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Censimento ed espulsioni di rom - Interesse superiore dei minori e discrezionalità della Polizia
Di Fabrizio (del 16/09/2008 @ 12:45:35, in Italia, visitato 2004 volte)

Tom Welschen mi segnala questo "quasi rapporto" da Melting Pot. Data la lunghezza, consiglio di scaricarlo e leggerlo con calma offline

di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo

1. Malgrado le rassicurazioni fornite dal governo italiano al commissario europeo Barrot, le operazioni di censimento e di schedatura dei rom assumono sempre più il carattere di veri e propri rastrellamenti, come da ultimo al Casilino 900 a Roma, con lo scopo evidente di acquisire "elementi di prova" che possano poi fornire altri alibi alle operazioni di sgombero forzato già annunciate dal governo per ottobre, con particolare "attenzione" nei confronti di quanti potrebbero denunciare gli abusi compiuti dalle forze dell'ordine (adesso anche, in virtù dei poteri assegnati ai sindaci, dai vigili urbani).

La distruzione o il sequestro dei beni di proprietà dei rom, come se si trattasse sempre e soltanto di proventi di attività delittuose, le violenze fisiche e psicologiche perpetrate anche ai danni di donne e bambini, appartengono ormai alla cronaca quotidiana, una cronaca che smentisce giorno dopo giorno il frettoloso (ma provvisorio) riconoscimento, da parte della Commissione Europea, della legittimità del comportamento delle autorità italiane nei confronti dei rom. Sulla base della documentazione raccolta dalle associazioni antirazziste la condanna politica e storica del razzismo istituzionale e della xenofobia aizzata dalle decisioni del governo italiano, prima o poi, arriverà senza appello e resterà per sempre a macchiare i nomi dei responsabili della sicurezza e dell'ordine pubblico che hanno reso possibile questa "pulizia etnica" strisciante, anche se si va diffondendo, dai più alti livelli di governo a scendere, la tendenza di minacciare querele contro chiunque denunci gli abusi, quando non funziona il ricatto diretto sulle vittime, consigliate a non presentare (o a ritrattare) denunce, per evitare guai peggiori.

L'arma più diffusa per "regolare i conti" con le comunità rom presenti nei campi italiani, 150- 180.000 persone, di cui la grande maggioranza donne e bambini, in un paese di sessanta milioni di abitanti con quattro milioni ed oltre di immigrati, rimane lo strumento delle espulsioni, dell'internamento nei centri di detenzione amministrativa e nell'allontanamento forzato verso i paesi di origine. Non sempre si può prevedere quali, perché si tratta di entità statali diverse rispetto agli stati dai quali i rom sono partiti negli anni ‘90, luoghi nei quali non hanno più casa ed occasioni di vita dignitosa. Il riconoscimento della "protezione internazionale" alla quale molti rom avrebbero diritto diventa sempre più un miraggio per l'atteggiamento pregiudiziale di molte commissioni territoriali. I soggetti più deboli, ed i minori, sono le principali vittime di queste pratiche che smembrano le famiglie, ne annullano le già modeste possibilità di sopravvivenza , distruggono percorsi di integrazione e di reinserimento sociale per i quali si erano spesi anni di lavoro da parte delle associazioni e degli operatori istituzionali più sensibili.

In questo quadro, che si complica ogni giorno di più, appare particolarmente critica la situazione dei giovani rom che hanno raggiunto i diciotto anni, completato un ciclo di formazione, e magari avrebbero già trovato un posto di lavoro o un tirocinio, ma non possono regolarizzare la loro posizione perché al compimento del diciottesimo anno di età, se i genitori non hanno un permesso di soggiorno, la condizione di irregolarità (e di espellibilità) si estende anche ai figli. Anche se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha ampliato la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno, la pratica quotidiana degli uffici stranieri delle questure continua a negare qualunque possibilità di legalizzazione. Ma non basta. Anche giovani rom, figli di persone in possesso di un titolo di soggiorno, si sono visti recapitare, come "regalo" per il compimento del diciottesimo anno, un provvedimento di espulsione firmato dal questore.

L'accattonaggio ed il riciclaggio di materiali usati, raccolti presso le discariche accanto le quali sono ubicati i "campi nomadi" italiani, tradizionali strumenti i sopravvivenza delle comunità rom, vengono colpiti come un reato e non si offrono ai capifamiglia prospettive alternative per sfamare i propri figli. Con il rischio crescente che lo stato di bisogno sospinga verso la devianza anche le persone che maggiormente hanno creduto nelle possibilità di integrazione.

Tutto questo diventa sempre più grave alla luce delle nuove sanzioni penali introdotte dal governo Berlusconi contro gli immigrati irregolari, spesso irregolari perché nelle scelte discrezionali da parte degli uffici stranieri delle Questure si è sempre scelta la soluzione più restrittiva, in qualche caso anche violando il dettato della legge, come è provato dalle decine di sentenze che hanno sanzionato atti illegittimi e comportamenti omissivi posti in essere da diversi uffici stranieri ai danni dei rom in questi ultimi anni.

Il ministro Maroni, da parte sua, attacca da mesi l'autonomia della magistratura quando non si esprime in linea con l'orientamento del governo. A luglio il ministro ha criticato duramente il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Verona "colpevole" di avere rimesso in libertà quattro rom, che avrebbe così vanificato un' operazione di polizia».non convalidando il fermo dei "nomadi" accusati di sfruttamento di minori. L'operato della polizia va sempre difeso, anche senza leggere le carte. : «Non ho letto l' ordinanza – ha affermato il ministro - ma sono rammaricato perché è stata vanificata un' operazione di polizia. Metterli in libertà è stato un errore". La presunzione di innocenza per i rom è stata cancellata dalla Costituzione. Ma è noto quanto il governo Berlusconi tenga in conto la nostra Costituzione. La falsa "sicurezza" dei cittadini è una buona merce dai contrabbandare per nascondere i loro interessi economici ed i loro giochi di potere.

Il messaggio dell'esecutivo sembra intanto arrivare a destinazione. Nelle strade si uccide con le spranghe o si dà fuoco con le molotov, si applica insomma la giustizia "fai da te". Nelle caserme dei carabinieri si applicano trattamenti disumani e degradanti che sarebbero vietati anche dall'art.13 della Costituzione, secondo il quale "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". Nelle sentenze più recenti si affermano pregiudizi veri e propri, anche da parte di organi giudicanti che si conformano pedissequamente alle linee dettate dai vertici giudiziari e dal governo di turno, come se fosse una "colpa" dei rom essere ancora privi dei documenti di soggiorno, abitare nei campi"infestati dai topi", nei quali sono stati confinati per forza e lì abbandonati per anni dalle istituzioni, o non trovare un lavoro per il loro sostentamento. Si giunge persino a negare l'evidenza, che i padri convivano con i figli minori (così un giudice nella convalida di un trattenimento nel CIE di Caltanissetta), magari perché l'ultimo certificato di famiglia risale alla data dell'ultimo permesso di soggiorno poi scaduto, perché c‘è un provvedimento di espulsione da eseguire, e si creano così le condizioni legali per creare " minori i stato di abbandono", costringendo i genitori all'allontanamento forzato ed alla clandestinità. Tanti aspetti, alcuni illegali e violenti, altri apparentemente legali e pacifici, della stessa considerazione degli immigrati, e dei rom in particolare, come esseri umani di rango inferiore.

Sembrerebbe che, venendo meno al doveroso controllo giurisdizionale sulla discrezionalità di polizia, alcuni giudici diano un rilievo assoluto alle indicazioni di "tolleranza zero" che giungono dal governo, ed oggi alle estemporanee esternazioni del ministro Maroni, secondo il quale tutte le operazioni di "censimento" sarebbero finalizzate alla "tutela" dei minori, perché molti piccoli rom sarebbero nella condizione di "minori non accompagnati". Secondo il ministro dell'interno diversi minori rom presenti nei campi sarebbero addirittura coinvolti nel traffico della prostituzione, senza neppure distinguere tra rom romeni (per i quali il problema esiste, ma non può essere certo affrontato con misure repressive applicate sugli individui isolati senza colpire il racket) e rom della ex Jugoslavia (che vivono all'interno di nuclei familiari assai strutturati residenti da anni nei cd. "campi nomadi"). Dopo queste anticipazioni di Maroni attendiamo senza troppa curiosità i risultati finali del censimento dei campi voluto dal governo Berlusconi, un censimento che le associazioni di tutela avevano già effettuato da tempo, per fini ben diversi, un censimento, quello realizzato nelle ultime settimane, che adesso costituirà soltanto la premessa per operazioni di sgombero forzato, rastrellamenti ed espulsioni.

Si fa tutto il possibile, da parte delle istituzioni di governo, per mettere in risalto i casi di illegalità riscontrati (o presunti) nei "campi nomadi", per mettere a tacere le accuse di razzismo e per legittimare la prossima campagna di ottobre, lo sgombero forzato dei campi e la deportazione di massa che Maroni annuncia per ottobre, alla vigilia della visita della delegazione del Parlamento Europeo che dovrà indagare sulla situazione dei rom in Italia.

Ma tutto questo non sarebbe possibile senza una svolta della magistratura che in precedenza aveva svolto una funzione di garanzia rispetto agli abusi delle forze di polizia, contribuendo alla difesa dei percorsi di legalizzazione che le associazioni antirazziste erano riuscite ad intraprendere con successo all'interno dei campi rom. Anche nel perseguire gli atti di discriminazione razziale le sentenze sono sempre più rare, e persino la legge Mancino n.205 del 1993, che sanziona penalmente i comportamenti caratterizzati da odio razziale sembra caduta in desuetudine.

Occorre dunque ricostruire la trama di diritti che può essere ancora riconosciuta agli appartenenti alla "minoranza" rom in Europa ed in Italia in particolare, composta in maggior parte proprio da donne e minori, utilizzando nel senso più ampio le possibilità di legalizzazione offerte dalla legislazione vigente. Se non si riconoscono i diritti fondamentali delle persone, con particolare attenzione alla condizione dei minori, parlare di doveri rimane solo vuoto moralismo, o diventa demagogia interessata. Occorre restituire storia, diritti, dignità alle persone alle quali lo stato ed i suoi apparati la negano tutti i giorni. Dopo le violazioni più eclatanti dei diritti delle persone vanno costruite occasioni di mobilitazione, per rendere più efficace la difesa in giudizio, semplicemente per fare conoscere, e rendere pubblici gli elementi sui quali in futuro si potrà fondare la condanna morale, e forse anche giudiziaria, di tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito ad alimentare questa spirale xenofoba e discriminatoria che avvelena la convivenza sociale in Italia.

2. L'allontanamento repentino dei genitori rom privi di un regolare permesso di soggiorno, il loro internamento nei centri di identificazione d espulsione, sulla base di provvedimenti adottati discrezionalmente dai Questori e applicati dagli organi di Polizia, senza verificare la presenza delle cause di inespellibilità previste dall'art. 19 del testo unico n.286 del 1998, sta comportando una grave destabilizzazione di situazioni familiari, già assai precarie e gravemente pregiudicate dal disagio economico, dalla condizione sanitaria e dalle situazioni abitative nelle quali i rom sono stati costretti da decenni. Le condizioni di inespellibilità possono valere anche in presenza di lievi precedenti penali, quando non si riscontri più una pericolosità sociale attuale.

Spesso le misure di internamento e di allontanamento forzato sono fondate su provvedimenti di espulsione risalenti nel tempo, in qualche caso collegati a precedenti penali per reati di lieve entità, sui quali anni prima si è avuto un patteggiamento della pena, reati per i quali dovrebbe valere la riabilitazione automatica , anche a fronte del decorso di tempo e del percorso di reinserimento nella legalità che molte famiglie rom hanno sperimentato con successo. Sul punto il Consiglio di Stato con una recente sentenza dell'8 agosto di quest'anno ha affermato: " di condividere l'orientamento secondo il quale alla riabilitazione possa equipararsi l'automatica estinzione della condanna inflitta in sede di "patteggiamento", ai sensi dell'art. 445 cod.proc.pen. Sul punto v'è piena concordanza di opinioni tra la giurisprudenza penalistica e quella amministrativa, essendosi in passato affermato che "attesa la sostanziale analogia fra gli effetti della riabilitazione, quali previsti dall'art. 178 codice.penale, e quelli del positivo decorso del termine previsto dall'art. 445 comma 2 c.p.p., con riguardo alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, deve escludersi che, una volta realizzatasi detta seconda condizione, vi sia ancora interesse giuridicamente apprezzabile ad ottenere la riabilitazione, tenendo anche presente che, ai sensi dell'art. 689 comma 2 lett. a) n. 5 e lett. b) c.p.p., le sentenze di applicazione della pena su richiesta sono comunque destinate a non comparire sui certificati del casellario rilasciati a richiesta dell'interessato, indipendentemente da qualsivoglia statuizione del giudice al riguardo." (Cassazione penale , sez. IV, 19 febbraio 1999, n. 534, ma si veda anche, nel medesimo senso, Sezione Sorveglianza Napoli, 23 gennaio 2003, T.A.R. Toscana Firenze, sez. I, 12 febbraio 2007, n. 212)".

Le esigenze di allontanamento forzato non possono prevalere sugli obblighi di protezione di rilevanza internazionale ai quali si è sottoposta l'Italia sottoscrivendo diverse Convenzioni a salvaguardia dei diritti della persona e a tutela della condizione dei minori in particolare.

Una particolare attenzione va dedicata ad una questione che riguarda non solo i rom ma tutti i migranti in condizione irregolare, ma che sulle famiglie rom sta producendo effetti devastanti. Ci riferiamo all'uso generalizzato dei procedimenti per direttissima, con condanna immediata e relativa scarcerazione/espulsione della persona sottoposta a giudizio, senza una effettiva possibilità di difesa e di appello, anche per i limiti della difesa di ufficio e per i tempi ristrettissimi delle procedure che impediscono un sia pur minimo esercizio dei diritti di difesa garantiti dall'art. 24 della Costituzione. Chi ha commesso un reato, anche se legato soltanto alla presenza irregolare, o chi è in regime di carcerazione preventiva può e deve fare valere i diritti di difesa e ad un equo processo, esattamente come tutti i cittadini italiani. Le espulsioni, anche quando vengono effettivamente eseguite, se sono effettuate in sostituzione del processo che può condurre all'accertamento delle responsabilità penali, rischiano di favorire i colpevoli e di danneggiare soltanto gli innocenti. Nel caso dei colpevoli, l'espulsione come misura sostitutiva della pena, o del processo, diventa un comodo lasciapassare, un viaggio (con relative scorte di polizia) pagato dai contribuenti italiani verso il paese di origine, per poi rientrare clandestinamente in Italia, non appena lo si voglia. E in questo modo si vorrebbe propagandare una maggiore sicurezza per i cittadini.

Si dimentica poi che una buona parte dei rom proviene da zone nelle quali, se fossero ricondotti forzatamente nei paesi di provenienza, rischierebbero ancora esclusione e persecuzioni. Molti di loro hanno avuto in passato un permesso di soggiorno per motivi umanitari o per motivi di salute, se non per lavoro,un permesso che non è stato possibile rinnovare per l'inasprimento delle norme relative al rilascio dei permessi di soggiorno e per i comportamenti dilatori, se non apertamente discriminatori, da parte degli uffici stranieri di molte questure italiane. Tanti, anche rom, che erano riusciti a regolarizzare la loro posizione con le sanatorie degli anni passati, hanno perduto il permesso di soggiorno perché non hanno più trovato chi stipulava un regolare contratto di lavoro, diventato oggetto di ogni genere di mercanteggiamento, la legge Bossi-Fini prevede che dopo sei mesi di disoccupazione si perde il diritto a permanere nel nostro paese. Anche se si è nati in Italia, e se in Italia sono sepolti i propri genitori.

Nel caso delle famiglie rom provenienti dal Kosovo, stato ormai autonomo, la eventuale espulsione degli adulti privi di permesso di soggiorno e dei figli minori a seguito del padre non è neppure ipotizzabile, alla luce del divieto sancito dall'art. 19 del T.U. sull'immigrazione che -oltre a vietare l'espulsione dei minori - vieta qualunque espulsione verso paesi nei quali si possa essere oggetto di persecuzione, come appunto potrebbe verificarsi ancora domani in Kosovo, soprattutto dopo gli ultimi eventi di politica internazionale che hanno riproposto i drammi del nazionalismo e la pulizia etnica a danno delle minoranze. Né gli stessi minori potrebbero fare rientro in Kosovo, in quanto in quella nuova "entità statale", autoproclamatasi "repubblica indipendente" ma ancora dall'incerto riconoscimento internazionale, si verificano gravi problemi di sicurezza per gli appartenenti all'etnia rom mentre è provata la sistematica discriminazione nell'accesso all'abitazione, alle cure sanitarie, ed all'istruzione, tanto in Serbia quanto in Kosovo, secondo quanto rilevato ancora nel 2008 da Amnesty International e dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Basta consultare su internet i rapporti di queste organizzazioni per comprendere i pericoli ai quali sarebbero esposti coloro che dopo decenni di presenza in Italia hanno ormai perduto ogni legame con i paesi di origine, o addirittura sono nati in Italia.

Né in Serbia, né tantomeno in Kosovo, sussisterebbero peraltro idonee condizioni abitative, economiche e sanitarie per garantire la crescita e lo sviluppo psicofisico dei minori, anche alla luce dello sradicamento sociale del padre assente da oltre venti anni dal paese di origine. Sono peraltro riferite da fonti attendibili, come Amnesty International, gravi fatti di discriminazione che si sono verificati ai danni di rom costretti dopo una espulsione a ritornare in quel paese che ormai costituisce una entità statale diversa da quella di cui sono originari.. I recentissimi sviluppi della crisi nelle regioni del Caucaso non potranno che inasprire i già difficili rapporti tra la Serbia e la autoproclamatasi Repubblica del Kosovo, governata da politici filo-allbanesi che in passato, come componenti dell'UCK (definito come "esercito di liberazione del Kosovo"), hanno attivamente contribuito, secondo quanto rilevato da Amnesty e dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, alla persecuzione della popolazione rom originaria del Kosovo, perché ritenuta filo serba, con particolare accanimento nella provincia di Kosovska Mitrovica.

3. L'allontanamento forzato di un genitore, per effetto di un invito a presentarsi in Questura " per chiarire la propria posizione in ordine alle condizioni di soggiorno", o a seguito di una vera e propria retata di massa, come quelle che Maroni annuncia adesso per ottobre, rappresenta già un grave, ulteriore, momento di "crisi" del residuo nucleo familiare, che incide negativamente sul percorso di crescita e sullo sviluppo psico-fisico dei figli minori. A fronte delle particolari situazioni di disagio abitativo ed economico nelle quali si trovano le famiglie Rom, alloggiate all'interno del "campo nomadi", istituiti di fatto o tollerati per anni dagli enti locali, ma abbandonati ad una condizione di degrado e di irregolarità, la prolungata assenza del genitore, unico titolare della potestà genitoriale, produce conseguenze assai gravi per quanto concerne il sostentamento, la salute e l'accesso alle cure mediche dei figli minori, oltre che risultare pregiudizievole per la loro futura frequenza scolastica (ancora obbligatoria, almeno fino a quando il ministro Gelmini vieterà ai minori irregolari la possibilità di frequentare persino la scuola dell'obbligo).

E' noto che, secondo il più recente orientamento restrittivo della Corte di Cassazione, l'autorizzazione alla permanenza nel territorio ex art. 31 c.3 del T.U. sull'immigrazione n.286 del 1998 non si ricolleghi meramente a situazioni familiari caratterizzate dalla "normalità e dalla tendenziale stabilità" ma vada correlata a "circostanze contingenti ed eccezionali, che pongano in grave pericolo lo sviluppo normale della personalità del minore, tanto da richiedere la presenza del genitore nel territorio dello Stato per fronteggiarle" (Cass. 747/2007 e 4197/2008). Si osserva tuttavia che la previsione dell'art. 31, comma 3°, decreto.legislativo n. 286/1998, non può essere ristretta ai casi di "eventuali patologie" di un minore, considerato che lo sviluppo psicofisico e la salute del minore che si trova nel territorio italiano dipendono soprattutto dalla sua relazione con le figure primarie di assistenza morale e materiale e dal soddisfacimento del suo bisogno di avere i genitori con sé;

D'altra parte la stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza del 28.9.2006 n. 22216, aveva precisato che l'art. 31 del T.U. sull'immigrazione n.286 del 1998, come modificato dalla legge n.189 del 2002, " prevede una duplice fattispecie, e cioè quella della autorizzazione all'ingresso e quella della autorizzazione alla permanenza del familiare sul territorio nazionale in deroga alle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e nel concorso di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute; che la presenza di gravi motivi richiede l'accertamento di situazioni di emergenza di natura eccezionale e contingente, di situazioni cioè, che non siano quelle normali e stabilmente ricorrenti nella crescita di un minore secondo il ricorrente orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità (…) la presenza dei gravi motivi deve essere puntualmente dedotta dal ricorrente ed accertata dal tribunale per i minorenni come emergenza attuale solo nell'ipotesi di richiesta di autorizzazione all'ingresso del familiare nel territorio nazionale in deroga alla disciplina generale dell'immigrazione; ciò non vale sempre, invece, nell'ipotesi in cui – come nella specie -, venga richiesta l'autorizzazione del familiare che diversamente dovrebbe essere espulso, poiché la situazione eccezionale nella quale vanno ravvisati i gravi motivi può essere attuale, ma può anche essere dedotta quale conseguenza dell'allontanamento improvviso del familiare sin allora presente e cioè di una situazione futura ed eventuale rimessa all'accertamento del giudice minorile".

E' altresì riconosciuto che i "gravi motivi" possono consistere "anche in evenienze diverse da quelle terapeutiche "-sia di ordine fisico sia di ordine psichico" (Cass. 396/2006). Né una lettura restrittiva dell'art. 31 comma.3 potrebbe argomentarsi alla stregua del regolamento n.334/2004 che all'art. 11 prevede nei casi di cui all'art. 31, c.3 la possibilità del rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche, in quanto tale norma regolamentare non potrebbe incidere sulla possibilità consentita al tribunale per i minorenni di "autorizzare" comunque la permanenza del familiare nello stato nel superiore interesse del minore, applicando lo stesso art. 31, comma.3 anche in deroga alle altre disposizioni del d.lgs. 286/98 e quindi a maggior ragione della normativa regolamentare di applicazione. In base all'art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, comunque, in tutte le decisioni relative ai minori "l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente". Peraltro la stessa Corte di Cassazione riconosce che i gravi motivi per il rilascio dell'autorizzazione ex art. 31 c.3, debbano corrispondere " alla necessità di non deprivare traumaticamente il fanciullo della fruizione di diritti fondamentali riconosciuti dalla legge, a prescindere dalla sua condizione di straniero" e quindi nell'ambito di tali diritti non rientra solo il diritto alla salute psico-fisica ma anche il diritto all'unità della famiglia. Una diversa lettura della norma la svuoterebbe praticamente di operatività che va invece riaffermata non in astratto ma in modo circostanziato per ogni singola fattispecie concreta, tenendo conto delle complessive esigenze del minore.

Si devono inoltre ricordare consolidati principi del diritto convenzionale che devono orientare tanto il legislatore quanto l'applicazione al caso concreto della norma di cui all'art. 31, comma 3°, d.lvo n. 286/1998. Si richiamano in particolare:

  •  l'art. 9, comma 1°, della Convenzione sui diritti del fanciullo prevede che un fanciullo possa essere separato dai suoi genitori contro la loro volontà solo quando questa separazione è necessaria nell'interesse del fanciullo, come quando i genitori maltrattano o trascurano il fanciullo;
  •  l'art. 10 della Convenzione sui diritti del fanciullo prevede che "ogni domanda di ricongiungimento familiare deve esser considerata con uno spirito positivo, con umanità e diligenza", e perciò a maggiore ragione con le stesse attitudini va considerata ogni questione che comporti, attraverso la negazione dell'autorizzazione alla permanenza del genitore in Italia, l'allontanamento (come contrario del ricongiungimento) del genitore dai figli;
  •  l'art. 3, comma 2°, della Convenzione sui diritti del fanciullo dispone che "in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza … dei tribunali … l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente".

Il recente orientamento della Corte di cassazione (sentenza n. 4197 del 19 febbraio 2008) che sembra chiudere quasi del tutto, in modo assai più esplicito che in passato, la possibilità di legalizzazione dei genitori in applicazione dell'art. 31 del testo Unico sull'immigrazione non va applicato in modo automatico ma richiede comunque un accertamento rigoroso delle condizioni di fatto, sui quali la stessa Corte di cassazione non può essere chiamata ad esprimersi. Secondo quei giudici " i gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore straniero presente nel territorio italiano che, ai sensi dell'art. 31, terzo comma, del decreto legislativo 25 Luglio 1998, n. 286, consentono il rilascio, da parte del Tribunale per i minorenni, dell'autorizzazione all'ingresso o alla permanenza in Italia per un periodo di tempo determinato ai familiari del minore, anche se colpiti da provvedimento di espulsione, vanno correlati alla sussistenza di condizioni di emergenza, contingenti - e cioè transeunti - ed eccezionali, che pongano in grave pericolo l'evoluzione normale della personalità del minore, tanto da richiedere il sostegno del genitore. Si deve quindi trattare di un danno non altrimenti evitabile ed ulteriore rispetto a quello sempre riconoscibile alla separazione dal proprio padre, che è evento, di per sé, connaturalmente traumatico".

Secondo la prima sezione civile della Corte di cassazione "esula, dunque, dalla previsione di legge invocata, che rappresenta una deroga eccezionale alle stesse esigenze pubbliche che sono alla base del decreto di espulsione, la mera presenza di circostanze ordinarie, quali il bisogno di completare il ciclo scolastico del minore o l'opportunità, anch'essa innegabile in linea di principio, che questi non sia costretto a sottrarsi al tessuto sociale in cui è integrato, per raggiungere il genitore nel paese di origine, pur se caratterizzato da condizioni di vita meno progredite. Diversamente opinando, si produrrebbe il risultato di uno stabile radicamento nel territorio italiano del nucleo familiare, dando adito a modalità anomale di regolarizzazione dell'inserimento di famiglie di stranieri illegalmente presenti nel territorio nazionale, mediante una forma di strumentalizzazione, e non già di tutela, dell'infanzia (Cass., sez. I, 2 Maggio 2007, n. 10135; Cass. civile, sez. I, 15 Gennaio 2007, n. 747; Cass. civile, sez. I, 11 Gennaio 2006, n. 396; Cass., sez. I, 14 Novembre 2003, n. 17194).

Alla luce di questi orientamenti sembrano restare sullo sfondo le Convenzioni internazionali e le norme interne che attribuiscono rilievo, anche in caso di genitori privi di permesso di soggiorno, al "superiore interesse del minore" come una ragione che da sola può giustificare provvedimenti amministrativi di segno opposto rispetto all'espulsione. Come hanno riconosciuto e continuano a riconoscere alcuni tribunali per i minorenni in diverse regioni italiane. E la stessa possibilità è riconosciuta, sia pure in modo contrastato, dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo con riguardo all'art. 8 della Convenzione che afferma il principio dell'unita familiare, con una previsione che può essere estesa anche ai migranti irregolari

Una parte della giurisprudenza italiana tenta comunque di resistere agli orientamenti più restrittivi della prima sezione civile della Corte di Cassazione riaffermando la necessità di riconoscere il "superiore interesse al benessere psico-fisico dei minori". Così ad esempio con due provvedimenti del 24 e 31 maggio 2007 il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d'Aosta (in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2007, IV, p.169) richiama la necessità di interpretare l'art. 31 del testo unico sull'immigrazione alla luce dell'attuazione in Italia della direttiva comunitaria sul ricongiungimento familiare, avvenuta con decreto legislativo n.5 del 2007, ed afferma che non costituisce fattore ostativo al rilascio della autorizzazione ex art. 31 comma 3 del T.U., una pregressa condanna penale del genitore, quando la presenza del genitore sia necessaria per il benessere psicofisico dei minori e lo stesso genitore non dimostri una pericolosità sociale attuale. Occorre in sostanza tenere conto non solo delle condizioni di salute del minore (come sembrerebbe sostenere la Cassazione), ma " della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami familiari e sociali con il suo paese di origine, nonché, per lo straniero già presente nel territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale".

I Tribunali per i minorenni dovrebbero quindi deliberare su questa delicata materia anche alla luce dei principi affermati dalle Convenzioni internazionali e dalle Direttive comunitarie, senza cedere ad atteggiamenti meramente tecnici ed astratti, o risultare condizionati dalla dilagante xenofobia che sulla scia della propaganda politica tende a diventare senso comune. I provvedimenti resi da questi giudici, ai sensi dell'art. 31 comma 3 del testo Unico sull'immigrazione, dovranno motivare invece con grande rigore la decisione adottata ed indicare specificamente quali conseguenze per la complessiva salute psicofisica del figlio minore potrebbero derivare dall'attuazione dell'espulsione di uno dei genitori irregolarmente soggiornate in Italia, solitamente il padre.

Gli autori ed i mandanti dei censimenti/rastrellamenti di questi giorni, e di quelli ancora più massicci che si annunciano per ottobre, dovrebbero ben sapere che molti ragazzi rom, non solo minori, ma sempre più spesso giovani adulti, sono nati e cresciuti in Italia, hanno frequentato le nostre scuole, e in qualche caso hanno anche perduto i genitori nel nostro paese, perché l'età media dei rom in Italia non supera i 45 anni. L'autorizzazione alla permanenza nel territorio dello stato rimane una occasione importante, spesso l'unica, per legalizzare nuclei familiari che hanno già dimostrato una capacità di inserimento e di integrazione nella legalità. In assenza di un autorizzazione a permanere nel territorio italiano ex art. 31 c.3 del T.U. n.286 del 1998, i genitori rom che siano destinatari di un provvedimento di espulsione e trattenuto in un centro di identificazione ed espulsione (CIE), rischiano concretamente di essere espulsi, non è chiaro se verso la Serbia o verso il Kosovo, o di restare a vita sospesi in una condizione di illegalità che ogni giorno viene sanzionata con pene sempre più gravi.. E la condizione dei irregolarità dei genitori rischia di pregiudicare concretamente il futuro dei figli. Come è noto i figli minori, che altrimenti non sarebbero espellibili, possono seguire i genitori (o il genitore) in caso di espulsione. Dunque anche i figli minori rischierebbero di essere costretti a seguire il padre, una volta che questo venga accompagnato coattivamente in frontiera, o dovrebbero affrontare da soli la vita nel nostro paese, come"minori non accompagnati", non accompagnati perché lo stato ha contribuito a creare questa condizione. Magari per finire affidati ad una casa famiglia, oggetto di probabili violenze e di profitto da parte degli enti privati gestori, e poi probabilmente ancora in fuga, una fuga che potrebbe concludersi con la caduta nella illegalità. In ogni caso separati per sempre dalla famiglia di origine, dagli affetti più cari, da quegli operatori che stano contribuendo al loro inserimento.

Occorre altresì osservare che la Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge n. 176 del 1991 sancisce all'art. 9 che "gli stati vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la sua volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell'interesse preminente del fanciullo". Come si concilia questa disposizione di una convenzione internazionale sottoscritta anche con l'Italia, con l'esecuzione di misure di allontanamento forzato che smembrano i nuclei familiari e separano i figli dai padri?

Non basta replicare semplicisticamente, in astratto, che occorre "un necessario temperamento" tra le esigenze pubbliche legate al provvedimento di espulsione di un cittadino straniero privo di un permesso di soggiorno ed il "superiore interesse del fanciullo" affermato dalle Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e richiamato nella normativa sull'immigrazione. Tale "bilanciamento" non può prescindere da una valutazione analitica delle condizioni personali dei minori e delle loro prospettive di vita. Nel caso dei rom della Ex Jugoslavia che sono presenti in Italia da anni e qui vi hanno avuto figli, per quanto sopra rilevato, la situazione nei paesi di provenienza rimane assai confusa e si possono riscontrare quelle circostanze che richiedono la presenza del genitore nel territorio dello stato per continuare a seguire la crescita e lo sviluppo psico-fisico dei figli in una condizione di particolare difficoltà abitativa ed ambientale.

Ove il genitore non fosse autorizzato a permanere nel territorio italiano in base all'art. 31 del testo Unico e venisse accompagnato in frontiera, appare certo un grave pregiudizio per il "superiore interesse dei minori" e per le possibilità di un sano sviluppo psico-fisico a causa della separazione, probabilmente irreversibile, nei confronti del genitore, a carico del quale scatterebbe peraltro anche il divieto di reingresso nel territorio italiano per dieci anni (misura accessoria al provvedimento di espulsione amministrativa). Di fatto si verificherebbe una separazione probabilmente definitiva, tra il genitore ed i figli minori per effetto della esecuzione della misura di allontanamento forzato, e si costringerebbe l'intero nucleo familiare a subire una condizione permanente di irregolarità, se non di clandestinità.

[lunedì 15 settembre 2008]