Parla molto di noi la questione "zingara"
Alberto Burgio
Ciclicamente, come le polemiche sui morti della strada o i roghi estivi (esempio
non casuale), riesplode la questione dei campi nomadi. Che ci sia di mezzo il
morto (i morti, come i bimbi arsi vivi a Livorno in quello che pare un ennesimo
atto criminale) o le gesta squadriste dei padani (come l'anno scorso a Opera),
cambia poco. Sta di fatto che di questa questione è impossibile liberarsi. Per
nostra fortuna.
Perché? Perché la questione degli «zingari» parla di noi. Qualche giorno fa sul
manifesto Enzo Mazzi diceva degli intrecci tra la loro e la nostra cultura.
Si potrebbe scavare ancora e scoprire che c'è un legame profondo tra
l'esperienza (e il disagio) della stanzialità e l'esperienza (lo stereotipo) del
nomadismo. Che diventa un'icona del rimosso e catalizza (qui c'è una convergenza
con l'antisemitismo) i furori razzisti della civitas christiana.
Ma non parla di noi solo per questo, la questione «zingara». È parte integrante
della nostra storia politica. Di noi italiani (italiani come e non più delle
decine di migliaia di rom e sinti cittadini di questa Repubblica), di noi
europei (come altre decine di migliaia di rom e sinti e camminanti che vivono
nelle nostre città). Faremmo bene a ricordarcene, e invece ce ne dimentichiamo.
Perché si tratta di pagine cupe e pesanti come pietre.
La prima riguarda le guerre «umanitarie» nei Balcani. I rom di origine jugoslava
(bosniaca e kosovara) sono profughi di quelle guerre di cui l'Italia fu
sciagurata protagonista. Sono sfuggiti a vendette e «pulizie etniche» che hanno
via via assunto le proporzioni di un pogrom. Si imporrebbe quindi, per
cominciare, un bilancio serio dei conflitti che insanguinarono la Jugoslavia
lungo gli anni Novanta. Un bilancio che non rimuova la destabilizzazione che li
preparò con l'intervento di formazioni terroristiche sotto copertura
occidentale.
La seconda pagina del nostro album riguarda le sistematiche persecuzioni
inflitte a sinti e rom dopo l'89 in tutte le loro terre d'origine, dalla
Slovacchia alla Boemia, dalla Moldavia alla Cechia, all'Ungheria, alla Romania.
Nell'indifferenza generale della civile Europa.
La terza (sfondo alle altre) concerne lo sterminio nazista, cui il nostro paese
partecipò con leggi e deportazioni. Si diceva delle convergenze con
l'antisemitismo. Nel 1936 il Reich equiparò gli «zingari» - emblema di
«asocialità» - agli ebrei. Lo sfondamento della Wehrmacht a est fu l'inizio di
un calvario che mise capo allo sterminio di mezzo milione di sinti e rom. Ma
anche l'Italia fece la sua parte. La persecuzione dei rom prese avvio qui, nei
primi anni del fascismo. E le leggi del '38 riguardarono anche gli «zingari»,
non solo gli israeliti.
Storia? Non soltanto. Alla base di queste nefandezze operarono stereotipi che
ancora impregnano le nostre discussioni. Di questo popolo si dipinge un ritratto
che non è il suo. I rom jugoslavi avevano le loro case prima che esse venissero
sottratte loro a forza. E all'est vivevano sì in condizioni disagiate, ma con un
grado di integrazione che noi neppure immaginiamo.
Ma a chi interessa capire se urge giudicare? Si dice del degrado dei campi nelle
nostre periferie. Quei campi che tanto spiacciono al cattolico onorevole Casini,
ansioso per il decoro delle nostre «grandi città». Quei campi per i quali il
democratico sindaco di Torino (come tanti altri dell'Unione, da Roma a Pavia)
invoca «poteri straordinari» per i prefetti e interventi «anche oltre le regole
pubbliche», pur di «ridurre il numero di rom». Allora bisogna dirlo chiaro: i
campi come li conosciamo in Italia non si trovano in altri paesi europei perché
altrove i rom vivono in comuni abitazioni grazie a un efficace sistema di
sostegno, nel pieno rispetto delle regole.
Dopodiché siamo d'accordo: le prediche non bastano e nemmeno basta la memoria
(che pure è un dovere politico, oltre che morale). Dunque che fare? Non si può
scantonare da alcuni punti fermi. I rom rumeni non sono extracomunitari, sono
europei come tutti gli altri. I rom italiani (70 mila) sono cittadini italiani,
come tutti gli altri. A qualcuno potrà spiacere, ma è così. Quindi nessun
diritto speciale, nessun trattamento ad hoc. Quanto agli apolidi, essi sono
profughi, protetti dalla Costituzione, che riconosce loro (ancora) il diritto
d'asilo. Piuttosto chiediamoci: quale risarcimento pensiamo si debba ai rom
immigrati nel nostro paese l'Italia, oggi accusata dalla Ue di non applicare la
direttiva «contro la discriminazione basata sulla razza e le origini etniche»,
ieri in prima linea nelle guerre balcaniche?
Veniamo al Kosovo. In questi anni, pur controllando militarmente parte del
territorio, l'Italia non è stata in grado (per responsabilità bipartisan) di
tutelare la presenza dei rom nella regione. Nel Kosovo di oggi, protettorato
militare e luogo di loschi incontrastati traffici, le minoranze (i rom, ma anche
la piccola comunità ebraica) non hanno possibilità di sopravvivenza e sono
costrette a esodi di massa, che riversano centinaia di migliaia di persone nel
resto dell'Europa e in particolare in Italia. Domanda: dopo aver bombardato
case, ospedali e infrastrutture civili, dopo aver consegnato il territorio alla
mafia kosovara (per tacere dello scandalo degli aiuti umanitari, delle
tonnellate di beni di vario genere destinati alle popolazioni balcaniche e
rimasti a Bari, dei legami con la malavita meridionale), quali programmi sociali
ci impegniamo a sostenere? Quale tutela dei tesori storici e artistici, quale
difesa delle minoranze, della vita e della cultura di ognuno?
Le forze di occupazione in Kosovo (di questo ormai si tratta) preferiscono
assecondare l'irredentismo schipetaro-albanese e gli appetiti degli americani
(che intanto hanno installato, in funzione antirussa, la più grande base
militare della regione). In questo quadro si gioca la partita dell'indipendenza
formale del Kosovo albanesizzato, per la quale anche il nostro governo pare
propendere.
Non si finga di non sapere che, ove venisse concessa, l'«indipendenza»
cancellerebbe qualsiasi possibilità di convivenza democratica e paritaria tra le
popolazioni della regione. E negherebbe ai rom ogni speranza di fare ritorno
nella propria terra.
Non si faccia il solito doppio gioco di causare disastri e poi lanciare accuse
per le loro conseguenze.