Da
LaStampa.it di BARBARA SPINELLI
E' davvero singolare che chi s'indigna per la messa a nudo dei politici
attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in
turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l'uso che viene fatto
dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17
febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti
ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto,
invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il
Tribunale del Riesame abbia invalidato l'accusa dal 10 marzo, e le analisi del
Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante,
di gogne: questa è gogna di due scagionati.
Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del
nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è
il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste
in molti codici quello che potremmo chiamare l'habeas vultus, l'habeas facies:
il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile).
L'abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale.
Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.
Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza
pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.
Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all'habeas
corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non
dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben
scrisse anni fa sulle impronte digitali: "Ciò che qui è in questione è la nuova
relazione biopolitica "normale" fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda
più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l'iscrizione
e la schedatura dell'elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica
dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola
pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano
la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza
parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più
esiguo e ristretto" (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge:
"L'esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono
poi estese a tutti".
Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero,
ricorrendo al verbo o all'occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che
s'installa, si banalizza, e l'abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi.
Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale ("Alla fine,
quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?") quasi parafrasando
le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: "Prima di tutto vennero a
prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a
prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici \. Poi un giorno
vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare".
Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non
senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non
parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all'uomo ma lo copre con sopra-nomi,
epiteti che per sempre inchiodano l'individuo a quel che esso ha presumibilmente
compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa "faccia da pugile". Isztoika
riceve un diminutivo - "biondino" - che s'accosta, feroce, al diminutivo che
assillante evoca le vittime (i "Fidanzatini"). Sono predati non solo i volti e i
nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato.
Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni "sono una schifezza" e rovinano la
persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell'interrogatorio
in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del
commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore
la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l'Ansa, che
più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché
hanno condotto "un'indagine all'antica: decine di interrogatori di persone che
corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve" (il corsivo è mio).
Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato
delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan.
Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino
Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e
poi scagionato ("Il fascismo dell'epoca trovò il capro espiatorio per
rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che
efficiente e presente"). Ancor oggi, c'è chi associa Girolimoni all'epiteto di
mostro. Damiano Damiani nel '72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma,
con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto,
Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando
scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel '61, poverissimo. Ai
funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra
questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro
l'accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la
reclusione a Regina Coeli e l'internamento per 17 mesi in manicomio criminale.
Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.
Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura.
La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che
l'evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la
giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: "Ma da voi non vale la
presunzione d'innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il
diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si
distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l'ho
con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la
rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta
quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina" (La Stampa, 3 marzo). Ancora
non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui
restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati
del tutto, le loro sciagure s'estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a
Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l'aveva devastato.
La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita
e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s'assiepa affamata
attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative
cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come
spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo
l'amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli
organi dello Stato hanno arrecato.
Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöller: non avendo difeso
romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde -
politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le
trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra
Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti ("Certo,
non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente:
i veri colpevoli sono sempre romeni"). Saremo stati falsamente vigili sulla
sicurezza: perché vigilare è il contrario dell'indifferenza, del sospetto, e dei
pogrom.