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Case per i rom sgomberati, il volto buono di Bologna
Di Fabrizio (del 14/04/2008 @ 11:01:59, in casa, visitato 1570 volte)

Da il manifesto del 13 Aprile 2008

Gli alloggi assegnati a chi aveva documenti e lavoro. Gli affitti, calmierati, pagati a metà dalla fondazione Carisbo e dai locatari
Tra gli sgomberati del Ferrhotel, che ora hanno avuto assegnata un'abitazione a canone concordato. Con l'impegno del comune e un obiettivo: dismettere i campi nomadi. Un esempio in controtendenza rispetto alla politica degli allontanamenti. Firmato Cofferati
Linda Chiaramonte

Bologna

È da poco rientrato a casa dal lavoro Aghiran quando apre la porta sorridente e mi fa accomodare in cucina dove sul fuoco borbotta una caffettiera. Sì, proprio così, a casa. Aghiran, come tanti altri rom, ha vissuto una piccola odissea fatta di sgomberi, occupazioni, baracche sul lungo fiume, giacigli di fortuna e ora questo appartamento in una palazzina in una strada alberata di una zona tranquilla di Bologna, non molto lontana dal centro, sembra un sogno. Aghiran ha 40 anni, moglie e due figlie di 12 e 7 anni ed è arrivato a Bologna per cercare lavoro nel 2003, ha raggiunto amici e parenti che gli parlavano bene della città. È arrivato da Lipovu, un piccolo paese a trenta chilometri da Craiova, in Romania. Lì ha una casa, faceva il saldatore e ha lavorato nelle ferrovie. Guadagnava fra i 150 e i 200 euro al mese. Dopo la rivoluzione dell'89 però molte ditte italiane, tedesche e francesi hanno rilevato molte fabbriche in Romania e metà degli operai sono rimasti senza lavoro. Dal '91 al '93 gira in cerca di occupazione fra Germania, Turchia e Serbia, nel '99 sposa Marian. Prima della rivoluzione in Romania, ha sempre lavorato, vivendo dignitosamente, dopo invece il lavoro è iniziato a mancare e avendo ormai famiglia Aghiran ha dovuto darsi da fare e partire ancora.

Un paese incivile
Alla fine del 2003 arriva a Bologna. Per tre anni e mezzo è solo, moglie e figlie sono rimaste a Lipovu. Il suo primo alloggio è il Ferrhotel, ex albergo dei ferrovieri da anni inutilizzato, occupato da alcuni attivisti dei movimenti bolognesi, che diventerà la casa di molti nuclei familiari di rom reduci dal primo sgombero delle baracche sul lungo Reno. Lì Aghiran, all'epoca senza documenti, divide la stanza con parenti e amici. Sgomberi dalla sua «baracchina» di nylon sul fiume ne ha vissuti almeno tre. «Sono stati tempi brutti, non mi aspettavo che la vita in Italia, un paese occidentale e democratico, sarebbe stata così dura, non ho trovato quello che mi aspettavo. Ho trovato sfruttamento e razzismo. I datori di lavoro mi davano 25-30 euro al giorno. Dal 2004 al 2006 lavoravo come manovale nell'edilizia, ma ero malpagato perché non avevo i documenti. Diverse volte ho perso il lavoro perché hanno saputo che ero rom, ma io non mi vergogno, anche se ho vissuto spesso discriminazioni razziali», racconta con un velo di tristezza e ricorda di quando gli è capitato di rientrare dopo il lavoro nella sua baracca e di non trovarla più, demolita mentre era via insieme alle sue cose. Dopo le prime ruspe sul Lungoreno del marzo 2005 volute dal sindaco Sergio Cofferati, che salì agli onori delle cronache come paladino della legalità, seguite da altre in ottobre e novembre, è stato sistemato insieme agli altri in un campo di transito in un'area attrezzata nella periferia del quartiere San Donato. Lì Aghiran ha vissuto in un container con la famiglia del fratello fino al settembre 2006. Poi un altro trasferimento e un altro container fino al 2007, questa volta in una struttura creata dal Comune per far fronte all'emergenza dell'accoglienza dei rom.

«Cuore di rom»
Prima dell'estate 2007 ad Aghiran, che dal primo maggio ha un regolare contratto di lavoro in un'azienda agricola di ortofrutta, appena fuori città, arriva la buona notizia che nel giro di pochi mesi potrà trasferirsi in una vera casa, un appartamento arredato. Così a settembre, un paio di mesi prima del trasferimento, la moglie e le figlie lo raggiungono a Bologna e a novembre tutta la famiglia trasloca in 80 metri quadri. «Sono felice di poter offrire un futuro onesto alle mie figlie, le voglio sistemare qui, perché in Romania non avrebbero un futuro. Anche se io voglio morire nella mia terra. Ora mi sento molto bene, ho un lavoro, le figlie vanno a scuola, ho la casa» dice soddisfatto Aghiran, che tutte le mattine fa alcuni chilometri in bicicletta per raggiungere il lavoro. Tutti i sabati alcuni operatori aiutano le bambine a fare i compiti, bambine che dopo pochi mesi in Italia parlano benissimo l'italiano. Nessun problema di integrazione né di convivenza con i vicini, solo una porta sempre aperta alle visite di amici e parenti cha passano a dare un saluto, bevono un caffé e restano a chiacchierare e a vedere la telenovela che trasmette la parabola, dal titolo «cuore di zingaro», dice Lavinia, la figlia più grande, «cuore di rom» corregge il papà, perché anche le parole fanno la differenza. Mentre lui racconta, la moglie ascolta e sorride, non parla una parola di italiano, ma capisce. Per cena ha preparato riso e pollo, probabilmente a tavola si fermeranno alcuni ospiti. Come molte delle donne che vivevano nelle strutture, e a cui è venuta a mancare la vita di comunità, soffre un po' di solitudine. Prima di salutarci Aghiran mostra orgoglioso il resto della casa, la sala, le due camere, il bagno. Il suo contratto è stipulato per quattro anni, poi potrà anche fare richiesta per la casa popolare.

«La colonna senza fine»
A ripercorrere tutte le tappe della vicenda rom in città è il bel documentario La colonna senza fine di Elisa Mereghetti, scritto con Valerio Monteventi, consigliere comunale indipendente di Bologna, presidente della commissione consiliare per le politiche abitative e della casa, da sempre impegnato in battaglie sociali. La storia di Aghiran rientra in un progetto avviato, e ormai concluso, dai servizi per l'integrazione interculturale del Comune di Bologna. Come lui sono state inserite in appartamento 17 famiglie su 19 provenienti dai container di via del Piratino, per un totale di 73 persone, oltre ad altri 27 nuclei, pari a 125 persone fra cui 57 minori, provenienti da Villa Salus, ex clinica dismessa adibita ad alloggio per fronteggiare l'emergenza rom dopo lo sgombero del Ferrhotel eseguito con un'ordinanza del sindaco. Per questa operazione il Comune ha dovuto reperire sul mercato privato appartamenti a canoni concordati, in città e comuni vicini, che non superassero gli 800 euro al mese, li ha poi mostrati e proposti alle famiglie con i requisiti richiesti per affrontare le spese di circa il 50% dell'affitto ovvero documenti e lavoro. Nell'assegnazione gli operatori del servizio hanno tenuto conto della vicinanza con il luogo di lavoro e dei servizi, come scuole e mezzi pubblici. Il Comune si è fatto garante presso i proprietari e si è fatto carico di pagare 300 euro al mese per ogni famiglia, grazie anche al contributo dato dalla fondazione bancaria Carisbo, siglato nel febbraio 2007, che ha stanziato 150.000 euro, 100.000 dei quali sono stati spesi per gli affitti del 2007. La restante parte dell'affitto (oltre alle utenze) viene corrisposta dagli affittuari, cifra che solo in pochi casi supera il 50%. Il Comune ha utilizzato altri 100.000 euro per gli interventi socio-educativi di accompagnamento e inserimento sociale lavorativo rivolto soprattutto alle donne. Inoltre gli operatori si occupano di aiutarli nelle pratiche per la residenza, dell'iscrizione a scuola e alle Asl, seguono le vaccinazioni e monitorano la frequenza scolastica.

Superare i campi nomadi
Il progetto dell'inserimento abitativo in appartamento, iniziato nel marzo 2005, si pone come alternativa alla logica assistenziale e va nella direzione della dismissione dei campi nomadi. Un tema impopolare quello dell'assegnazione di case ai rom che suscita ire e levate di scudi, in un paese in cui è più facile cacciare i rom da un punto all'altro delle città. Anche se forse non tutti conoscono gli alti costi di manutenzione di un campo nomadi per le amministrazioni, di molto superiore rispetto all'inserimento abitativo. A Bologna la gestione per sei mesi di Villa Salus nel 2007 è costata circa 310.000 euro, l'altra struttura, il cosiddetto Piratino, circa 287.000 per l'intero 2007, per un totale di circa 600.000 euro. Entro l'anno il Piratino sarà riedificato con 270.000 euro del fondo ministeriale per progetti socio-assistenziali. Diventerà una struttura permanente di casette in muratura che offrirà 50 posti letto alle famiglie in situazioni di grave disagio abitativo. Il 30 giugno, dopo 15 anni, chiuderà il campo di Sasso Marconi per ex profughi dell'ex Jugoslavia che ora ospita sei famiglie, entro il 2008 chiuderà anche l'altro, alle porte di Bologna, che ne accoglie sette. Anche in questi casi è previsto l'inserimento abitativo in appartamenti.