Li chiamiamo nomadi, ma ormai sono stanziali da tanti anni. E li consideriamo
stranieri, mentre la maggior parte di essi è italiana da generazioni. Luoghi
comuni sulle comunità rom e sinti presenti nella nostra Provincia. Pregiudizi
che una ricerca promossa dalla Provincia di Venezia e realizzata dal Coses prova
ora a sfatare.
Si chiama "E per patria una lingua segreta" il volume realizzato dai due
ricercatori del Coses Stefania Bragato e Luciano Menetto per conto della
Provincia di Venezia, assessorato alle Politiche sociali. Una ricerca che mai
fino ad oggi era stata realizzata sul territorio veneziano.
«Siamo partiti dalla constatazione che, con la chiusura di quasi tutti i campi
nomadi veneziani, oggi la comunità è pressoché invisibile», spiega l'assessore
provinciale alle Politiche Sociali Rita Zanutel. Oggi, infatti, rimane aperto il
campo di via Vallenari, con tutte le problematiche legate al suo prossimo
spostamento verso Favaro. Non a caso proprio i sinti di questo campo nomadi
(vedi articolo a fianco) sono stati gli unici a non prendere parte alla
realizzazione della ricerca, rifiutando di farsi intervistare.
La ricerca si è sviluppata attraverso interviste a "testimoni privilegiati", in
particolare gli assistenti sociali dei comuni della Provincia, che più di tutti
intercettano le richieste dei nomadi, insieme agli operatori scolastici. E poi
attraverso interviste dirette ai protagonisti.
«Ci siamo chiesti - prosegue l'assessore - dove sono oggi le persone che
vivevano nei campi, come vivono, che percezione hanno della comunità residente e
viceversa».
Invisibili all’anagrafe. Da questo punto di partenza si è sviluppata
l'indagine che approfondisce più gli aspetti qualitativi che quantitativi.
«Avevamo chiesto agli uffici anagrafe dei vari comuni se tra la popolazione
straniera risultassero rom o sinti, ma solo quattro comuni hanno dato risposta
affermativa, mentre noi sapevamo per certo che anche in altri comuni
(incrociando altri dati) vi era la loro presenza», aggiunge Zanutel.
Dati certi, dunque, non ce ne sono. Anche se la stima, incrociando diverse fonti
ha fornito questi risultati: 1466 rom e sinti in tutta la Provincia, di cui 898
residenti, 111 stranieri e 399 minori. Gli italiani sono 653, i kosovari 359 e i
provenienti dalla ex Jugoslavia sono 156.
A questo punto, raccolte le interviste degli assistenti sociali, agli insegnanti
che lavorano in scuole dove frequentano ragazzi rom o sinti, e quelle ai
"nomadi" stessi, sono emersi i primi risultati. «Si tratta soprattutto di
preconcetti che grazie a queste interviste sono via via caduti», spiega Luciano
Menetto che con Stefania Bragato ha realizzato la ricerca.
Il primo preconcetto è che i nomadi sono ormai stanziali. «Noi gagé, cioè noi
non nomadi come siamo chiamati nella loro lingua, crediamo che siano ancora
comunità in movimento, mentre sono stanziali e da molti anni». A questo si lega
un altro giudizio errato, quello cioè che tutti loro amino vivere nei campi e
nelle roulotte: «Non è vero. Molti desiderano una casa». Infine, terzo
preconcetto sfatato, quello che siano quasi tutti stranieri: «Sono invece in
prevalenza italiana e lo sono da generazioni».
Il conflitto generazionale. Sono però comunità in conflitto. «Uno dei
dati che emerge - aggiunge l'assessore Zanutel - è il fatto che vivono la
perdita di identità con profondo disagio. E non mancano i conflitti, soprattutto
tra vecchie e nuove generazioni.
I ragazzi che frequentano la scuola guardano a un modello di vita che i genitori
non capiscono. In particolare le ragazze: esse chiedono di proseguire gli studi
e non vogliono sposarsi giovani come prevede invece la loro cultura».
Una lingua che unisce. Un altro aspetto che emerge dalla ricerca e che dà
il titolo al testo è quello legato alla lingua: queste comunità sono diverse al
loro interno, anche divise da stili di vita diversi. Ne è un esempio il fatto
che gli italiani benestanti, con case di proprietà, non condividono che i
kosovari arrivati da poco accettino anche lavori umili. Eppure, al di là di
queste divisioni, esiste un elemento che unifica e preserva l'identità: la
lingua romanes, un codice solo orale trasmesso di generazione in generazione e
che viene parlato da tutti. «Sono poche ormai le tipicità che contraddistingono
rom e sinti. Una di queste è certamente la lingua», conferma il ricercatore del
Coses. Ed è una risorsa che non vogliono perdere. «Uno degli impegni che ci
siamo presi - conclude l'assessore Zanutel - è la conservazione della lingua
romanes, anche attraverso la sua trasposizione scritta».
Serena Spinazzi Lucchesi
Tratto da Gente Veneta , no.15 del 2007