Da
Famiglia
Cristiana - di Stefania Di Pietro
CRONACHE ITALIANE
A NOTO, IN SICILIA, LA BASE DI UN ANTICO POPOLO GITANO
Giostrai, stagnini, ombrellai affollano le feste di paese e sono italiani a
tutti gli effetti. Non vogliono essere chiamati rom. Ma conservano il vecchio
spirito nomade.
Rumungri ungheresi, Tattaren svedesi, Bergitka polacchi, Sinti-Gackanè tedeschi,
Gypsies inglesi, Kalé spagnoli. Sono alcuni dei popoli gitani sparsi in Europa,
ciascuno con un proprio nome e una storia diversa, ma tutti annotati ai margini
delle città e battezzati come "genti del vento", perché dall’aria si fanno
trascinare.
In un panorama così ampio, c’è chi rifiuta d’essere assimilato ai rom. Sono
i caminanti di Noto, un gruppo "invisibile" di girovaghi siciliani, continuatori
di un’antica tradizione incentrata sulla parola, il canto e le leggende. Questa
frangia etnica ben radicata nel territorio cerca di far valere la propria
identità popolare, ricordando a tutti come la parola "rom" abbia un significato
ben diverso dall’uso oggi in voga, e sia semplicemente la traduzione di "uomini
liberi".
I giramondo di Noto negano d’essere "zingari" di professione, nonostante sia
impresso su di loro come un marchio il destino di un popolo ramingo, fatto di
venditori e riparatori ambulanti, tutti "camminanti", nel nome e di fatto.
Discendenti dei nomadi sbarcati in Sicilia alla fine del Trecento, al seguito
dei profughi Arberes’h, i caminanti hanno mantenuto intatta l’originaria
organizzazione familiare, sotto la guida di un capogruppo più anziano e con
matrimoni stabiliti all’interno della comunità, un’unica e grande famiglia.
«Sono nato così», ricorda uno di loro, «quando ero bambino e vedevo i figli di
chi stava al campo, mio padre mi diceva che eravamo tutti parenti».
Sono considerati i più grandi camminatori della storia, disseminati nel
ventaglio tra Catania, Agrigento e Siracusa, ma durante l’inverno affollano uno
storico quartiere di Noto, che porta il loro nome. I "siciliani erranti" sono
gli ultimi eredi di una cultura fondata sul movimento, ma hanno fatto proprie le
tradizioni locali, favorendo la nascita di una mescolanza variopinta di stili di
vita.
«Ci basta avere per tetto il cielo e il fuoco per riscaldarci, ma non siamo
zingari», continuano, «siamo siciliani e somigliamo alle rondini, perché viviamo
liberi». Negli anni ’50 i caminanti salivano in cima alle montagne a dorso di
mulo, oggi si spostano alla guida di roulotte attrezzate, una scelta che li
accomuna agli altri rom. La Sicilia rimane, però, la loro regione
d’appartenenza, l’Italia è la vera patria, anche perché vi abitano da decine
d’anni, mantenendo diritto di voto e cittadinanza. Alcune famiglie d’ambulanti
continuano a migrare ciclicamente da Sud a Nord, per poi tornare nella provincia
siracusana in primavera, "svernando" lì come gli uccelli. A ogni cambio di
stagione, traslocano nei paisi dell’entroterra, chiamati così in dialetto
baccàgghiu, una lingua inventata dalla fusione tra siciliano stretto e italiano
e colorata dall’aggiunta d’accenti diversi, per via del troppo girovagare.
Un buon mezzo per comunicare
Sono siciliani in ogni espressione quotidiana, dal culto della campagna
all’abito di stoffa "buona" indossato per la Messa domenicale, dal modo di
cucinare e disossare gli animali alla simbolica gestualità isolana, tipica di
chi ha conosciuto l’alternanza di svariate dominazioni, ritrovando nel gesto
l’unico mezzo d’intesa. Una mimica colorita, quella dei caminanti, che deriva
dalla loro essenza raminga, perché continuamente a contatto con genti straniere
e in cerca di un buon mezzo per comunicare.
La mattina i bambini vanno a scuola, grazie ai numerosi progetti
socio-scolastici nati a favore dell’integrazione di un popolo autoctono, il cui
essere itinerante pone non pochi problemi alla scolarizzazione. Gli adulti
continuano il mestiere dei padri. Arrotini, ombrellai, giostrai, impagliatori e
riparatori di cucine, famosi per lo squillante richiamo lanciato a gran voce con
l’altoparlante.
Sono gli "aggiustatori di tutto", svolgono mestieri ormai in disuso, perché
spinti dalla stessa mentalità umile e adattabile che accompagnava i caminanti
del primo dopoguerra. A ogni festività, gli uomini inondano le strade con le
loro giostrine, i palloncini colorati e le bancarelle di calia e semenza, ceci
abbrustoliti e semi di zucca seccati al sole, preparati in casa dalle donne. In
autunno, arrivano con i camion stracolmi d’ombrelli, anticipando il primo
temporale della stagione.
«Un tempo, i nostri mestieri erano tanti», racconta una vecchia caminante della
provincia di Siracusa, «si vendevano scaldini di metallo, trappole per topi,
gabbie per galline o mestoli per la ricotta. Gli uomini erano tutti stagnini, le
donne andavano di porta in porta a raccogliere capelli, per farne poi parrucche
o bamboline da rivendere».
Oggi, i giovani preferiscono la vita dei conterranei stanziali, chiamati
"paesani sedentari", scegliendo di non allontanarsi troppo da Noto, dove vendono
la buona sorte e leggono il futuro ai turisti di passaggio, con un pappagallino
portafortuna sempre appollaiato sulla spalla. I caminanti sono un popolo nel
popolo, nei gesti traspaiono i tratti dell’appassionata teatralità siciliana, ma
il loro spirito è carico d’orgoglio gitano.