OPERA NOMADI SEZIONE DI MILANO ONLUS
Lo sgombero di giovedì 14 Dicembre di una piccola comunità di rom rumeni in via
Ripamonti a Milano, riaccende le polemiche sulla presunta “emergenza nomadi” in
città.
Come in un “gioco delle parti”, i rappresentanti di Prefettura, Provincia,
Comune e Casa della Carità che fino a ieri sedevano insieme al tavolo
interistituzionale per disegnare le nuove politiche di accoglienza rivolte ai
rom, si dicono “sorpresi” o del blitz improvviso o delle conseguenze che ha
provocato, riposizionandosi attorno alle proprie sensibilità e al diverso modo
di considerare l’insieme della problematica.
In buona sostanza un “incidente di percorso”, che naturalmente non bisogna
ripetere, ma che lascia le cose così come sono, anche per il futuro.
Ma in cosa consistono le iniziative che “bollono in pentola”?
Da mesi, è in preparazione un Piano di Intervento Comunale che si fonda sulla
sottoscrizione di un “Patto di socialità e legalità” da parte delle comunità rom
e sinte, in cambio di una adeguata assistenza e ospitalità.
Le linee fondamentali del piano prevedono: la creazione di piccoli campi che non
superino le 100 – 150 presenze; il censimento per chi abbia titolo a rimanere in
Italia; aiuti umanitari affidati a gruppi di volontariato; la realizzazione di
una graduatoria dei regolari che saranno poi sistemati nei campi.
Campi che saranno gestiti attraverso un Regolamento che fissa alcuni impegni
essenziali, come l’obbligo di mandare i figli a scuola, inserirsi nel mondo del
lavoro, garantire la pulizia del territorio contro il degrado, “denunciare” le
situazioni di illegalità ecc.
Un percorso “ben chiaro” che assicuri vivibilità e sostegno, seguito da vicino
da associazioni del volontariato e forze dell’ordine, che coniughino sicurezza
con solidarietà.
Com’è ovvio, alcune di queste enunciazioni sono genericamente condivisibili o
quantomeno non esclusivamente riferibili ai rom in quanto tali, ma ai
comportamenti civili che dovrebbero tenere tutti i cittadini e le stesse
Istituzioni.
Altri aspetti, la maggior parte, andrebbero analizzati con più attenzione,
perché ripropongono un’idea stantia di assimilazione, controllo e
assistenzialismo, nel più completo immobilismo culturale.
L’idea di costruire “campi nomadi” (o villaggi della solidarietà) di 100 – 150
persone è, ad esempio, ormai ampiamente superata nella società, per la
consapevolezza degli insufficienti benefici che ne derivano e per il significato
di separazione sociale che li accompagnano, ma è anche respinta dalla
maggioranza delle stesse comunità rom e sinte che appena possono ne rifuggono.
Non si possono poi ignorare le modalità di partecipazione e condivisione del
progetto che i proponenti dichiarano essere la premessa per ogni intervento.
Di sicuro queste non riguardano i diretti interessati, cioè i rom, del tutto
ignari di quanto sopra, ma nemmeno l’arcipelago di piccole o grandi associazioni
che da anni se ne occupano sul territorio, ugualmente escluse anche se citate
per convenienza, che se vorranno continuare ad operare in questo settore
erogando servizi, dovranno sottostare alla medesima logica politica subalterna e
ricattatoria.
Un’ultima considerazione riguarda la presunta offerta di luoghi di ospitalità:
non ve ne sono, né di nuovi né all’orizzonte, nemmeno nell’area provinciale,
dove il rinnovamento politico dell’amministrazione aveva creato molte
aspettative.
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