INT. Cesare Alzati - sabato 14 marzo 2009
Quali sono, a suo avviso, le principali cause della difficile integrazione
dei rumeni in Italia?
Non credo sia corretto parlare di “difficile integrazione”. È significativo il
caso di Romeni che, dopo aver conosciuto situazioni di vita dura in Italia,
avendo trovato sistemazione in altri Paesi europei, intervistati, hanno
dichiarato che l’ambiente in cui meglio si erano sentiti era comunque l’Italia.
Nei mesi scorsi ho incontrato un imprenditore romeno, stabilitosi e operante da
tempo nel nostro Paese, che pubblicamente ha testimoniato di non essersi mai
sentito discriminato per la sua origine. Quando si parla di cittadini romeni
presenti in Italia, non si può non considerare il fatto che tra loro vi sono
appartenenti al popolo romeno e appartenenti ai gruppi Rom (ossia, Zigani; in
lingua italiana: Zingari). Il problema dell’integrazione e della marginalità nei
due casi si pone ovviamente in termini diversi. Se già esistono problemi di
integrazione e di tutela nei confronti degli Zingari italiani, è oltremodo
comprensibile che tali problemi si presentino in forma esasperata per gli
Zingari non italiani, tra i quali non pochi sono i romeni. Ma in questo caso
la questione non è legata alla cittadinanza (romena), ma alle consuetudini e
alle forme di vita (zingaresche), sicché non è questione specifica ‘romena’.
Merita comunque ricordare che nel ‘Vecchio Regno’, ossia nei territori romeni
rimasti vassalli del Sultano – almeno formalmente – fino al 1878, gli Zingari
erano schiavi, con relativo mercato, e sono stati emancipati nel 1855. Vi è
dunque in questo gruppo etnico una sedimentazione di esperienze storiche, che ne
rende il processo d’integrazione oltremodo complesso. Discorso profondamente
diverso s’impone per quanti, appartenenti al popolo romeno, sono oggi presenti
in Italia. E non sono soltanto cittadini romeni, ma anche Romeni con
cittadinanza ucraina e – in misura assai più ridotta – moldovena. Tra costoro vi
sono anche persone con elevati titoli di studio e ottima qualificazione
professionale; vi sono validi studiosi perfettamente inseriti in organismi di
ricerca, vi sono imprenditori e, naturalmente, come tutti sappiamo, ottimi
manovali, infermiere e collaboratrici domestiche, talvolta con titoli di studio
di alto livello. Nel contesto di una migrazione selvaggia, quale si è avuta, vi
sono anche disperati, con precedenti penali e condanne nel loro Paese, che –
venendo clandestinamente in Italia – vi portano la loro disperazione e la loro
marginalità. Per renderci conto del fenomeno si pensi alla migrazione dalla
Sicilia negli Stati Uniti all’inizio del Novecento e all’esportazione della
delinquenza organizzata, che allora si determinò. Fu quello certamente un
fenomeno legato all’immigrazione italiana, ma non sarebbe legittimo identificare
l’Italia con quel fenomeno. L’equiparazione ‘Italiano-mafioso’ non è soltanto
sgradevole a udirsi, soprattutto non è, e non era, rispondente alla realtà.
Non conosciamo quasi nulla della cultura romena, che pure anche
linguisticamente è vicina alla nostra. Come mai? Come valuta la situazione
culturale di quel paese, che ha vissuto un regime comunista particolarmente
feroce ed è infine approdato nell’Unione Europea?
Sembra che la moltiplicazione smisurata degli strumenti di comunicazione
paradossalmente ci renda in ugual misura ignoranti delle realtà con cui veniamo
in contatto. L’intensità degli scambi culturali che si ebbe tra i due Paesi nel
periodo interbellico è ben attestata dallo splendido edificio dell’Accademia di
Romania in Roma a Valle Giulia. Nei manuali di Storia lo spazio romeno è
peraltro quasi ignorato: colpevolmente, trattandosi di uno spazio cerniera, dove
si è realizzato un interessantissimo interscambio tra le grandi tradizioni
culturali, religiose, istituzionali dell’Europa. Questa ricca vicenda storica è
ben espressa dall’Università di Cluj, in Transilvania. Le sue radici affondano
nel Collegio gesuitico creato nel 1581, che nel secolo XVII divenne una
prestigiosa Scuola superiore protestante (unitariana), nella seconda metà del
Settecento conobbe la propria rifondazione quale Università tedesca e, un secolo
più tardi, nel quadro del Regno d’Ungheria, fu trasformata in Università
ungherese, per divenire infine, dopo la formazione del Regno della Grande
Romania nel 1918, importante ateneo del sistema universitario romeno. Tale
Università ha attualmente tre linee d’insegnamento: romena, ungherese e tedesca;
ha quattro Facoltà teologiche: Ortodossa, Greco-Cattolica, Riformata,
Romano-Cattolica; ha una Facoltà di Economia caratterizzata da linee di
formazione specializzate per le diverse aree economiche europee, con corsi
interamente in lingua inglese, tedesca, francese (è in fase progettuale anche
una linea italiana); ha istituito con la collaborazione di Università
dell’Unione Europea una dinamica Facoltà di Studi Europei ed è impegnata in una
fitta rete di scambi internazionali. Chi visiti quell’Università non può
sottrarsi all’impressione di un Paese che ha seriamente investito sulla
formazione e sulla cultura, e che sta preparando con impegno il suo futuro, dopo
la devastazione e il più che quarantennale isolamento imposto dal regime
ideocratico e totalitario comunista. Siffatta impressione trova conferma nelle
borse di studio che annualmente il Governo romeno pone a disposizione di propri
giovani laureati in discipline umanistiche per soggiorni biennali di studio e di
specializzazione in Italia, presso l’Accademia di Romania in Roma e a Venezia
presso l’Istituto Romeno di cultura e ricerca umanistica.
Qual è la situazione religiosa della Romania?
La storia religiosa dello spazio romeno è la più marcatamente europea
dell’intero continente! Ciò che altrove è polarizzazione dialettica (Ortodossia
/ Protestantesimo; Atene / Ginevra) qui, e segnatamente in Transilvania, è
compresenza storica e complementarietà vissuta: nella stessa località chiesa
protestante e chiesa ortodossa si trovano l’una presso l’altra. Ma anche in
rapporto alla tradizione ortodossa, non si deve dimenticare che questo popolo,
che ha sempre parlato lingua (neo)latina, ha utilizzato per secoli quale lingua
di culto e di cultura la lingua slavona, sostituita nel Sei-Settecento dal
greco, soprattutto in Valacchia e Moldavia (presso le Corti, nelle sedi
episcopali e nei grandi monasteri). In tal modo anche quella che nell’ambito
ortodosso può considerarsi una polarizzazione non priva di tensioni tra Slavia
ed Ellenismo romeo (ossia, tra Mosca e Costantinopoli) nello spazio romeno è
divenuto patrimonio analogamente compartecipato e armonicamente metabolizzato.
Inoltre nella Transilvania, se il popolo romeno era di tradizione ortodossa, le
egemoni componenti ungheresi e tedesche (Sassoni), di tradizione cattolica, col
secolo XVI divennero protestanti: luterani i Sassoni, riformati gli ungheresi,
in notevole misura acquisiti nel Seicento alla Chiesa unitariana
(antitrinitaria). Solo a partire dalla fine del Seicento, con l’inserimento del
Principato nel sistema imperiale asburgico, fu possibile un parziale recupero
delle popolazioni ungheresi alla fede cattolica. Quanto ai Romeni negli anni
1697-1701 la loro Chiesa, pur conservando la tradizione ecclesiastica ortodossa,
si dichiarò Unita con Roma. L’inserimento alla metà del Settecento di missionari
confessionali serbi provocò la frattura all’interno di tale Chiesa col formarsi
di una comunità ortodossa ‘non unita’ divenuta rapidamente maggioritaria.
All’avvento del regime comunista la Chiesa Unita (o greco-cattolica, secondo il
lessico cancelleresco asburgico) era comunità ancora molto consistente (oltre
1.500.000 fedeli) e caratterizzava centri urbani, come la stessa Cluj. Il 1°
Dicembre 1948 tale Chiesa è stata dichiarata non più esistente dal potere ateo:
tutti i suoi vescovi e un gran numero di suoi preti e laici sono stati posti in
carcere (dove molti hanno trovato la morte) e i suoi luoghi di culto sono stati
dati alla Chiesa ortodossa. Questo ha voluto dire nei villaggi cancellare
totalmente la Chiesa unita, nelle città determinare nelle chiese
cattolico-romane ungheresi una frequentazione da parte di fedeli romeni uniti,
che vi cercavano ospitalità per confermare la propria fedeltà alla comunione con
Roma. Uno dei primi atti istituzionali della Romania libera, dopo la caduta del
regime, è stata la restituzione della legittimità legale alla Chiesa Unita, cui
peraltro la Chiesa ortodossa non ha voluto restituire gli edifici di culto a lei
conferiti dal passato potere (con l’unica eccezione dell’Arcidiocesi di
Timisoara, retta dal metropolita del Banato Nicolae Corneanu, che al riguardo ha
offerto e sta offrendo una straordinaria, coraggiosa e sofferta testimonianza di
fraternità cristiana). Mentre in tutto il Paese vengono resi agli antichi
proprietari i beni confiscati dalla collettivizzazione comunista, un recente
disegno di legge intende escludere da tale restituzione unicamente la Chiesa
Unita, assegnando gli edifici di culto (e non solo) a lei appartenuti, non in
base al titolo di proprietà originario, ma in base alla maggioranza numerica dei
fedeli: sicché, dopo la decimazione prodotta dalla persecuzione, la Chiesa Unita
sarebbe privata di ogni suo legittimo bene proprio perché decimata. La
situazione, paradossale, non può non creare tensioni: assolutamente assurde in
un tempo come l’attuale, in cui le Chiese hanno problemi fondamentali con cui
confrontarsi e sui quali offrire una concorde testimonianza. Per arricchire
ulteriormente il quadro religioso di questo spazio va altresì ricordato che,
segnatamente in Moldavia, fin dall’inizio del secolo XV anche gli Armeni ebbero
una propria sede episcopale e che nell’Ottocento qui si insediarono pure i
vecchio ritualisti russi. In età moderna e fino all’ultima guerra grande rilievo
ebbe anche la comunità ebraica. Dal punto di vista religioso, dunque, lo spazio
romeno, confessionalmente a prevalenza ortodossa, si presenta quale spazio
eminentemente europeo, ed anche per questo aspetto trova nella Unione Europea la
sua collocazione più consona e il contesto nel quale far crescere i germi di
‘unità nella diversità’ in esso presenti: sono germi profondamente in sintonia
con il principio ideale ispiratore dell’Unione (in varietate concordia),
dall’Unione stessa additato quale criterio istituzionale ai propri popoli e
offerto quale messaggio al mondo.