingari e degli stranieri.
In Lomellina e in particolare in paesi come Tromello e Gambolò troviamo "gagi"
che sembrano Sinti (ovvero gli zingari lombardo-piemontesi) e Sinti che sembrano
"gagi". Il processo di assimilazione è favorito anche dai numerosi matrimoni tra
zingari e gambolesi. Per chi non lo sapesse, nel gergo degli scarpinanti i gagé
(«contadini») sono coloro che non appartengono al popolo dei Rom (gli «uomini»
per antonomasia); dunque gagé sono tutti gli «altri».
La storia dei primi insediamenti viene raccontata da Nevina Andreta in un saggio
("Nel paese dei dritti", ne L'albero del canto) di cui sono stato editore nel
lontano 1985. Andreta li colloca al 1879, «quando vennero in territorio
gambolese gli appartenenti alle famiglie Allegranza e Vinotti, che
s'imparentarono con altri ceppi di nomadi, famiglie che in seguito richiesero la
residenza a Gambolò». Erano giostrai, artisti da circo, suonatori ambulanti,
sensali di cavalli, maniscalchi... Insomma, il mondo dei marginali – Sinti o
gagi – contiguo a quello della piazza, modo frequentato dai cantastorie di
Tromello Giacinto Cavallini e Vincenzina Mellini, o Adriano Callegari di Pavia,
o Antonio Ferrari di Belgioioso; quel microcosmo della "leggera" magistralmente
raccontato dall'imbonitore mantovano Arturo Frizzi nell'autobiografico Il
ciarlatano (1902). Un mondo altrettanto contiguo ad altre figure di marginali:ad
esempio i cercatori d'oro, i ghiaiaroli e i navaroli di Po e Ticino; ad esempio
i cordai di Calvatone nel cremonese e Castelponzone nel mantovano. Insieme a
Gambolò, Castelponzone viene ricordata da Glauco Sanga come il «paese dei
dritti». L'elenco comprende anche Sant'Angelo Lodigiano, Pozzolo Formigaro in
provincia di Alessandria e Vescovato presso Cremona. Sono paesi popolati da
marginali borderline, «quelli che nel periodo di passaggio dall'età medievale
all'età moderna non vivevano del lavoro della terra, ma si dedicavano ad altre
svariate attività che si potrebbero definire "di servizio"» (Sanga), attività
alternative alle consolidate forme di reddito o agricolo o industriale. Gli
abitanti di questi paesi erano considerati «"ladri e furfanti" […] Né
Castelponzone né gli altri "paesi di ladri" sono paesi di contadini; le attività
economiche erano altre»: ad esempio, lo spettacolo; come a Gambolò, il paese dei
giostrai.
Il Paese dei giostrai e – sia pure tra molte contraddizioni – il paese della
convivenza e della solidarietà. Lo sottolinea Nevina: il Comune aveva «la fama
di grande lungimiranza nel concedere l'iscrizione all'interno delle proprie
liste anagrafiche a nomadi di ogni categoria» tanto che ne arrivavano persino
dall'estero: ai nuclei storici delle famiglie ormai sedentarie degli Allegranza,
Vinotti, Picci, Bianchi, Sambiase, Ruffini, Sabino, Costantini, Delli, Vacchina
si sono poi aggiunti gli Hudorovich e gli Offman, originari di San Pietro del
Carso (la slovena Pivka) e Budapest; persone che, prima di trovare dimora a
Gambolò, erano apolidi.
Da 84 anni la comunità Sinti di Gambolò dimora in riva al Terdoppio, poco fuori
il paese. Lungo il torrente incontriamo cinque delle numerose famiglie qui
residenti, ma ancora pochi anni fa tra queste roulottes c'erano più di venti
casati: sono giostrai, venditori ambulanti di scope centrini fiori e piante;
alcuni vanno per ferro; altri stagionalmente lavorano nell'allestimento
invernale delle luminarie natalizie o, in agricoltura, nella raccolta di
pomodori uva e ortaggi; qualcuno ha trovato impiego nell'edilizia.
Se questo è il retroterra, allora non deve stupire la solidarietà fra compaesani
in sostituzione della pubblica amministrazione di centrodestra, che oggi non
prevede welfare locale, arrivando persino a minacciare la chiusura della fontana
a cui vanno i Sinti del campo.
Del resto viviamo in Italia, Paese che, nell'Europa a 15, è penultima nella
classifica delle spese sociali per il contenimento del rischio di povertà e
l'unica – insieme alla Grecia – a non prevedere un assegno minimo per chi versa
nel disagio: l'aiuto arriva solo al 4 per cento della popolazione, mentre in
Svezia, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Germania e Irlanda la percentuale
sale al 50 per cento. In Italia, una famiglia su cinque è oggi in seria
difficoltà. L'indebitamento totale dei 23 milioni e mezzo di famiglie italiane
ammonta a 490 miliardi di euro (dal 2002 al 2007 è quasi raddoppiato), per una
media di 15.764 euro a famiglia.
In Europa e negli Stati Uniti la perdita della casa – per l'impossibilità di
pagare il mutuo – sta spingendo milioni di famiglie nell'indigenza. In Italia va
anche peggio. Anche in provincia di Pavia molti anziani con la pensione sociale
«non si possono più permettere di mangiare due volte al giorno e altri in
estremo tentativo di risparmio la sera diluiscono la scodella del latte con un
po' d'acqua», come ha rilevato Fabrizio Merli (La Provincia Pavese, 3 maggio
2008). E Maria Grazia Piccaluga così scrive: «Alla mensa dei poveri si è
presentato solo una volta a mezzogiorno. Quando il bisogno ha superato la
vergogna. Ha mangiato a testa bassa, guardando solo il suo piatto. E non è più
tornato [...] Il pensionato timido e imbarazzato non si è più fatto vedere.
"Sono in tanti gli anziani che hanno bisogno, ma in genere non chiedono.
Piuttosto vanno a rovistare tra gli scarti del mercato" spiega una volontaria
corrucciando la fronte. Un dato però è significativo: gli italiani che siedono
alla mensa dei poveri sono ormai diventati numerosi quanto gli stranieri.
Anziani soli, ma anche giovani senza lavoro, uomini (e qualche donna) con un
vissuto travagliato alle spalle che non riescono più a reinserirsi nel mondo del
lavoro» (20 agosto 2008).
La precarizzazione dei lavoratori imporrebbe alle amministrazioni locali
politiche volte a contenere la disoccupazione, e la ricerca di una via che porti
al reinserimento nel mondo del lavoro. Quanto meno servirebbe il tampone di un
fondo sociale di solidarietà.
Invece piove sul bagnato. Nei primi mesi di quest'anno in provincia di Pavia
sono andati in cassa integrazione altri 1.600 lavoratori. In crisi sono 75
aziende edili e meccaniche, che vanno a sommarsi alle 237 dei mesi scorsi, 160
delle quali appartenenti al settore artigianato. Si salvano i settori
lattiero-caseario, risiero e viti-vinicolo; sono in sofferenza le imprese con
meno di 50 dipendenti, il 90 per cento delle fabbriche della provincia.
In Italia, in un anno la cassa integrazione è cresciuta del 443 per cento! Ma è
più inquietante il destino dei 4.121.000 lavoratori precari – il 15 per cento
della forza lavoro – 300.000 dei quali rischiano la disoccupazione. Analogamente
ai dati nazionali, sono precari il 15 per cento di quanti lavorano in provincia;
sono altresì precari buona parte dei 12.000 pendolari che lavorano a Milano.
Il già sterile tessuto produttivo pavese si deve così misurare con la crisi
globale e patisce un calo degli ordini tra il 20 e il 25 per cento. Meno soldi
in busta paga significa meno consumi durevoli (auto -16 per cento;
elettrodomestici -6,9) e non poche difficoltà ad affrontare gli aumenti delle
tariffe di alcuni servizi: a Pavia si sono avuti rincari per trasporti,
refezione scolastica, centri estivi delle materne e delle elementari, scuole
materne a tempo pieno, parcheggi, ecc.
Se a Pavia si piange, a Roma c'è poco da ridere. Le retribuzioni italiane sono
oggi inferiori di 8 punti rispetto alla media europea, ma il calo complessivo è
del 13 per cento (nel 2000 erano di oltre 4 punti sopra) e, come lamenta
Guglielmo Epifani, «cresce sempre di più il senso di insicurezza della
popolazione, la precarietà del lavoro, la sfiducia nel futuro e la paura di
perdere il benessere e la qualità delle proprie condizioni di vita».
Tuttavia qualcosa non quadra: negli ultimi vent'anni 120 miliardi di euro – l'8
per cento del Pil – sono passati dai salari ai profitti, 5.200 euro in media
all'anno a lavoratore, 7.000 euro se escludiamo i lavoratori autonomi. La crisi
finanziaria era da tempo in incubazione. La casta politico-economica ha pensato
di spalmarla sui lavoratori e sulla piccola e media borghesia al collasso, e
sposta su comodi capri espiatori l'«eccesso di paura» di chi si sente scivolare
lungo la china della povertà. La frammentazione sociale, la politica del
rattoppo, della finta "sicurezza", delle "ordinanze creative" e la pressione
mediatica sono strumenti per nascondere la portata ideologica e politica della
crisi a cui siamo di fronte: una crisi di civiltà che, allargando lo sguardo,
porta a muovere gli eserciti per il controllo delle fonti energetiche,
dell'acqua e del cibo.