Dopo la presentazione di
UPRE ROMA, un contributo di Dijana Pavlovic sui rapporti tra Rom/Sinti
e società maggioritaria
In cosa consiste la cultura di un popolo? Nelle sue espressioni artistiche e
intellettuali? Nella sua storia? La cultura Rom non può essere paragonata a
quella di un popolo che ha una propria nazione. E' fortemente condizionata dal
fatto di non avere e di non pretendere una terra (ed è per questo che il popolo
Rom non ha mai fatto una guerra), anche se questo ha provocato nomadismo forzato
e costanti persecuzioni. Tuttavia, pur non avendo le caratteristiche di una
nazione, il popolo Rom ha mantenuto attraverso i secoli elementi che lo
identificano, in primo luogo la lingua.
Ma c'è da porsi una questione che è la chiave di lettura per affrontare questo
tema: oggi, vale la pena di parlare della cultura Rom senza tenere conto e
occuparsi anche del disagio sociale delle comunità, della loro
discriminazione e ghettizzazione, delle conseguenze che queste producono sui
comportamenti, sulla cultura? Se i bambini vivono la propria identità culturale
e etnica con imbarazzo e con senso di colpa, come una cosa da nascondere davanti
ai gage e da vivere solo intimamente, dentro la comunità, il futuro non può
essere che di separazione e di chiusura in tutti sensi. Dall'altro lato i
cittadini "normali" con i loro comportamenti, la politica con le sue scelte, i
media con l'immagine che formano sono qualcosa che ci può lasciare indifferenti,
chiusi nel nostro ghetto, oppure questo ci riguarda direttamente?
La chiusura da parte della società italiana si concentra e si esprime in due
stereotipi: da una parte c'è lo stereotipo di origine romantica legato all'idea
di libertà, alla musica, al ballo e alle zingare bellissime e letali come la
Carmen di Merimée o la Zamfira di Puskin. Dall'altra parte c'è lo stereotipo
negativo, ultimamente sfruttato con irresponsabilità e cattiveria, quello dello
zingaro mendicante e ladro, che vive nell'immondizia, ladro di bambini e
fannullone. Questo è uno stereotipo antico che ci è costato migliaia di morti
nelle persecuzioni in tutta Europa e nei campi di concentramento tedeschi e
italiani.
E' ovvio che l'identità culturale di un popolo così complesso come quello Rom e
Sinto non corrisponde a nessuno di questi due stereotipi, ma tuttavia entrambi
contengono elementi di verità. E' vero che una componente della nostra cultura è
legata al senso del muoversi pacificamente in un mondo considerato senza
confini, legata a una libertà, non effettiva ma del tutto soggettiva, come un
piccolo riflesso dentro un essere umano che ha bisogno di poco, forse un po' di
musica per sentirsi felice e libero dentro, come dire: posso essere povero,
disprezzato, potete guardarmi con diffidenza e odio, ma la mia anima non la
potete avere, appartiene a me. E non si può neanche negare che le condizioni di
vita precarie e la ghettizzazione forzata in moderni campi di concentramento
producono fenomeni di microcriminalità, così come nomadismo e forme di
sopravvivenza legate al "mangel" (la questua) sono tra loro legate. Ma non ci si
può soffermare solo su questo.
Tuttavia entrambi gli stereotipi producono un medesimo effetto: rendono il Rom
"lo zingaro", "l'uomo nero" che provoca inquietudine e paura per il suo modo di
vita.
Questo non è solo il portato di campagne all'insegna di una insicurezza
costruita gridando a un lupo senza denti, ma è il riflesso della paura di una
società che scarica sul più debole il proprio malessere, che non affronta un
disagio sociale e morale profondo, grande responsabilità del quale tocca a una
politica che rinuncia al compito di educazione civile per seguire gli istinti
peggiori in un perverso circuito vizioso: la politica, con il coro
condiscendente dei media, alimenta la paura dei cittadini che premiano con il
voto questa politica.
Questa nuova Italia, l'Italia della violenza contro gli ultimi, del pregiudizio
elevato a verità (gli zingari rubano i bambini), della criminalizzazione della
povertà, della giustizia fai da te dovrebbe invece far riflettere questa stessa
politica e i suoi corifei mediatici sul lungo decorso della malattia della
nostra società e sulle preoccupanti prospettive del suo futuro. Non si può non
legare i Maso, le Eriche e gli Omar, che uccidono i genitori per denaro, ai
ragazzini che violentano e uccidono una coetanea, al branco che uccide un
diverso da loro a Verona, al bullismo nelle scuole, alla violenza praticata
nelle famiglie.
L'angoscia di fronte a questo scenario e al clima che riporta all'ancora recente
passato della nascita, della vita e della morte apparente dei regimi fascista e
nazista è dovuta anche al silenzio di chi sottovaluta questi processi e rinuncia
a una battaglia prima di tutto culturale contro il luogo comune, lo stereotipo,
la criminalizzazione generalizzata. Pesa soprattutto vedere il volto vile di un
paese malato. Coloro che aizzano i cani, lanciano molotov e sassi, percorrono in
ronde minacciose le città, i sindaci che annunciano nei cartelloni luminosi dei
loro borghi che "i clandestini possono stuprare i tuoi figli" sono il volto
vigliacco di chi non è capace di guardare al male che porta dentro di sé.
In questa situazione tante e complesse sono le domande che ci si pongono.
Come è possibile superare i reciproci recinti: quello della paura dei Rom nei
confronti di una società che li criminalizza e li ghettizza senza riconoscere
loro il diritto all'autorganizzazione, a rappresentare direttamente i propri
interessi; e il recinto costruito dalla società italiana che li rifiuta e li
accetta solo come icona di uno stereotipo irreale. E poi come è cambiata e come
cambia la cultura Rom in Italia rispetto agli altri paese Europei. Cos'è adesso
nel mondo globalizzato. La televisione per esempio, non lascia indifferenti le
comunità e soprattutto i giovani. Quanti ragazzini sono vestiti "all'americana"
seguono wrestling, Dragonballs, Amici di Maria De Filippi e quante ragazzine
sognano di diventare veline.
Allora viene da pensare ai bambini e alle bambine che si possono incontrare nei
campi regolari e irregolari di questo Paese e all'allegria che si legge nei loro
occhi, ai loro destini stroncati e alla ricchezza sprecata per inseguire lo
stereotipo negativo dello zingaro sporco e ladro che porta voti ala destra. Come
possono riuscire a fare quello che i loro genitori non sono stati in grado di
fare: non delegare a nessuno il proprio destino, ma esprimere l'orgoglio di sé,
della propria storia, della propria cultura nella capacità di organizzarsi, di
pretendere il diritto a rappresentare se stessi e i propri interessi come tutti
gli altri cittadini.
Contatti: upre.roma@sivola.net