Ricevo da Tommaso Vitale
''Acqua non potabile'': imbottigliata e distribuita per denunciare il
degrado del campo rom di Castel Romano
E' quella del pozzo del campo dove vivono circa 1000 persone, l'unica
disponibile per il migliaio di persone, molti i bambini. “Alcuni dei nostri
bambini si sono già ammalati di epatite”
ROMA - "Acqua non potabile”. In confezioni da due litri, imbottigliata e
distribuita a Castel Romano, al chilometro 20 della via Pontina, a Roma. L'acqua
è delle più torbide e sul fondo della bottiglia precipita il terriccio in
sospensione. L"etichetta raccomanda: "solo uso esterno e fanghi”. E più sotto
specifica: “Acqua non potabile distribuita un'ora al giorno a 1.500
persone”. E" l'acqua del pozzo del campo rom di Castel Romanoi. L'unica
disponibile per il migliaio di persone, molti i bambini, ospitati nella
struttura aperta nel settembre 2005. I rappresentanti della comunità Korahanè
del campo, l'hanno imbottigliata e ne faranno omaggio alle autorità responsabili
per denunciare la situazione di degrado del campo. “Alcuni dei nostri bambini si
sono già ammalati di epatite, per aver bevuto quell'acqua”, dice Luigi, un
trentenne residente nel campo, che aggiunge: “Come è possibile che, in Italia,
mille persone siano tenute senza acqua potabile? Ho sempre lavorato, sono in
Italia da vent'anni, come tanti altri. Eppure lo stato ci costringe ad essere
nomadi”. I Korahanè di Castel Romano invitano quindi tutti i cittadini di Roma a
visitare il campo della Pontina giovedì 19 luglio a partire dalle 19:00, e a
passarvi la notte per “richiedere un intervento urgente da parte delle autorità
teso al ripristino delle condizioni di vivibilità e sicurezza per le 1.000
persone che vi abitano”. (vedi lancio successivo) (gdg)
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''Non siamo cani'': i rom si ribellano ai patti di sicurezza di Amato e
Veltroni
Prevedono il trasferimento di migliaia di famiglie in 4 nuovi grandi campi
attrezzati, che sorgeranno fuori dal raccordo anulare. Najo Adzovic: ''E' tempo
di reagire". Dure critiche alle associazioni che gestiscono i campi
ROMA - Non siamo nomadi. Basta con i campi, vogliamo una casa. Le comunità rom
di Roma si schierano contro i patti di sicurezza sottoscritti da Amato e
Veltroni lo scorso maggio, e che prevedono il trasferimento in massa di migliaia
di famiglie in 4 nuovi grandi campi attrezzati, che sorgeranno fuori
dall'autostrada del raccordo anulare.
"E" tempo di reagire - dichiara Najo Adzovic (Campo Casilino 900) - non possono
deportarci e recintarc come cani”. Dure le critiche alle associazioni e
cooperative che gestiscono i campi "Basta lucrare sulle nostre spalle – dice
Graziano Alilovic (Campo La Barbuta) –. Vogliamo case, non campi. Le
associazioni ci dicano da che parte stanno”.
Quella del diritto alla casa è la prima delle richieste del coordinamento dei
rom, riunitosi questa mattina all'università La Sapienza in un incontro con la
stampa. “Chiediamo al sindaco case popolari”, dice Meo Hamidovic (Campo Castel
Romano). Hamidovic vive al campo di Castel Romano dal 14 settembre 2005.
Allora venne sgomberato il
campo di vicolo Savini, a Ponte Marconi. Mille persone trasferite a Castel
Romano, in quello che si annuncia come prototipo dei villaggi della solidarietà
proposti dai patti di sicurezza firmati a maggio, a Roma, dal sindaco Walter
Veltroni, da Enrico Gasbarra, Piero Marrazzo e dal Prefetto Serra - oltre al
ministro Amato. Undici milioni di euro in tre anni dalla Regione Lazio, quattro
milioni dal Comune di Roma e un ulteriore contributo da parte della Provincia di
Roma, per rivedere l'assetto dei campi rom. Seimila persone – dichiara il
professor Marco Brazzoduro (La Sapienza) - rischiano la “deportazione” in
località periferiche e isolate, che saranno definite entro il 23 luglio.
Nel campo rom di Castel Romano vivono mille persone, confinate in 220 container
al confine tra Roma e Pomezia, nel mezzo della riserva naturale di
Decima-Malafede. Il
luogo è talmente isolato che per spegnere un incendio divampato nel campo due
giorni fa, a nulla è servito la chiamata ai vigili del fuoco, che non sono
riusciti a raggiungere la zona con le autobotti. Il campo è gestito dall'Arci,
per una convenzione che ammonta a 750.000 euro annui. “Il villaggio non è
attrezzato, siamo senza acqua potabile, non c'è un solo posto all'ombra per i
nostri bambini”, si lamenta Hamidovic. L'unica distribuzione idrica, per due ore
al giorno, è realizzata con acqua di pozzo non potabile e inquinata. “Alcuni dei
nostri bambini si sono già ammalati di epatite, per aver bevuto quell'acqua”,
dice un trentenne residente al campo. Il primo centro abitato dista 8 km dai
container, e le scuole dove i bambini erano iscritti prima dello sgombero da
vicolo Savini, distano 20 km. Molti hanno abbandonato gli studi. Anche perché,
denuncia Hamidovic, le scuole del XII municipio rifiutano di accogliere i nostri
figli.
I rom criticano anche l'atteggiamento securitario con cui si sentono giudicati.
“La società dei gage (i non rom, ndr) porta all'annullamento dell'identità –
dice Bruno Morelli -. I problemi di microcriminalità esistono, ma sono legati
alle condizioni di miseria dei campi e non alla cultura”. Morelli si è quindi
appellato ai media, perché diano voce alle istanze di “una minoranza etnica e
linguistica mai riconosciuta in Italia” e sostengano la lotta dei rom contro i
campi, “rimasti soltanto in Italia”. Intanto l'amministrazione capitolina va in
direzione opposta. Lo scorso 8 luglio, sono infatti arrivati a Roma i cinque
funzionari prestati dalle forze dell'ordine romene. Rimarranno per tre mesi, per
favorire l'identificazione dei rom. (gdg)
© Copyright Redattore Sociale h 16.48 17/07/2007